Sulla pubblicità dei lavori:
Gelli Federico , Presidente ... 3
Audizione di rappresentanti di Amnesty International Italia:
Gelli Federico , Presidente ... 3 ,
De Bellis Matteo , Ricercatore del Segretariato Internazionale di Amnesty International ... 4 ,
Gelli Federico , Presidente ... 10 ,
Beni Paolo (PD) ... 10 ,
Patriarca Edoardo (PD) ... 12 ,
Gelli Federico , Presidente ... 13 ,
De Bellis Matteo , Ricercatore del Segretariato Internazionale di Amnesty International ... 13 ,
Gelli Federico , Presidente ... 15
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
FEDERICO GELLI
La seduta comincia alle 8.50.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche mediante l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
Audizione di rappresentanti di Amnesty International Italia.
PRESIDENTE. La Commissione ha convenuto di procedere all'audizione di responsabili di Amnesty International Italia, che ha pubblicato, lo scorso 3 novembre 2016, un dossier dal titolo Hotspot Italia, come le politiche dell'Unione europea portano a violazioni dei diritti di rifugiati e migranti.
Il punto di partenza è, quindi, l'illustrazione del contenuto del documento che pone il problema della salvaguardia del diritto dei migranti a chiedere la protezione internazionale, ma soprattutto il problema di episodi di violenza, con pestaggi, anche con manganelli elettrici e umiliazioni sessuali. Questo è quanto è stato riportato.
Ovviamente, non posso tacere che il documento è stato pubblicato pochi giorni dopo che questa Commissione aveva approvato una sua relazione sul tema degli hotspot con analisi e conclusioni che, per la verità, non coincidono con quelle riferite dal rapporto di Amnesty.
Noi abbiamo fatto un lavoro scrupoloso durante i sopralluoghi e le visite nei quattro hotspot in cui noi siamo stati, con il nostro personale di supporto della polizia giudiziaria e attraverso i colloqui che abbiamo avuto con i nostri mediatori culturali. Realisticamente, queste situazioni non le abbiamo riscontrate.
Sul tema delle violenze, le accuse sono state nettamente rigettate da esponenti del Ministero dell'Interno, primo fra tutti il prefetto Morcone.
Amnesty International, dal canto suo, ha pubblicato un comunicato di risposta in cui ha ribadito la serietà del proprio lavoro e soprattutto di avere preventivamente informato il Ministero dell'interno dei problemi riscontrati.
Comunque, al di là delle polemiche, alla Commissione, in questa sede, importa approfondire i temi. Come si sa, il cosiddetto «approccio hotspot» ha inciso sulle modalità di accoglienza e prima ancora di sbarco nel nostro Paese, con problemi che, comunque, a detta di tutti, sono ancora da affrontare sul piano pratico e su quello normativo.
In un quadro così dinamico e in evoluzione, prima di giungere ad analisi di tipo politico sul tema degli hotspot, che non possono trascurare la necessità di trovare delle risposte, ma che scontano un inevitabile tasso di soggettività, è opportuno dare a tutti i soggetti che meritoriamente intervengono in questi settori – mi riferisco ovviamente anche ad Amnesty International – la possibilità di illustrare il proprio punto di vista.
Per completezza, avverto che la Commissione ritiene di procedere nei prossimi giorni anche all'audizione del capo della polizia, il prefetto Gabrielli, già intervenuto in questa sede, ma in un momento in cui Pag. 4rivestiva, come ben sapete, un altro incarico. L'occasione sarà molto utile per affrontare a tutto campo il tema delle politiche dell'immigrazione.
Spero che questa audizione possa dare un risultato anche in termini di chiarezza. Ringrazio il dottor De Bellis, che, lavorando a Londra, era arrivato a Roma già ieri per presenziare all'audizione che, purtroppo, per l'andamento dei lavori dell'Aula, impegnata nel dibattito e nel voto di fiducia al Governo, abbiamo dovuto annullare e riconvocare stamani.
Vi ringrazio, quindi, della vostra disponibilità e cedo la parola al dottor De Bellis.
