Sulla pubblicità dei lavori:
Gelli Federico , Presidente ... 3
Audizione del Presidente della Fondazione «Casa della Carità» di Milano, don Virginio Colmegna, della responsabile dell'area cultura, Silvia Landra, e del responsabile dell'ospitalità, Giuseppe Monetti:
Gelli Federico , Presidente ... 3
Colmegna Virginio , Presidente della Fondazione «Casa della Carità» di Milano ... 3
Monetti Giuseppe , Responsabile dell'ospitalità della Fondazione «Casa della Carità» di Milano ... 4
Gelli Federico , Presidente ... 6
Landra Silvia , Responsabile dell'area cultura della Fondazione «Casa della Carità» di Milano ... 6
Gelli Federico , Presidente ... 8
Monetti Giuseppe , Responsabile dell'ospitalità della Fondazione «Casa della Carità» di Milano ... 8
Colmegna Virginio , Presidente della Fondazione «Casa della Carità» di Milano ... 9
Gelli Federico , Presidente ... 10
Patriarca Edoardo (PD) ... 10
Gadda Maria Chiara (PD) ... 11
Beni Paolo (PD) ... 12
Carnevali Elena (PD) ... 12
Gelli Federico , Presidente ... 14
Colmegna Virginio , Presidente della Fondazione «Casa della Carità» di Milano ... 14
Monetti Giuseppe , Responsabile dell'ospitalità della Fondazione «Casa della Carità» di Milano ... 16
Gadda Maria Chiara (PD) ... 17
Monetti Giuseppe , Responsabile dell'ospitalità della Fondazione «Casa della Carità» di Milano ... 17
Gadda Maria Chiara (PD) ... 17
Monetti Giuseppe , Responsabile dell'ospitalità della Fondazione «Casa della Carità» di Milano ... 17
Gadda Maria Chiara (PD) ... 18
Monetti Giuseppe , Responsabile dell'ospitalità della Fondazione Casa della Carità di Milano ... 18
Gelli Federico , Presidente ... 18
Carnevali Elena (PD) ... 19
Monetti Giuseppe , Responsabile dell'ospitalità della Fondazione «Casa della Carità» di Milano ... 19
Gelli Federico , Presidente ... 19
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
FEDERICO GELLI
La seduta comincia alle 13.55.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che della presente audizione sarà redatto un resoconto stenografico e che, ove fosse necessario, anche su richiesta di un commissario ovvero degli auditi, i lavori della Commissione potranno proseguire in seduta segreta. Al riguardo, per assicurare la massima fluidità al dibattito pubblico, prego i colleghi di riservare eventuali quesiti da sviluppare in sede riservata alla parte finale della seduta.
Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione satellitare della Camera dei deputati.
Se non ci sono obiezioni, dispongo, pertanto, l'attivazione dell'impianto.
Audizione del Presidente della Fondazione «Casa della Carità» di Milano, don Virginio Colmegna, della responsabile dell'area cultura, Silvia Landra, e del responsabile dell'ospitalità, Giuseppe Monetti.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del Presidente della Fondazione «Casa della Carità» di Milano, don Virginio Colmegna, della responsabile dell'area cultura, Silvia Landra, e del responsabile dell'ospitalità, Giuseppe Monetti.
Benvenuti. L'audizione odierna rappresenta l'occasione per una riflessione complessiva sul sistema di protezione dei minori stranieri non accompagnati e delle altre categorie di soggetti vulnerabili, tematica che costituisce oggetto di particolare attenzione da parte dell'organo parlamentare.
Nel ringraziare i nostri ospiti per la loro disponibilità a contribuire ai lavori di quest'organo, credo di poter formulare a nome della Commissione anche un ringraziamento per l'opera quotidiana di assistenza a persone in difficoltà svolta dal loro ente di riferimento. L'esperienza maturata potrà sicuramente essere utile alla Commissione per adempiere il mandato di indagine sul sistema di accoglienza dei migranti nella sua particolare prospettiva di protezione delle categorie vulnerabili.
Do, quindi, la parola al Presidente della Fondazione «Casa della Carità», don Virginio Colmegna.
VIRGINIO COLMEGNA, Presidente della Fondazione «Casa della Carità» di Milano. Grazie mille.
Brevemente, anche con i miei collaboratori, presenterò un po’ la nostra attività, ma soprattutto alcuni nodi e alcune sofferenze, nonché alcuni progetti e propositi che vorremmo evidenziare nel quadro dell'esperienza.
«Casa della Carità» è una fondazione che persegue finalità sociali e culturali. Ha sede a Milano, in periferia, in fondo a Via Padova, in zona Crescenzago. È stata voluta dal cardinal Martini, con la scelta di creare una fondazione che accogliesse le persone di qualsiasi provenienza (italiani e stranieri) che hanno un gran bisogno di protezione, ossia gli ultimi degli ultimi, per usare una frase di questo tipo. Inoltre, la sua scelta era che questa fosse una grande Pag. 4esperienza di natura culturale, consapevole com'era che dall'avere uno sguardo sulla città partendo da queste situazioni può nascere una dinamica di cambiamento di cultura.
Ogni giorno ci prendiamo cura in «Casa della Carità» di persone in difficoltà. Vi sono più di 100-130 persone che vi abitano: famiglie senza casa, giovani migranti, mamme con bambini e persone con problemi di salute mentale. Questo è il focus che vorremmo sollecitare in modo particolare, vista anche la situazione nella quale siamo e le sollecitazioni che stanno provenendo da molte parti.
Come specificheremo più avanti, operiamo per garantire alle persone diritti e salute. Il nostro è un laboratorio sociale e culturale. Faccio solo un esempio: abbiamo una biblioteca che ha più di 1.500 abbonati sul territorio del quartiere. Questo è un elemento di forte coesione sociale. Ospitiamo ogni giorno anche anziani sul territorio. Si vanno a prendere in una domiciliarità attiva. Questo crea un grande elemento di coesione sociale nel quartiere, anche se la nostra presenza di solito è portatrice anche di sofferenza e di dinamiche difficili qualche volta da rendere compatibili con il contesto sociale.
La dimensione culturale è importante. Il dato interessante – sul quale esprimiamo anche alcuni interrogativi, che poi arriveranno anche da alcune proposte – è che abbiamo scelto fortemente di adottare uno stile di gratuità per accogliere anche quelle situazioni che non sono dentro il sistema convenzionato, ma che stanno sul territorio. Una parte è in convenzione, ma la stragrande maggioranza degli ospiti è gratuita, nel senso che ha una titolarità, che però va riconosciuta dal punto di vista anche di riflessione.
Con questa scelta otteniamo due risultati, nel senso che riusciamo ad ospitare anche tutte quelle persone che nel sistema accreditato non potrebbero entrare. Questo è uno degli elementi importanti soprattutto in questa fase. Ospitiamo italiani, stranieri, mamme con bambini, situazioni di sfratto, persone che sono anche sgomberate dai campi Rom.
Questo, tra l'altro, è un segnale di grande coesione sociale e di possibilità di abitare, perché è realizzato con una pratica anche culturale di competenza e di attenzione. Su questo ci soffermeremo dopo. A differenza di altri, abbiamo educatori, competenze giuridiche, tre psichiatri a tempo pieno, un infettivologo, una capacità di persone che lavorano anche a questo livello e anche tutta l'espressione culturale di iniziative.
Grazie alla scelta della gratuità, otteniamo due risultati. Ripeto, si tratta di ospitare persone che non entrano nel sistema accreditato e che rimarrebbero escluse dal sistema di welfare. Praticare l'ospitalità promuovendo diritti è un po’ lo slogan che stiamo utilizzando ed è un punto di vista privilegiato anche sulla città. La domanda che entra dalla nostra porta in presa diretta rivela il termometro della città e quello che accade.
Alcuni dati ve li lasciamo, ma per trasmettervi il quadro della dimensione di ricerca, riferisco che abbiamo aperto anche un centro studi, che chiamiamo SOUQ (Centro Studi Sofferenza Urbana), che è coordinato anche da Benedetto Saraceno, il quale è stato per quindici anni il responsabile dell'Organizzazione mondiale della Sanità sul tema della salute mentale e non solo. Stiamo elaborando anche una rivista in due lingue. Questo è uno degli elementi importanti.
In undici anni abbiamo accolto – i dati sono indicativi – 2.507 persone, di 95 nazionalità diverse, da 95 Stati, e 1 apolide. Abbiamo una geografia varia. L'interesse non è di moltiplicare, ma di far diventare questo un laboratorio di ricerca – le nazioni più rappresentate sono Siria e Romania –, segnato al risultato dell'accoglienza nelle emergenze. Poi è rappresentata l'Italia, in questa fase molto in diminuzione. Seguono Eritrea, Egitto, Nigeria, Marocco e Togo.
Adesso lascerei la parola a Beppe, che entrerà nel merito dell'ospitalità.
GIUSEPPE MONETTI, Responsabile dell'ospitalità della Fondazione «Casa della Carità» di Milano. Vi fornisco alcuni numeri per farvi capire che cosa si intende per «Casa». Pag. 5
«Casa» non sono solo le persone che dormono in «Casa della Carità», ma, per tutto il lavoro che la Fondazione ha deciso di portare avanti, l'accoglienza non è solo un'accoglienza residenziale.
Abbiamo preso un giorno come esempio, l'11 gennaio 2016: hanno dormito in «Casa della Carità» 123 persone, di cui 70 uomini, 35 donne e 28 minori. Non abbiamo nella struttura di Via Brambilla dei minori non accompagnati. Abbiamo delle altre strutture più piccole, nelle quali ospitiamo i minori non accompagnati. Questi minori sono figli delle famiglie oppure di mamme con bambini che ospitiamo nella residenzialità.
Per noi «Casa» vuol dire anche 138 persone seguite in 37 appartamenti dislocati sul territorio di Milano e provincia, reperiti o da privati che danno in gestione alla «Casa della Carità» l'appartamento o da alcuni beni confiscati alla mafia e riutilizzati in modo adeguato per persone in stato di necessità.
Ci sono 45 persone che vengono ogni giorno a fare la doccia (si tratta di una media, perché a volte sono molte di più). Sono non solo tutte quelle persone che vivono in situazioni e territori come le favelas o i campi abusivi, ma sono anche – sempre di più – quelle persone che hanno un'abitazione ma che, non potendosi più permettere di pagare le utenze, vengono a fare la doccia calda in «Casa della Carità».
Inoltre, 600 persone hanno la residenza in «Casa della Carità». Con Libera stiamo cercando di portare avanti un'iniziativa perché il Comune offra la possibilità alle persone che non hanno una dimora fissa in questo momento di prendere la residenza nei vari consigli di zona.
Tutta questa attività portata avanti da Miseria Ladra con Libera, di cui don Virginio è sicuramente uno dei promotori, non è ancora arrivata a definizione. Per questo motivo «Casa della Carità» offre la possibilità ad alcune persone che – fate attenzione – vengono prese in carica. Questo vuol dire che ogni persona che appoggia la residenza in «Casa della Carità» ha una cartella sociale nella quale è seguita per diverso tempo. Poi le viene data la residenza e tutto ciò che la residenza comporta, ossia i contatori per la possibilità di chiedere la casa popolare, la presa in carico dei servizi sociali del territorio e via elencando.
Oltre a questo, offriamo anche più di mille domicili all'anno. Il domicilio è ancor più necessario. Non fa accedere a tutti i diritti che garantisce la residenza, ma è necessario, soprattutto per le persone straniere, per avere un luogo da dichiarare in questura nel quale poter essere contattate e rintracciate, altrimenti ci sarebbe il problema del rinnovo del permesso di soggiorno.
Questo ci dà una visione sul territorio molto ampia. Notiamo i flussi. Per esempio, negli ultimi anni abbiamo visto, se ricordiamo l'emergenza Nord Africa del 2011, che a un certo punto è stato dato il permesso per motivi umanitari a livello globale ed è stato dato a tutti. Tantissime di queste persone girano sul territorio, non avendo ancora una situazione stabile. Tornano, quindi, alla nostra Fondazione per essere aiutate in tutte quelle pratiche burocratiche di accompagnamento al rinnovo dei documenti e al tentativo del reinserimento sociale.
Questo forse ci dice anche delle difficoltà che si sono avute in quel caso di grande affluenza. Sono stati creati forse dei luoghi di accoglienza molto grandi e le persone non sono state seguite in modo adeguato, tant'è vero che ci accorgiamo di persone che sono sul territorio nazionale da diversi anni e che ancora hanno difficoltà nell'apprendimento della lingua. Sappiamo bene che una delle cose che venivano chieste agli enti che accoglievano è quella di provvedere all'insegnamento della lingua, tant'è vero che «Casa della Carità» è molto attiva anche in questo grazie ad un gruppo di volontari.
Ripetendo quello che diceva già don Virginio, per noi «Casa» significa anche 60 anziani del quartiere che frequentano la «Casa» e vengono al centro diurno due volte alla settimana con i nostri operatori, ma anche con i volontari. Questo ha permesso alla «Casa» di aprirsi al territorio. Badate bene che, come diceva don Virginio, Pag. 6«Casa della Carità» è un luogo periferico, dove le problematiche sono trasversali. C'è mancanza di lavoro, e altre difficoltà. Essere un punto di riferimento per il quartiere diventa una questione importante.
Cinquantacinque persone sono seguite per strada dal Progetto Diogene. Il Progetto Diogene segue i veri e propri clochard, quelle persone che non verrebbero neanche a dormire alla «Casa della Carità» o in un altro centro d'accoglienza, quelle che vivono nello stato più difficile. Abbiamo delle équipe di strada, composte da educatori e da uno psichiatra, che si recano a trovare le persone sul posto.
Ovviamente, il percorso con queste persone è faticosamente quello di accompagnarle ad uscire da questa situazione di precarietà assoluta. Alcune di queste persone poi vengono accolte in un percorso in «Casa della Carità».
Novanta persone sono seguite nel progetto che abbiamo nel territorio di Molise-Calvairate, sotto il nome di «Proviamoci Assieme». Quindici persone sono seguite dal nostro centro diurno (sono persone con una fragilità psichica più accentuata). Trenta persone sono seguite in un progetto con il nostro CPS (Centro psico-sociale) di zona, che è quello di via Asiago. Anche queste sono persone con fragilità psichica.
Infine, per 170 persone adesso abbiamo in gestione un CES (Centro di emergenza sociale) del comune di Milano, in Via Sacile. Inizialmente erano quasi tutte persone provenienti da sgomberi di campi abusivi Rom, ma adesso il centro è sempre più multiculturale. Abbiamo diverse famiglie con gli sfratti in flagranza o che hanno situazioni di precarietà abitativa grave.
Un ultimo dato che vi fornisco è quello dell'età. Il maggior numero di persone ospitate ha tra i 18 e i 39 anni. 716 persone hanno tra 0 e 17 anni. Influisce molto su questo numero il numero delle emergenze. Per due anni consecutivi, durante l'estate, utilizzando dei locali di parrocchie nostre amiche, che hanno scelto di far gestire alla «Casa della Carità» i loro locali, abbiamo ospitato i profughi provenienti dalla Siria e dall'Eritrea. I bambini in quel caso erano tantissimi. Sono 850 persone tra i 18 e i 30 anni, 658 persone tra i 31 e i 45 anni, 250 persone tra i 46 e i 60 anni, 37 persone fra i 61 e i 75 anni, 5 persone oltre i 75 anni. Le 5 persone oltre i 75 anni sono tutte persone italiane che non sono riuscite a entrare nelle RSA (Residenza sanitaria assistenziale). Il nostro intento è proprio quello di riuscire a portarle a questo obiettivo.
PRESIDENTE. Grazie.
Do la parola alla dottoressa Landra.
SILVIA LANDRA, Responsabile dell'area cultura della Fondazione «Casa della Carità» di Milano. Grazie. Correttamente sono stata nominata e associata alla parola «cultura» perché mi occupo di quello oltre che di formazione, ma il focus su cui vorrei portare l'attenzione adesso in maniera più specifica è quello della salute mentale. Metterò, quindi, soprattutto il «cappello» di psichiatra.
Prima don Virginio faceva cenno alla scelta specifica di avere anche dei medici a tempo pieno. Questa è una scelta vissuta anche da noi in maniera particolare, perché non siamo dei consulenti che svolgono alcune ore, ma siamo un personale stabile e svolgiamo spesso anche questa doppia funzione sia di riflessione, studio e formazione, sia di azione clinica diretta. Questo ci mette in una posizione differente che non quella di giungere solo – non sarebbe neanche poco – sulla situazione emergenziale o in maniera più specifica su quella clinica.