MATTEO DE BELLIS, Ricercatore del Segretariato Internazionale di Amnesty International. Grazie a voi dell'invito e della disponibilità. Centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini in fuga da conflitti, violazioni di diritti umani e miserie, negli ultimi anni hanno attraversato il Mediterraneo centrale. Tra queste, vi è un alto numero di persone che fuggono da violazioni di diritti umani, da conflitti e da persecuzioni, con un'altissima incidenza di abusi, soprattutto tra coloro che passano attraverso la Libia.
Nonostante le continue richieste in questo senso da parte di tutti gli operatori umanitari e le associazioni coinvolte e nonostante qualche apertura contenuta nell'Agenda europea sulla migrazione, l'Europa ha fondamentalmente rifiutato di aprire o allargare canali sicuri e legali di accesso alla protezione, per esempio attraverso resettlement, accesso umanitario e ricongiungimenti familiari.
Dunque, in assenza di canali sicuri e legali di accesso all'Europa, decine di migliaia di persone continuano a viaggiare, purtroppo, in maniera irregolare, con un considerevole rischio per le proprie vite, perché non hanno altra opzione.
Questi flussi in arrivo hanno presentato sfide importanti per i Governi europei, con un onere particolarmente pesante sui Paesi di primo arrivo come l'Italia, che tra l'altro ha mostrato un impegno senza pari per salvare vite in mare. Questo deve essere sempre riconosciuto.
Come da raccomandazioni incluse nell'Agenda sulla migrazione della Commissione europea e poi da decisioni adottate dal Consiglio UE nel 2005, l'approccio hotspot e il programma di relocation sono state le risposte centrali dell'Unione europea a queste sfide.
L'azione combinata di questi due meccanismi avrebbe dovuto associare, da una parte, maggiori controlli sui rifugiati e migranti in arrivo e, dall'altra, la distribuzione di una parte dei richiedenti asilo tra i vari Stati membri.
Il Governo italiano ha cominciato ad attuare l'approccio hotspot nel settembre 2015. A oltre un anno di distanza è chiaro che solo la parte di controllo è stata messa effettivamente in atto, mentre molti pochi progressi sono stati fatti in materia di condivisione della responsabilità.
Come sappiamo, infatti, il programma di relocation non ha ottenuto finora grandi risultati. Sappiamo, invece, che questo è molto importante perché molte delle persone che arrivano in Italia anche irregolarmente in realtà desiderano spostarsi in altri Paesi europei per chiedere asilo lì, spesso perché hanno parenti o perché considerano di poter usufruire di migliore assistenza.
In questo modo, l'approccio hotspot ha, di fatto, aumentato piuttosto che ridotto il peso sulle spalle dell'Italia, mettendo a dura prova la capacità delle autorità di assistere in modo adeguato i nuovi arrivati.
L'approccio hotspot consiste in una serie di azioni realizzate primariamente dalla Polizia di Stato in tre aree: l'identificazione di tutte le persone, anche tramite fotosegnalamento; un loro rapido screening per separare chi possa essere ritenuto richiedente asilo da quanti, invece, siano considerati irregolarmente presenti sul territorio; infine, l'incanalamento di questi ultimi verso procedure di allontanamento.
All'inizio del 2016 Amnesty International si è chiesta se la realizzazione dell'approccio hotspot stesse portando a una maggiore o minore tutela dei diritti umani delle persone approdate in Italia. Ha, quindi, dedicato otto mesi di ricerca per dare risposta a questa domanda attraverso quattro Pag. 5 visite in Italia che hanno toccato dieci diverse città, compresi gli hotspot di Lampedusa e Taranto, ma anche vari centri di accoglienza in Sicilia, in Puglia, a Roma, Ventimiglia e Como.
Abbiamo svolto 174 interviste approfondite con rifugiati e migranti e parlato con molti altri. Abbiamo anche intervistato funzionari e agenti di polizia, rappresentanti della Commissione europea e di organizzazioni internazionali come l'UNHCR, associazioni, avvocati e medici.