Nella riflessione che fa riferimento al Centro studi presente in «Casa della Carità» uno dei concetti importanti su cui abbiamo riflettuto – e che cerchiamo, attraverso la ricerca che stiamo conducendo con la collaborazione dell'Istituto Mario Negri, anche di confermare costantemente con la pratica – è l'idea della multirisposta. Una struttura complessa come quella che è stata descritta, dove c'è la possibilità per persone gravemente emarginate di dare nell'unità di tempo tipi di risposte diverse, anche quella strettamente clinico-sanitaria, permette di intervenire e di prevenire più facilmente (non è sempre facile) i percorsi di marginalizzazione sociale. Pag. 7
Spesso, quando alle persone si propone di andare in servizi diversi per ricevere risposte diverse, si finisce per perderle, in un percorso che diventa per loro non gestibile. Dalla doccia alla psicoterapia succede che nello stesso spazio, almeno in una fase iniziale, si fornisce loro una risposta.
Conoscendoci anche come soggetto di questo tipo, dentro un dialogo che in questi anni è stato sempre più proficuo, anche con il Comune di Milano e con le varie Istituzioni, finiamo per essere identificati un po’ come – lasciatemi passare l'espressione – gli specialisti di questa salute mentale come problema complesso. In particolare, da giugno 2013 abbiamo attivato nelle nostre accoglienze anche due progetti specifici che riguardano gli stranieri.
In particolare, dal giugno 2013 abbiamo accolto 47 persone nel progetto che si chiama proprio «Vulnerabili». Sono persone straniere, 10 donne e 37 uomini, che hanno delle patologie importanti o fisiche o psichiche. Crediamo che ci inviino preferenzialmente le persone con grave disagio psichico, conoscendoci, perché del nostro campione di 47 soggetti il 90 per cento ha una patologia psichiatrica molto complessa e solo il 10 per cento ha una malattia organica o una disabilità fisica.
Le persone con il problema psichiatrico che arrivano da noi di solito – non sempre, ma vi riporto una tipologia, che è quella che ci impegna moltissimo – sono persone che magari hanno un deficit cognitivo o che hanno vissuto un trauma molto importante per il viaggio o per la guerra da cui scappano e poi magari nella problematicità c'è anche l'abuso di sostanze o l'alcolismo. Su questo si è innestata una franca diagnosi psichiatrica. Sembra che stia esagerando, ma non è così: questa è la tipologia. Abbiamo spesso a che vedere con questo campione multiproblematico.
L'altro progetto si chiama proprio «SPRAR Disagio mentale» e riguarda nello specifico i richiedenti asilo. In un anno e mezzo abbiamo accolto 14 persone. Adesso ne abbiamo 6 presenti. Ne sono state dimesse 8. Anche qui fondamentalmente, tra psicosi e gravi disturbi di personalità, abbiamo a che fare con questa problematica. È su questo punto che vi poniamo alcune questioni su cui ci stiamo interrogando. Magari interverranno meglio i miei colleghi, ma lo scenario ci dice che prima si riesce a intervenire con queste patologie e meglio è. Sembrerà banale ma, anche se emigrano soprattutto le persone sane – e lo sappiamo –, se gli ulteriori percorsi che poi devono fare – magari si tratta di persone già fragili di loro – sono molto complessi e privi di interventi sociali corretti e sanitari precisi, si finisce per aumentare, attraverso la marginalizzazione sociale, il rischio di sviluppare una serie di patologie psichiche.
Aumentano le persone che hanno effettivamente vissuto guerriglia e guerra – questi sono tutti dati del mondo, che è una polveriera – e le forme di ritraumatizzazione secondaria e quanti più sono gli stress che essi devono subire, tanto più tali forme sono marcate.
A noi sembra importante dire che non è tanto una questione di allarme specifico quella che ci preoccupa, ma una condizione di gravità e di complessità che, se non viene vissuta come allarme, può essere affrontata in tempo debito con delle strategie precise. Questo è forse il tema che ci interessa di più.
I dati effettivamente sono importanti. Il famoso disturbo post-traumatico da stress, di cui si dice tanto che sia una patologia leggera, in realtà è una patologia molto complicata, che si sviluppa con tanti tipi di sintomi, quando una persona rischia di morire o vede rischiare di morire altre persone o subisce dei traumi molto gravi (i viaggi e via elencando). È tutta una materia che conosciamo.
Nella popolazione generale questo è un disturbo che ha una frequenza dal 3 all'8 per cento. Nella popolazione che impattiamo ha una frequenza che si aggira attorno al 41 per cento (abbiamo preso questi dati da un articolo del marzo 2016 del Redattore Sociale, sono i dati dell'Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti). Poi ve li lasciamo o andiamo a vederli.
Così anche le altre patologie hanno delle frequenze maggiori. La più significativa è il disturbo da stress. I dati e gli studi non Pag. 8indicano numeri molto precisi, o almeno i numeri precisi che abbiamo sono reperibili dagli ambulatori che lavorano con i migranti. Non ci sono, in realtà, dei dati che vengano da una ricerca nazionale specifica.
È inutile – perché è ovvio – ma significativo dire che spesso il primo approccio con la diagnosi del problema è nel Servizio psichiatrico e di diagnosi e cura, quindi nell'emergenza, e che tra i migranti c'è il maggior numero di dropout dopo perché, una volta impattato con il servizio di emergenza, non c'è continuità, per tante ragioni. Inoltre essi subiscono anche il maggior numero di contenzioni per i problemi di intesa, di lingua e via elencando.
C'è un'attenzione particolare che dentro un progetto in collaborazione con realtà pubbliche e private stiamo iniziando a sviluppare, che riguarda le vittime di tortura. Ci stiamo impegnando in un progetto con il comune di Milano, l'Università degli studi, Dipartimento di medicina legale, e un'altra realtà – Farsi Prossimo – di privato sociale. Nel progetto si vuole mettere a punto un modello di intervento, che già stiamo sperimentando nella pratica, che tenga conto di tutto, anche – la medicina legale è un'aggiunta significativa – del riconoscimento delle lesioni da tortura. Poi c'è anche tutto il tema del riconoscimento dei morti, delle vittime. Questi sono, velocissimamente, i capitoli di attenzione.
Perché è importante vedere anche i dati che riguardano le vittime di tortura? Perché anche qui – se letti senza allarmismo, ma con attenzione al problema – essi ci dicono che su 100 di questi profughi 60 sono stati vittime di violenza e di tortura importante, estrema; penso alle prigioni libiche, ai campi di raccolta, a quello che è successo nei Paesi di origine.
A tutto questo si aggiunge che l'essere minori è un'aggravante, come l'essere portatori di un disturbo psichico o avere problemi fisici. Questi sono dati presi, invece, da uno studio del 2015 di Medici per i diritti umani.
PRESIDENTE. Vuole continuare?
Do la parola al dottor Monetti.
GIUSEPPE MONETTI, Responsabile dell'ospitalità della Fondazione «Casa della Carità» di Milano. Porto un taglio anche sui minori non accompagnati. Milano è una meta ambita da tanti minori non accompagnati.
Noi siamo stati parte di un progetto, denominato «Emergenze sostenibili», che ha fatto un tentativo sperimentale, tra pubblico e privato, su un'accoglienza non in comunità per minori tout-court, ma diffusa sul territorio, ovviamente con l'accompagnamento da parte degli educatori, sicuramente per contenere le spese ma anche perché la fascia dei ragazzi che arrivavano era prevalentemente tra i 16 e i 18 anni. Il rischio delle comunità per minori è che si portano i ragazzi al compimento del diciottesimo anno con l'educatore a casa che fa loro la pastasciutta, ossia trattandoli da ragazzini, mentre a 18 anni e un giorno subentra il problema del «Ciao, non ho più niente da darti».
L'idea di «Emergenze sostenibili», che ha avuto un campione 431 ragazzi, è stata quella di una distribuzione in appartamenti e di un accompagnamento molto forte all'autonomia con l'inserimento lavorativo e con l'accompagnamento anche a soluzioni abitative in semi-autonomia al compimento del diciottesimo anno di età. Nel 2013 – vi fornisco alcuni dati – sono stati accolti 137 ragazzi, nel 2014 ne sono stati accolti 150 e nel 2015 144.
La questione che mi premeva farvi comprendere è questa dell'accoglienza abitativa diffusa e del radicamento territoriale e quindi proprio dell'accompagnamento ai ragazzi, ai minori, ai giovani adulti a radicarsi e a confrontarsi sul territorio. Non si tratta di avere scuole ad hoc, ma dell'inserimento nelle scuole e dell'utilizzo proprio dei servizi del territorio in tutte le sue accezioni.
Vi è una multidisciplinarietà delle figure professionali coinvolte che tiene conto della fragilità e dell'accompagnamento anche psicologico di alcuni di questi ragazzi. Ci sono gli educatori, ma anche l'inserimento nelle società sportive, ossia quello che di fatto serve per radicarsi e costruirsi un'autonomia successiva. Infine, come vi dicevo, vi è Pag. 9la partnership nella gestione tra pubblico e privato insieme, la co-progettazione.
Questo è quanto è stato fatto.
VIRGINIO COLMEGNA, Presidente della Fondazione «Casa della Carità» di Milano. Dopo tutta questa esposizione siamo qui ad indicare alcune proposte e a porre alcuni interrogativi. Certamente, con riguardo al tema della sofferenza psichica, nella lettura per esempio di Milano, area metropolitana, calcolate che la presa in carico dell'immigrazione su un solo ospedale, l'ospedale di Niguarda, crea già un sovraccarico sulla cura pronto soccorso-DSP (Dipartimento di Sanità Pubblica) che evidentemente non viene gestito e genera casi che non sono d'allarme sociale. Se però non vengono individuati percorsi d'intervento, si possono ricreare abbandono, sistema del revolving door, TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), contenzione e ripetizione, soprattutto per quel numero di casi che sfuggono a qualsiasi ragionamento.
Le nostre proposte sottolineano l'importanza di sollecitare il riconoscimento precoce delle persone con sofferenza psichica. Questo aspetto ha bisogno di essere valutato per fare dei percorsi particolari, in cui è necessaria una presa in carico che è parte del sistema sanitario, non solo di quello sociale e di quello dell'emergenza. Quindi, va rimessa in gioco l'attenzione sanitaria.
Appunto per questo nella collaborazione fra pubblico e privato è assolutamente necessaria – ce lo fanno dire alcuni casi che poi sono diventati di notizia – la tempestività delle Commissioni territoriali, soprattutto per le persone fragili che devono entrare nel sistema sanitario e che, invece, sono solo richiedenti asilo, senza essere convocate. Tra l'altro, vi è una modalità di convocarle che qualche volta deve essere in contumacia, perché ha bisogno assolutamente di avere una titolarità che poi permetta di avere una presa in carico sanitaria in residenze adeguate, che non sono, nel numero di accoglienza, di sovrapposizione sull'emergenza.
Questo crea un nodo non da poco, perché questi soggetti premono sul pronto soccorso e poi sulla cura, con un andare e rivenire in una carica che crea allarme sociale, mentre dovrebbero essere presi in carico dal sistema sanitario. Il tema del tempo dell'assunzione del riconoscimento è estremamente importante.
Vi è poi la necessità di programmi di ricerca, credo, altrimenti si crea allarme. Ultimamente a Milano è cresciuto un allarme che, invece, va documentato non essere quello. Vanno prese in carico le situazioni, altrimenti si creano delle situazioni che non funzionano.
Il tema della salute, in questo caso della salute psichica, credo che debba essere affrontato rimettendo in gioco anche il sistema sanitario. Occorre prevedere e favorire programmi di interventi sperimentali che non possono essere evidentemente nella modalità generica, laddove ci sono queste situazioni che si moltiplicheranno, perché c'è bisogno non soltanto dell'intervento di emergenza. Penso a comunità residenziali e a contesti relazionali e riabilitativi che tengano conto della specificità di un'utenza tanto complessa, che non può essere uguale ad altre e messa dentro sotto il capitolo «emergenza nell'anonimato».
Questi soggetti poi stanno sul territorio e diventano un costo aggiuntivo segnato dall'emergenza, con una situazione di abbandono, perché li si cura e li si lascia sul territorio. Per esempio, non c'è la presa in carico dei farmaci e altro. I TSO costano, con tutto quello che ciò significa. Potremmo citare casi che fanno intravedere l'urgenza di affrontare anche questo problema specifico.
La formazione del personale sociale sanitario è una formazione complessa. Prima veniva citata. Della presenza nei servizi sanitari di mediatori culturali c'è un grande bisogno. Tra l'altro, va proprio nella linea della sicurezza sociale, della presa in carico e del dare un quadro di assunzione. Se c'è un soggetto ammalato di fegato e io dico che viene curato così, questo è uno degli elementi che non può essere abbandonato e andare nel discorso generico.
Sui minori è già stato detto: l'accoglienza per i minori deve essere diffusa su tutto il territorio in strutture a dimensione familiare. Non vorrei che dopo tanta fatica per de-istituzionalizzare sostanzialmente poi Pag. 10ci ritroviamo in situazioni drammatiche, tra l'altro con un investimento importante.
Abbiamo usato adesso uno slogan – «de-istituzionalizzare l'emergenza» – perché di fatto abbiamo bisogno assolutamente di far intravedere che stiamo affrontando un problema complesso, articolato e strutturale, che, come tale, ha bisogno dell'individuazione di presenza e non semplicemente del generico aspetto di accoglienza.
L'etnopsichiatria, per esempio, è un progetto che sta a servizio nell'ospedale Niguarda. Noi chiediamo che venga diffuso, ma di fatto anche la nostra struttura in collaborazione ha una presa in carico, perché la quotidianità ha bisogno di una cura anche a questo livello.
Credo che sia utile l'idea di andare a individuare questo, prevenendo gli allarmi sociali e le preoccupazioni che ci sono, anche laddove si sfida tutto il ragionamento che – voi capite – prevede anche un tema che riguarda la pericolosità sociale, con tutto quello che ciò significa dal punto di vista di strutture sanitarie, di Rems e di alternative.
Stiamo preparando una riflessione che faremo entro la metà di maggio, ragionando insieme. Abbiamo fatto anche un incontro, l'altro giorno, con il carcere di San Vittore, con la direttrice e anche con gli altri, perché obiettivamente questo tema – non della pericolosità sociale generica, ma dell'affrontare anche situazioni in cui si vede che c'è questa preoccupazione – va affrontato in anticipo, in termini preventivi, per evitare poi che arrivi un problema.
Grazie. Il materiale ve lo lasciamo.
PRESIDENTE. Certo. Grazie, don Colmegna. Grazie a nome di tutti.
Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
EDOARDO PATRIARCA. Anch'io ringrazio don Virginio. Questa è anche un'occasione per rivederci. Provo a porre alcune questioni che riguardano un po’ l'attività di questa Commissione. Essa ha, ovviamente, il compito di indagare anche in una fase inquirente, ma anche e soprattutto quello di consegnare al Parlamento, alla conclusione del suo mandato, come è stato già ribadito, delle prospettive, delle linee di soluzione, delle proposte.
Procederò molto schematicamente. Lei parlava di gratuità. Visto che sul tema delle risorse, come sappiamo tutti, leggendo i giornali, e non solo – perché questa Commissione è anche un po’ talvolta scoperta –, sul tema delle risorse e sull'uso delle risorse ci sono state denunce e coinvolgimenti – ahimè – anche di realtà del cosiddetto terzo settore, e visto che lei parlava di gratuità, le chiederei come la Fondazione gestisce eventualmente le risorse. Vorrei sapere se giungono delle risorse formali e ufficiali da parte delle Istituzioni oppure se la Fondazione si muove in maniera autonoma con le proprie risorse e con le donazioni.
La seconda cosa che chiedo riguarda il rapporto con le Istituzioni. I flussi in quest'ultimo periodo sono aumentati, sono cresciuti? Come funziona l'accoglienza? Se stiamo cercando di individuare nuovi modelli di accoglienza, le connessioni tra Istituzioni e realtà come quella della «Casa della Carità» sono importanti e strategiche. Mi domandavo come funzionano. Come arrivano gli ospiti nella vostra casa e con quali modalità? Sono le solite che conosciamo, cioè tramite i prefetti, oppure ci sono altre forme?
Un'altra cosa che chiedo è come gestite il modello diffuso. Se ho capito bene, la «Casa della Carità», soprattutto per quanto riguarda i minori, dispone di appartamenti. Questo è un modello sul quale abbiamo indagato e sul quale la Commissione ha lavorato e vorrà lavorare. Mi domandavo come gestite una struttura, giustamente familiare, immagino anche diffusa e articolata, e come viene governato il processo di accoglimento e di accompagnamento, soprattutto laddove si parla di minori.