La ricerca di Amnesty International offre un quadro preoccupante. La riaffermazione di vecchi principi, basati fondamentalmente sull'applicazione stretta del Regolamento di Dublino con modalità più aggressive, sta portando a un aumento delle violazioni di diritti umani, per le quali riteniamo che le autorità italiane abbiano una responsabilità diretta, ma anche che i leader europei abbiano una responsabilità politica.
Abbiamo riscontrato, infatti, violazioni dei diritti umani in tutte e tre le aree di azione dell'approccio hotspot (fotosegnalamento, screening ed espulsioni).
Innanzitutto, l'approccio hotspot ha spinto le autorità italiane ad assicurare il fotosegnalamento di tutte le persone sbarcate, anche mediante l'impiego di misure coercitive, come la detenzione prolungata e l'uso della forza fisica. Questo ha portato a casi di detenzione arbitraria, da una parte, e uso eccessivo della forza, dall'altra, particolarmente perché detenzione prolungata e uso della forza, secondo Amnesty International, avvengono in assenza di chiare previsioni normative che ne consentano l'impiego.
Per quanto riguarda la detenzione, la normativa consente il trattenimento per un massimo di 24 ore. Ciò nonostante, è stato documentato da diverse organizzazioni – devo dire anche da questa stessa Commissione – che le persone sbarcate vengono spesso trattenute per diversi giorni, in alcuni casi addirittura per settimane, se non mesi, senza che vi sia un controllo giurisdizionale di alcun tipo o alcuna via per appellarsi contro la legittimità di tale trattenimento.
Questo trattenimento si configura, dunque, come detenzione arbitraria proibita dal diritto internazionale ed europeo.
Amnesty International ritiene che la normativa italiana non legittimi nemmeno l'uso della forza ai fini di fotosegnalamento. Infatti, la Commissione europea ha raccomandato all'Italia di legiferare per permettere l'uso della forza. Nel frattempo, il Governo sembra aver comunque dato indicazioni a funzionari e agenti di polizia che l'uso della forza sarebbe consentito.
Questo è, infatti, menzionato in un volantino stampato dal Ministero dell'interno e distribuito alle persone sbarcate ed è stato anche confermato durante le visite di Amnesty International da due funzionari operativi presso gli hotspot di Lampedusa e Taranto.
Non è chiaro, però, se siano state date indicazioni precise in merito ai limiti di tale uso della forza e alle garanzie necessarie per evitare abusi.
Ciò nonostante, appare ormai assodato che la polizia usa in alcuni casi la forza contro le persone che non cooperano al rilevamento delle impronte digitali, pur generalmente con notevole moderazione. Questo potrebbe anche configurarsi come un uso proporzionato della forza, quindi in linea con gli standard internazionali, nei casi in cui tutti gli altri metodi non violenti siano stati previamente esperiti senza successo e l'uso della forza sia lieve, ossia consista, per esempio, nella mera spinta della mano della persona sulla macchina che rileva le impronte.
Infatti, crediamo che nella gran parte dei casi tale uso della forza sia stato proporzionato. Tuttavia, abbiamo anche ricevuto un numero significativo di testimonianze che indicano come la forza sarebbe stata usata senza aver fornito previamente adeguata informativa legale e in assenza di un interprete che parlasse la lingua madre della persona fotosegnalata.
In questi casi, l'uso della forza, per quanto moderato, sarebbe stato innecessario, sproporzionato e dunque in violazione degli standard internazionali.
Nonostante, come ho già detto, non ci siano dubbi che la maggior parte degli Pag. 6agenti di polizia abbia continuato a fare il proprio lavoro in modo impeccabile, testimonianze coerenti raccolte da Amnesty International indicano che, in alcuni casi, persone soggette all'uso della forza per costringerle a dare le impronte digitali sarebbero state oggetto di maltrattamenti.
In particolare, Amnesty International ha raccolto durante la sua ricerca 24 testimonianze di questo tipo. La maggior parte riferisce di pestaggi che sarebbero avvenuti in grandissima parte – desidero precisarlo – non all'interno di hotspot, ma di uffici di polizia o in altri luoghi esterni ai quattro centri di accoglienza che vengono specificamente chiamati hotspot.