Questo tema della domiciliarità è importante. Io lo reputo strategico e molti di noi lo reputano strategico. La gestione della rete delle strutture familiari diventa una questione strategica perché potrebbe anche verificarsi l'abbandono, nel senso che i soggetti Pag. 11 vengono lasciati in appartamenti e poi, come si dice, si salvi chi può. Vi chiedo come funziona questo rapporto di monitoraggio.
Passo all'ultima domanda. Spesso don Virginio ha parlato, come anche i suoi colleghi, di co-progettazione. Come funziona questa co-progettazione rispetto all'emergenza che conosciamo e che abbiamo indagato in quest'anno di lavoro? Di co-progettazione se ne vede davvero poca, non per colpa delle Istituzioni, ma talvolta perché è proprio l'emergenza. Chiedo come funziona e se c'è davvero questa co-progettazione, che viene spesso evocata, e che anche voi avete evocato, tra pubblico e privato.
L'ultima domanda riguarda i minori. Sto facendo un'enciclopedia. Avete il grado di successo? Rispetto al vostro percorso di accompagnamento potete dire che su un determinato numero di minori la vostra azione ha portato ad un successo di integrazione? Quant'è questa percentuale? Quant'è il grado di successo e insuccesso? Immagino che ci siano anche gli insuccessi, ahimè. Chiedo se avete dei dati. Anche per noi, per la Commissione, sarebbe bene avere dei dati così utili e importanti.
Chiedo scusa se mi sono dilungato.
MARIA CHIARA GADDA. Anch'io conosco l'esperienza di «Casa della Carità», realtà che ho anche avuto modo di vedere personalmente, visitando la struttura. Confermo assolutamente che le parole che abbiamo ascoltato oggi corrispondono anche ai fatti e a quello che realmente avviene quotidianamente.
Vorrei concentrare l'attenzione su alcune domande legate ai migranti e ai richiedenti asilo. Come abbiamo ascoltato, «Casa della Carità» ospita persone di diverso tipo, con diverse situazioni di marginalità e di disagio.
Una domanda nasce quello che ha chiesto il collega Patriarca: vorrei capire da dove provengono i richiedenti asilo e quindi da che tipologie di strutture e se nella presa in carico avete riscontrato delle difficoltà specifiche e delle condizioni di disagio che si sono aggiunte al disagio pregresso legato ai Paesi di provenienza, al viaggio e anche magari talvolta alla gestione in altri tipi di strutture e, se sì, se vi è capitato di segnalarlo alle autorità competenti.
Chiedo poi un elemento di approfondimento: vorrei sapere se vi è capitato di gestire situazioni legate a vittime di tratta e come le avete gestite.
Un altro elemento di particolare attenzione, che credo sia rilevante, anche perché è stato oggetto di ampio dibattito pubblico, è la famosa emergenza dei siriani in Stazione centrale a Milano. Vorrei sapere qual è stato il rapporto con le Istituzioni locali e regionali, se avete accolto parte di queste persone nella vostra struttura o nelle strutture collegate e diffuse e qual è stato il prosieguo di quest'attività.
L'ultima domanda riguarda le Commissioni di valutazione. Se queste persone sono richiedenti asilo, la presa in carico è legata anche al supporto di tipo legale e all'accompagnamento alle audizioni che vengono fatte. Mi pare di capire dal vostro intervento che le persone per le quali è dichiarato e acclarato un disagio di tipo psichico anche grave non abbiano un canale di priorità nella valutazione delle domande da parte delle Commissioni, anche nel momento in cui questo viene certificato dal personale sanitario che ha la competenza nel farlo.
Un'altra domanda riguarda anche il grado di specializzazione delle Commissioni. Vorrei sapere se ritenete che le persone preposte alla valutazione di queste richieste abbiano anche competenze legate all'individuazione del disagio psichico. Se i numeri sono quelli che avete detto in termini percentuali, ossia se il 60 per cento delle persone che richiedono asilo o che comunque vengono ospitate nelle nostre strutture di diverso tipo sul territorio nazionale hanno queste caratteristiche, mi permetto di dire che probabilmente un focus, o un approfondimento, sulla questione del disagio psichico sarebbe necessario.
L'ultima domanda riguarda i minori. Effettivamente un minore di 5 anni e uno di 17 non sono la stessa cosa in termini di gestione, ma anche di prospettiva del minore stesso. La vostra è un'esperienza particolare. Pag. 12 Le strutture per minori, invece, non fanno questa differenza legata all'età. Vorrei sapere se si può entrare più nel dettaglio su come potrebbe essere una proposta legata alla gestione dei minori, che è anche più costosa rispetto alla gestione di una persona adulta.
PAOLO BENI. Devo dire che, in effetti, molte delle cose che volevo chiedere le ha chieste ora la collega. Quindi, mi unisco. Colgo l'occasione, fra l'altro, per ringraziarvi. La vostra è un'esperienza conosciuta, ma sentirvela esporre mi rinnova la convinzione che siamo di fronte ad un'esperienza d'eccellenza che secondo me è molto interessante e diventa anche un osservatorio privilegiato dal punto di vista degli ultimi – ma proprio ultimi – delle dinamiche del disagio sociale in una città come Milano. Credo quindi che il vostro contributo vada oltre i concreti effetti sulle persone seguite e che possa anche fornire delle indicazioni.
Tornando al tema di cui ci dobbiamo occupare per dovere istituzionale – qui si aprirebbe tutto un altro fronte, che ora non tocco, che è quello degli italiani con forte disagio e con grave esclusione sociale – ossia tornando al tema degli stranieri, voglio capire proprio molto schematicamente una cosa: nella media delle persone che voi assistete, che rientrano fra i 130 che dormono lì e anche negli altri servizi disseminati sul territorio, che mi sembra coinvolgano qualche altro centinaio di persone fra le residenze, gli operatori di strada e via elencando, quant'è la percentuale di stranieri e di italiani? Fra questi stranieri, quanti sono di recente arrivo?
La situazione cambia molto. Ci sono i transitanti che arrivano dai recenti sbarchi, tanto per capirsi, oppure ci sono quelli già stabilmente presenti nel territorio o nella città di Milano, ma socialmente emarginati? È una cosa diversa, che poi si ricollega a quello che diceva la collega rispetto alla questione di quanti di questi rientrano nel sistema di accoglienza predisposto dal Ministero dell'interno e quanti ne sono fuori.
A parte quelli che dormono lì, c'è qualcuno che è già inserito nel sistema presso altri centri e che, quindi, se ha bisogno di questi servizi da voi, vuol dire che non lo trova negli altri centri? A noi interessa capire anche questa dinamica.
Vorrei sapere questo, essenzialmente. Mi fermo.
ELENA CARNEVALI. Innanzitutto ringrazio don Virginio e tutti voi, che avete accettato l'invito di venire qui oggi. Per noi è molto importante, perché è difficile affrontare, come stiamo facendo ormai da quasi un anno, la complessità di una Commissione d'inchiesta sui sistemi d'accoglienza, in merito ai quali, peraltro, ci siamo anche suddivisi in gruppi di lavoro.
Abbiamo messo tra l'altro nei nostri impegni – e in parte la stiamo già facendo – quell'analisi che riguarda soprattutto la vulnerabilità, ossia le persone più vulnerabili e i minori. Credo che l'esperienza che ci avete raccontato oggi, come già molti colleghi hanno detto, ci aiuti ad indirizzarci verso un miglioramento, perché attualmente – credo di non dire una cosa che possa stridere alle nostre orecchie – molto è affidato al privato sociale. Questo è il fattore rilevante che emerge.
Condivido la proposta che prima faceva don Virginio di riconoscere che, nell'affrontare il tema del riconoscimento della protezione umanitaria, ci sia una condizione necessaria, per le ragioni che avete detto prima, di un'anticipazione. Occorre riconoscere che la vulnerabilità comporta una priorità di accesso. Questo diventa necessario per la presa in carico pubblica. Ciò non significa che si esaurisca nella sfera pubblica, che in parte non fa il suo mestiere. Molto probabilmente questo significherebbe forse lavorare meglio all'interno del circuito sanitario.
Credo che questa sia una proposta che possiamo portare all'attenzione del Governo. Credo che vada apprezzato sicuramente lo sforzo che è stato fatto di portare da 20 a 40 le Commissioni territoriali. Sono nate anche alcune sezioni. Vengo da Bergamo, dove ne è appena stata aperta una. Devo dire che smaltire il pregresso e prenderci carico di quelli che arrivano sicuramente dà un po’ di lavoro da fare. Pag. 13
Proprio per questa ragione non credo che non possiamo rilevare che c'è un'oggettiva esigenza nei confronti delle condizioni di vulnerabilità, come quelle che ci avete raccontato oggi, di riuscire a capire con il Governo se possiamo identificare delle scelte prioritarie. Credo che questa sia una cosa che possiamo impegnarci a fare.
Mi dispiace di essere arrivata tardi per ragioni di lavoro, ma spero di aver colto il senso e vorrei capire alcune cose. In base all'esperienza anche personale che ho, so che il tema del rapporto tra diagnosi dei migranti e condizioni di vulnerabilità riveste oggettivamente una specificità particolare, perché il disturbo psichiatrico o il disturbo di salute mentale, non solo in chi ha subìto violenze e torture, richiede anche una scienza specifica su questi argomenti. Va riconosciuto, quindi, il fatto che c'è bisogno anche di una specificità.
Il fatto che, come diceva prima don Virginio, il Niguarda per tutta l'area metropolitana e milanese sia l'unico punto di riferimento è un problema rilevante. Pertanto, la prima domanda che mi tocca farvi riguarda, a questo punto, il rapporto con le competenze definite dal nostro architrave costituzionale in materia, che sono delegate alla Regione, in questo caso alla Regione Lombardia.
La seconda domanda è se avete avuto la possibilità... Noi non abbiamo avuto la fortuna – l'abbiamo chiesto più volte – di riuscire ad avere Maroni in audizione. Non abbiamo avuto questa gloria, perché non possiamo contare sulla sua attenzione. Sono venuti Zaia e altri, ma di sentire Maroni non abbiamo avuto la possibilità, neanche quando siamo venuti a Milano e poi siamo andati a Bergamo. Credo, però, che la possibilità di affrontare il tema con le strutture competenti, al di là del presidente, sia importante. Pertanto, vorrei riuscire a capire che tipo di risposta avete avuto e se avete avuto la possibilità di sollevare il tema.
Con riguardo all'anticipazione, si tratta di capire se – ovviamente, il nostro prossimo interlocutore è il Ministero della salute – in alcune aree territoriali riconosciamo, sulla base di dati epidemiologici, perché questa è una programmazione (penso che a nessuno di voi sfugga di dover partire anche dai dati epidemiologici) la possibilità di individuare altre polarità. Magari non ha alcun senso che apriamo un altro polo a Bergamo o da un'altra parte. Dipende molto anche dai numeri. È chiaro che questa questione va affrontata.
La co-progettazione so essere un'esperienza molto positiva. Vedo che ormai quasi tutte le amministrazioni, o molte amministrazioni, ragionano più in termini di bandi di co-progettazione. Questo permette soprattutto di mettere a sistema anche tutta la parte delle associazioni di volontariato – non è legato solo ai sistemi cooperativi – e quindi dà un buon frutto.
La cosa che voglio riuscire a capire, invece, è come si innesta la vostra esperienza rispetto all'architettura che è stata pensata a livello ministeriale. Da quello che abbiamo sentito in un anno di audizioni sia la parte dei minori, sia la parte relativa alle persone vulnerabili – sulle quali tra l'altro dovremmo fare ragionamenti anche di genere – dovrebbero andare soprattutto negli SPRAR. Vorrei sapere, quindi, come voi state all'interno dello SPRAR e quali sono i limiti e le carenze che vedete all'interno di questo modello organizzativo soprattutto.
La domanda si collega anche al rapporto che avete fatto sui minori. Abbiamo superato la questione da tempo. Sapete che adesso al Senato c'è la proposta di legge prima firmataria onorevole Zampa che dovrebbe andare, peraltro, a rafforzare ancora di più la prospettiva che abbiamo in cantiere, che è quella, soprattutto per la fascia tra i 15 e i 18 anni, di non inserire questi soggetti nelle strutture per minori.
Poi c'è il tema dell'apprendere l'autonomia o la semi-autonomia. Avete parlato di inserimento lavorativo. La mia domanda è anche specifica rispetto alla formazione. Vedo che in alcuni territori qualche protocollo in particolare con le scuole di formazione professionale sta non dico funzionando, ma almeno iniziando a ragionare in questi termini, perché questi ragazzi hanno anche bisogno di essere professionalizzati, di essere formati per essere poi spesi. Anche Pag. 14 in questo caso come si innesta il vostro modello organizzativo con il sistema SPRAR?
Noi abbiamo fatto anche un'altra puntualizzazione, come Commissione. So che tocco un tema aperto: la questione economica. So benissimo che è un tema aperto. Non solo le Caritas regionali, ma anche la Caritas nazionale aveva posto il tema della quota economica relativa alla parte dei minori che non era sufficiente per comprendere tutte le attività che dovrebbero coinvolgere soprattutto l'inserimento della fascia legata ai minori.
Questi vengono col sistema SPRAR, che è un modello diverso dai CAS prefettizi. Vorremmo capire se, a vostro giudizio, gli ultimi bandi hanno risposto meglio al riconoscimento delle peculiarità necessarie, soprattutto riguardo ai minori. Inoltre, vorremmo sapere, soprattutto rispetto allo SPRAR, se riconoscete che anche nelle modalità di bando potrebbero essere inseriti – ovviamente sulle regioni economiche si tratterà di confrontarsi, anche in questo caso, con il ministero – degli elementi di valutazione aggiuntiva.
Per il momento mi fermo qui, perché capisco che avremmo molto, anzi moltissimo da fare. La non presa in carico comporta poi l'approdare nel sistema emergenziale, che costa anche molto di più del sistema sanitario, oltre a non rispondere alla dignità umana, che è la cosa che ci interessa di più. Non possiamo che essere concordi.
PRESIDENTE. Grazie.
Do la parola per la replica a don Colmegna o ai suoi collaboratori, a seconda di chi desidera intervenire.
VIRGINIO COLMEGNA, Presidente della Fondazione «Casa della Carità» di Milano. Comincio io. Rispondo a Edoardo Patriarca.
Da tanti anni seguo un ragionamento. Adesso stiamo ragionando, tra l'altro, riferendoci al tema dei richiedenti asilo, calcolando che la popolazione di immigrazione con la quale dobbiamo confrontarci è molto più ampia. Si sta creando un paradosso, per cui tutti adesso presentano la domanda di richiedente asilo. Questo è uno dei nodi che dovranno essere risolti e soprattutto – dopo lo dirà anche Beppe, che segue un po’ queste questioni – il grado di respingimento è tale per cui ci sono storie che ritornano sul territorio.
Affronto il tema dal punto di vista di «Casa della Carità», per offrire questo sistema di gratuità e di convenzione. È chiaro che per noi la convenzione sul piano SPRAR è una convenzione doverosa, con cui bisogna fornire delle risposte di qualità, perché entra dentro in una presa in carico.
Per noi utilizzare l'elemento di gratuità significa dimostrare – lo dico su un problema che vedo molto – che c'è un problema di bene pubblico. Non è un interesse di mercato privato semplicemente, altrimenti – lo dico in termini lapalissiani – servirebbe avere sempre l'emergenza, perché l'emergenza è un mercato, sostanzialmente. Se metto la cura delle persone, intervenendo, ho bisogno di parametri di qualità e di condizionamento. Noi abbiamo introdotto questo sistema di gratuità, che vuol dire comunicazione, vuol dire impegno nella società civile di recupero. La parte del 40 per cento è di convenzione, dove c'è la rendicontazione, ma la gratuità viene spesa nel bene pubblico.
Si tratta di cercare di ricostruire con alcune persone dei percorsi di attività di inserimento in termini di cittadinanza sociale e di cittadinanza solidale, che altrimenti viene dimenticata in termini di emarginazione. L'emergenza cronicizza e crea continuamente persone che apparentemente non ci sono e che rappresentano un problema sociale.
Dico questo perché il tema delle gare d'appalto diventerà uno degli elementi estremamente importanti. Se il criterio delle gare d'appalto diventa la convenzione sull'emergenza su grandi numeri, il fatto che almeno i soggetti che partecipano abbiano una verifica di trasparenza sui processi e sulle motivazioni che hanno credo sia un nodo da affrontare. Altrimenti la situazione diventa tale per cui chi è proprietario o ha progetti di mercato assolutamente Pag. 15neanche da giudicare dal punto di vista morale...
Credo che il sistema non funzioni così. Mettere in gara d'appalto continuamente individuando posti per 1.000 o 2.000 persone, sovrapposti spesso a molte realtà che prima accoglievano e che si sono sovrapposte alla situazione di emergenza...