Desidero precisare questo elemento perché ha creato alcune incomprensioni anche con alcuni altri attori rilevanti e perché, evidentemente, chiarisce anche ciò che è stato detto in merito alle visite fatte dalla Commissione e da altri attori negli hotspot.
Noi abbiamo dato un'interpretazione dell'approccio hotspot che guarda alle modalità operative, quindi un po’ più larga rispetto alla mera collocazione di quei luoghi che vengono definiti come hotspot. Questo può essere, ovviamente, considerato giusto o sbagliato, ma intendo chiarirlo proprio per evitare incomprensioni.
Come dicevo, la maggior parte delle 24 persone che hanno riferito di maltrattamenti hanno parlato di pestaggi.
«Uno degli uomini mi ha dato schiaffi in faccia, non mi ricordo quanti. Avevo troppa paura e ho lasciato le impronte», questo è quello che mi ha raccontato, per esempio, Hellen, una donna eritrea di 25 anni, che ha lasciato le impronte in un ufficio di polizia in Sicilia, dopo essere stata trattenuta per mesi nello hotspot di Lampedusa e dopo essere stata trasferita in Sicilia in nave.
Altri hanno parlato di pugni, calci, manganellate e minacce. In alcuni casi addirittura, come è stato riferito, di uso di manganelli elettrici e in due casi di violenze sui genitali.
Amnesty International ha visto alcuni segni sui corpi delle persone che sembravano compatibili con alcune delle violenze descritte e ha anche avuto accesso a documenti che provavano, in alcuni casi, la presenza di diverse persone nei centri o nei commissariati dove avrebbero sofferto abusi.
Le persone che hanno rilasciato queste testimonianze lo hanno fatto mentre cercavano di lasciare l'Italia. Le abbiamo incontrate primariamente a Roma, a Ventimiglia e a Como. Per questo non hanno ritenuto di sporgere querela. Tale situazione ha reso impossibile, per Amnesty International, una valutazione approfondita di ciascun caso, per esempio attraverso esami clinici, e perciò non siamo in grado di confermare – come diciamo nello stesso rapporto – ogni dettaglio di ciascuna testimonianza.
Riteniamo, però, estremamente preoccupante che la nostra organizzazione abbia potuto raccogliere un numero così significativo di testimonianze coerenti tra loro durante visite a città diverse, in mesi diversi, raccolte con l'aiuto di interpreti diversi.
È anche importante evidenziare che segnalazioni di questo tipo sono state condivise da altri operatori locali, tra cui le associazioni che operano sul territorio. La stessa organizzazione Oxfam ha incluso segnalazioni di questo tipo in un rapporto pubblicato, se non ricordo male, in marzo.
Dunque, non è la prima volta che segnalazioni di questo tipo vengono raccolte. Tuttavia, è la prima volta, probabilmente, che 24 testimonianze vengono raccolte insieme e pubblicate.
Rispetto a questa preoccupazione, abbiamo ritenuto di voler immediatamente informare il Ministero dell'interno delle testimonianze che stavamo raccogliendo, con una lettera che ne riportava il testo in maniera dettagliata (era di otto pagine, se ricordo bene).
A fronte della decisione del Ministero di non rispondere alle nostre ripetute lettere e richieste di un incontro durante il quale avremmo raccolto volentieri il suo punto di vista ed evidentemente acclarato la sua posizione e la veridicità di alcuni degli elementi posti sotto la nostra attenzione, abbiamo ritenuto di pubblicare le testimonianze. Pag. 7
Come ho sottolineato, altre organizzazioni, avvocati e medici hanno ricevuto e divulgato testimonianze del tutto simili a quelle da noi raccolte.
Un ulteriore caso è stato pubblicato nelle scorse settimane, successivamente alla pubblicazione del nostro rapporto, da una ricercatrice siciliana, Alessandra Sciurba, in un testo molto interessante in cui giustamente si afferma: «Non è possibile che testimonianze raccolte da soggetti diversi, in luoghi diversi e con persone diverse siano così congruenti senza che esse contengano almeno una parte significativa di verità».