Ci sono situazioni complesse e articolate. Credo che questo aspetto dovrà essere riverificato.
Il tema «emergenza» significa poi affrontare delle situazioni sulle quali non si può fornire una risposta se non in termini di assistenza, di emergenza, di ritorno all'emergenza e di cronicizzazione. Sul tema dei domicili abbiamo la fila. Non sono persone che entrano nello SPRAR, sono persone che abitano sul territorio. Abbiamo questo tipo di rapporto. Se facciamo dimenticare una dinamica sociale di attenzione e di presa in carico, il tema dell'insicurezza diventa uno dei temi. Peraltro, questo diventa un anonimato diffuso. Dopo il respingimento della domanda si fa ricorso, c'è un anno di protezione umanitaria rispetto a questo, e ciò crea evidentemente una continuità.
Attorno a questo tema una riflessione credo che vada fatta, anche perché in questo momento si stanno creando delle sacche di immobilismo. Nell’hub di Bresso ci sono persone che avrebbero dovuto stare lì tre giorni e che ormai sono mesi e mesi che stanno lì. Sono in tenda. Adesso hanno dovuto mettere anche qualche container. Avrebbero dovuto stare lì tre giorni, invece abbiamo fatto passare l'inverno.
Ogni volta che si muove questo tema, scatta quello del rifiuto, ma poi queste persone ci sono, attendono, con ritardi, e creano evidentemente allarme. Tra l'altro, dai segnali che arrivano sul nostro territorio oggi, ieri da Tradate e domani da altre parti, credo che cominci a venir fuori anche qualche riflessione che pone una serie di difficoltà, proprio nel nome di quella sicurezza e di quei processi di solidarietà.
Credo che ci sia una riflessione da fare su come si mettono a disposizione gli strumenti e su come si affronta una emergenza. Comunque occorre guardarla in faccia nei suoi termini. Per noi riuscire ad inserire dentro allo SPRAR il tema della protezione credo sia estremamente importante. Poi ne parleranno i colleghi.
Quanto al tema della salute mentale e della sofferenza psichica, credo che questo sia un tema estremamente importante, da non rendere allarme sociale, perché è ancora un tema assorbibile in termini di presa in carico sanitaria, di cura, di attenzione e anche di ottenimento di risultati.
Se il Niguarda, come abbiamo visto sui giornali l'altro giorno, dice che con l'etnopsichiatria non ce la fa più a gestire la situazione e non ci si pone il problema del perché sia soltanto lì, occorre diffondere la risposta sul territorio. Se l'SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) che accoglie è soltanto quello di Niguarda, evidentemente poi si crea una dinamica di abbandono con cui si arriva anche a temi di allarme sociale che, invece, vanno recuperati in termini di contesto e di cura.
Questo vale anche per i minori. È chiaro che, se si vuole intervenire, bisognerà affrontare il tema. Noi abbiamo importato nel nostro Paese un sistema di accreditamento di qualità di uscita, soprattutto da noi, dal sistema dell'Istituzione totale, che chiude dentro. De-istituzionalizzare vuol dire ritmo famiglia e operatori, con un investimento anche di operatori, che c'era anche nel periodo del grande boom economico, quando era assolutamente facile investire anche a questo livello.
Oggi, però, abbiamo di fronte tipologie di età diverse e investimenti diversi. Certamente dobbiamo fare un'accoglienza diffusa. Bisognerà ragionare su quale sia il livello di accreditamento che si deve porre.
Si poneva il problema dei costi. È chiaro che, se rimane la qualità dell'accreditamento per i minori prevista dalla Regione, cioè ventiquattr'ore su ventiquattro, con figure di educatori e non altri in questi termini sui minori, il costo di gestione è quello che è. Se affrontiamo il tema di qualità anche in termini diversi, altrimenti non è sovrapponibile l'esigenza, abbiamo bisogno di fare una riflessione anche su quali siano gli standard strutturali a questo livello di qualità e di verifica. Pag. 16
Molto dovrà essere fatto sul tema della professionalità. Il senso della proposta che stiamo avanzando è quello di creare un osservatorio e fare progetti di eccellenza e di sperimentazione, perché la situazione sta cambiando molto. Abbiamo bisogno di abbassare la cosiddetta paura sociale ragionando sui risultati che si ottengono e sull'esigenza di cambiamento.
Con riguardo al sistema della Regione Lombardia, avevamo un sistema sociale totalmente separato dal sistema sanitario. Avevamo la psichiatria in Azienda ospedaliera, non sul territorio. Non so come si supererà questa contraddizione con questo cambiamento istituzionale che sta avvenendo e che, per alcuni versi, giudico positivo nel superamento di queste divisioni. Dall'altro verso, deve rientrare sul territorio e questo riguarderà molto anche la nostra situazione.
Lascio la parola ai colleghi per i particolari.
GIUSEPPE MONETTI, Responsabile dell'ospitalità della Fondazione «Casa della Carità» di Milano. Cercherò di andare con ordine. Rispetto allo SPRAR, abbiamo 8 posti solo per DM, cioè per disagio mentale (6 posti per uomini e 2 per donne). Abbiamo 14 posti per persone vulnerabili, tutte provenienti da una vecchia domanda d'asilo. Qualcuno mi chiedeva da quanto tempo sono sul territorio. Ci sono delle fragilità che sono da tanto tempo sul territorio e che si erano marginalizzate. Hanno fatto tutto il percorso, hanno ottenuto chi lo status di rifugiato e chi altro tipo di protezione, ma poi erano rimasti per strada. Questi 14 posti sono in convenzione con il Comune di Milano, come dicevamo prima.
La particolarità di «Casa della Carità» è che l'altra stragrande mancanza di posti invece è un'accoglienza diretta. Questo che cosa vuol dire, per rispondere anche ad alcune delle vostre domande? Vuol dire che, quando alcune persone vengono collocate in un CAS, dove magari ci sono 80-100 persone, e non capiscono che cosa gli stia succedendo, perché i tempi si allungano – magari hanno un appuntamento in questura, ma non capiscono bene –, le persone un po’ più strutturate, provano a muoversi per conto loro e, ad esempio, se sanno lavorare, vanno in giro e cercano.
Questo comporta nella stragrande maggioranza dei casi la perdita dell'accoglienza. Per assurdo, c'è il discorso inverso, ossia se uno si vuole attivare invece in quel momento dovrebbe stare proprio fermo e aspettare tutto il percorso.
Ci succede spesso sul territorio della Lombardia di avere accoglienza di CAS della zona di Varese, della zona di Lecco, o di Bresso, dove, dopo un po’ che uno vive in una tenda, dice: «Sono scappato dalla guerra e vivo in una tenda in Lombardia? No!».
Questo succede. Avendo noi dei posti in gratuità, possiamo permetterci di accoglierli. Il tentativo è poi quello di cercare di farli rientrare nel sistema, perché rischiano, tra l'altro, essendo usciti dal sistema, di perdere l'appuntamento con la Commissione.
Da questo punto di vista, noi siamo una Fondazione sul territorio di Milano che con la questura di Milano e con la Commissione territoriale di Milano ha buoni rapporti e quindi riusciamo, in qualche modo a farli tornare in accoglienza. Da quel punto di vista abbiamo provato anche proprio a fare dei ricorsi formali, spiegando che cosa era successo nello specifico, ma non siamo riusciti assolutamente.
Questo è un fenomeno in espansione; per farvi un esempio, nell'ultima settimana ne ho visti 15. Questi sono i numeri e temo che questo fenomeno sarà sempre più ampio.
Tra le varie cose che chiediamo alle persone quando apriamo la cartella sociale è come sono arrivate da noi e perché si rivolgono alla «Casa della Carità». Nel 70 per cento dei casi è stato un contatto con un connazionale, un amico o un parente arrivato anni prima, perché molto spesso l'Istituzione non è vissuta come quella che ti sta proteggendo. Tu chiedi protezione, ma l'Istituzione viene vissuta quasi con paura. C'è paura verso chi ti protegge in questo senso. Questa è un'immagine che per gli stranieri, secondo me, è importante tenere a mente. Pag. 17
Vado avanti sui richiedenti asilo e poi passo ai minori.
I problemi dei CAS ve li ho specificati. Che i CAS della Regione Lombardia – che è forse una delle regioni più ricche d'Italia – siano delle tende (adesso c'è il grande sviluppo e forse metteranno dei container) credo sia un fatto che parla da solo. Non lo devo certo spiegare io.
Le vittime della tratta sono tantissime. Siamo riusciti a fare una sorta di «accordi» con la Commissione territoriale, perché molto spesso capita che arrivi una ragazza molto spaventata ed è difficile in uno, due o tre colloqui riuscire a farle capire che può fidarsi e che può chiedere aiuto. Con la Commissione territoriale ci siamo messi d'accordo che, quando notiamo situazioni di questo tipo, glielo segnaliamo. La Commissione di Milano generalmente sospende la pratica e la invia all'Ufficio del Comune di Milano, allo sportello che si occupa della tratta.
Devo dire la verità: su un numero cospicuo sono poche quelle che poi fanno questo percorso. Il rischio è che la situazione rimanga in standby: la ragazza rinnova il permesso per richiesta d'asilo più volte, ma non decide mai di andare. È successo – nello specifico in due o tre casi – che le ragazze si siano recate allo sportello, abbiano presentato la denuncia e poi abbiano iniziato un percorso di protezione sociale.
MARIA CHIARA GADDA. Capita anche che scompaiano?
GIUSEPPE MONETTI, Responsabile dell'ospitalità della Fondazione «Casa della Carità» di Milano. È capitato.
MARIA CHIARA GADDA. La domanda è legata al fatto se queste persone siano poi accompagnate nel loro percorso da associazioni di tipo criminale o comunque legate al proseguimento della tratta.
GIUSEPPE MONETTI, Responsabile dell'ospitalità della Fondazione «Casa della Carità» di Milano. Nello specifico, se devo esprimere il mio punto di vista, sono certo che ci siano dietro delle organizzazioni criminali. Solo in due casi le ragazze hanno fatto una denuncia formale e, quindi, poi le abbiamo accompagnate. È stata poi la polizia a collocarle nella comunità protetta.
Tuttavia, con riferimento al numero di cui vi sto parlando, solo l'anno scorso penso che siano arrivate almeno una sessantina di ragazze, prevalentemente nigeriane, ma non solo, ci sono anche alcune senegalesi e alcune camerunensi.
Il campanello d'allarme scatta quando arrivano e sono accompagnate da uno pseudo-amico. È vero che lo pseudo-amico può essere l'amico, ma, quando lo pseudo-amico ne porta quattro o cinque, non lo reputo più uno pseudo-amico. Quindi facciamo una segnalazione e proviamo a vedere in quel senso che cosa si può fare. Vi parlavo dello sportello.
Con riguardo all'emergenza Siria, abbiamo scelto nell'estate del 2014 e nell'estate 2015 di agire in due modi differenti. Nel 2014 abbiamo ospitato presso una parrocchia di Affori – adesso i numeri non me li ricordo, ma mi pare che fosse quello –800 persone. Nell'emergenza di quel primo anno, poiché la «Casa della Carità» non aveva posti all'interno, abbiamo adibito ad ospitalità la sala conferenze. Avevamo messo delle brandine, ma era una soluzione molto emergenziale. Successivamente ci siamo appoggiati a questo oratorio, che era chiuso per il periodo estivo, e così abbiamo accolto queste persone.
Il primo anno erano prevalentemente famiglie siriane ed eritrei singoli. La permanenza media era di 7-8 giorni. Era il periodo dei non fotosegnalamenti e, quindi, della distribuzione sul Nord Europa, sostanzialmente in Germania. Questo è stato il primo anno. In quell'anno avevamo scelto di stare dentro la convenzione della prefettura.
Il secondo anno, su intuizione di don Virginio – lui detta la linea e noi gli andiamo dietro – abbiamo deciso di stare fuori dalla convenzione. Abbiamo fatto ugualmente l'accoglienza in un oratorio a Bruzzano. Affori e Bruzzano, per chi non conosce Milano – la conoscete quasi tutti, mi sembra, ma lo dico per chi non la Pag. 18conosce – sono due zone periferiche, dove il rischio era che portare 100 persone ogni notte potesse diventare esplosivo. In realtà, è stato più difficile dirlo che farlo, perché invece abbiamo trovato un numero di volontari spropositato tra tutte le persone che non andavano in vacanza.
Questo secondo anno l'abbiamo fatto gratuitamente, dando tra l'altro dei rimandi e facendo vedere quanto si potesse fare puntando ad un'accoglienza di qualità con i mediatori culturali. La «Casa della Carità» ha messo tutto, anche l'infettivologo, perché malattie come la scabbia, in situazioni di emergenza così grande, ci hanno interessato.
Secondo me, è anche interessante vedere – abbiamo forse i dati, che potremmo farvi avere – quanto si potesse risparmiare rispetto alla convenzione. Questo è il modo in cui ci siamo mossi in questi due anni sull'esperienza dell'emergenza Siria.
Passo alle Commissioni territoriali. È vero che sono aumentate. Ogni tanto accompagno alcune persone in Commissione territoriale. Devo dire la verità: meno male che sono aumentate perché smaltirà il tempo. Facciamo attenzione, però, perché i dati sulla Commissione per esempio di Brescia in questo momento sono del 92 per cento di rigetti secchi. Poi si dice che si intasano i tribunali, ma il 92 per cento è allucinante.
La cosa importante da pensare è che nella Commissione territoriale di Milano oggettivamente le persone si sono sempre più qualificate. Quello che facciamo noi con i fragili è preparare al meglio. Non so che cosa il ragazzo o la ragazza riuscirà a dire in quel momento, che è emotivamente importantissimo. Uno lo aspetta tanto e non so che cosa riesca a dire. Quello che posso dargli è una serie di relazioni fatte da professionisti, non da uno che passa per la strada, ossia, se possibile, dal servizio di etnopsichiatria o di medicina legale dell'Università, con la certificazione delle torture. La Commissione territoriale di Milano analizza queste cose.
Devo dire la verità: altre Commissioni non accettano, perché dicono che sono dossier preparati ad hoc per fare accogliere la Commissione. Non c'è un'uniformità di giudizio. È lapalissiano. Basta guardare le percentuali: se da una parte è il 92 e dall'altra parte è il 60... Badiamo bene, come diceva don Virginio, che in questo momento l'unico modo per avere un permesso di soggiorno in Italia – se non arrivi ecc... – è fare la domanda di asilo. Questo è vero: presentano domanda d'asilo e chiedono la protezione persone che probabilmente non riuscivano a restare nel loro Paese, non riuscivano a mangiare o volevano migliorare la propria condizione di vita. Non c'è altro modo, non c'è più il decreto flussi.
In merito al decreto flussi – è importante anche questo – io sto seguendo delle persone che stanno aspettando di essere convocate dalla prefettura di Milano per il decreto flussi 2012. Siamo nel 2016! Uno magari ha pagato 8.000 contributi, poi la nonna è morta o il lavoro è finito – sfido chiunque a mantenere un lavoro stabile dal 2012 al 2016 – e quindi magari si trova anche con il rigetto della domanda a quattro anni di distanza.
Al nostro sportello si rivolgono persone appena arrivate, proprio appena arrivate, magari scappate da alcuni luoghi. Con don Virginio siamo stati in Sicilia. Il CARA di Mineo credo che l'abbiate visitato. Non devo aggiungere altro. Tre su quattro, se possono, scappano da lì a gambe levate. Questo, secondo me, è un segno di grande sanità mentale da parte di queste persone.
La questura di Milano e la Commissione di Milano la priorità alla vulnerabilità, storcendo un po’ il naso, la danno.
MARIA CHIARA GADDA. Quindi la documentazione esterna, anche se firmata da professionisti, non è sempre ammessa.
GIUSEPPE MONETTI, Responsabile dell'ospitalità della Fondazione Casa della Carità di Milano. A Milano non è sempre ammessa, ma è prevalentemente ammessa. In altre Commissioni non è ammessa.
PRESIDENTE. Se non avete niente da aggiungere, dobbiamo interrompere. Pag. 19
Vi ringraziamo per la disponibilità. Gli auditi hanno consegnato alla Commissione anche del materiale riassuntivo del loro lavoro.
ELENA CARNEVALI. Volevo solo chiedere loro una gentilezza. Vorrei sapere se per caso hanno i dati relativi ai minori, a quanti hanno chiesto il ricongiungimento e magari l'hanno ottenuto e i dati relativi agli allontanamenti.
GIUSEPPE MONETTI, Responsabile dell'ospitalità della Fondazione «Casa della Carità» di Milano. Non li abbiamo qui, ma li possiamo farveli avere senz'altro.
PRESIDENTE. Grazie e arrivederci.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 15.10.