Questa è la parte del nostro rapporto che ha attirato molta dell'attenzione della stampa e generato delle risposte da parte delle istituzioni, anche pubbliche, come dirò successivamente, per esempio da parte del Ministero dell'interno.
Il nostro rapporto, però, parla anche di altri due temi che sono lo screening, anche chiamato «preidentificazione», e le espulsioni.
L'approccio hotspot ha anche previsto, infatti, come ho detto, l'introduzione di uno screening, ovvero di un esame anticipato, molto rapido, dello status di tutte le persone sbarcate nei porti italiani per separare i richiedenti asilo da quelle ritenute migranti irregolari.
Si tratta di un processo di selezione fatto con troppa fretta, subito dopo lo sbarco, quando le persone sono ancora troppo stanche e traumatizzate e prima che abbiano ricevuto informazioni adeguate sui loro diritti. È, dunque, un processo di selezione che rischia di negare a coloro che fuggono da conflitti e persecuzioni l'accesso alla protezione alla quale hanno diritto.
In quest'ambito, i problemi riscontrati, come ho già riassunto, sono tre, ovvero che la selezione avviene subito dopo lo sbarco, in un momento in cui le persone non sono assolutamente in condizione di rilasciare dichiarazioni; che la preidentificazione avviene prima che alle persone venga offerta un'informativa legale su base individuale rispetto ai loro diritti e alle opzioni loro disponibili; terzo, che lo screening avviene attraverso la formulazione di una domanda, che generalmente è «cosa ti porta in Italia?» (o «what brings you here?» in inglese), che non è pertinente alla valutazione di una condizione giuridica e che può, anzi, indurre la persona in errore rispetto alla risposta da dare.
Riteniamo che in una fase iniziale le autorità dovrebbero, invece, limitarsi unicamente a offrire a ciascuna persona l'opportunità di chiedere protezione internazionale, se lo desidera.
Veniamo all'ultima area coperta dalla nostra ricerca che, come ho detto, riguarda l'allontanamento dal territorio italiano.
In quest'area, l'enfasi posta dalle istituzioni e dai Governi europei sulla necessità di aumentare le espulsioni ha portato a due sviluppi critici in Italia, già a partire dalla seconda parte del 2015.
Infatti, da una parte, migliaia di decreti di respingimento differito con ordine di lasciare il territorio nazionale entro 7 giorni sono stati consegnati a persone considerate migranti irregolari, in seguito allo screening che, come detto, riteniamo viziato. Queste persone, in pratica, non hanno alcuna possibilità di ottemperare all'ordine, anche se lo volessero, a causa della mancanza di documenti e di soldi.
Di conseguenza, sono rimaste nel Paese, ma senza alcuna forma di assistenza, vulnerabili allo sfruttamento e agli abusi.
Il secondo sviluppo è quello per cui le autorità italiane hanno negoziato nuovi accordi bilaterali, anche con governi responsabili di orribili atrocità, come il Governo sudanese.
Sulla base di questi accordi, che sono tra le polizie, non tra i governi, gruppi di persone considerate migranti irregolari, ancora una volta in base allo screening viziato di cui parlavo precedentemente e senza un'adeguata valutazione dei rischi che il loro rimpatrio comportava, sono stati rimandati in Paesi nei quali erano, appunto, a rischio di maltrattamenti e di altre gravi violazioni dei diritti umani. Questo rappresenta una violazione del principio di non-refoulement, che è principio di diritto internazionale trasposto nell'ordinamento italiano. Pag. 8
Sottolineo che il diritto internazionale prevede chiaramente che il Paese che desidera espellere un individuo deve valutare le circostanze individuali della persona per accertarsi se vi siano elementi ostativi all'espulsione e, in particolare, se la persona rischi di essere perseguitata, maltrattata o comunque esposta a gravi violazioni. Quest'obbligo prescinde dal fatto che la persona abbia o meno presentato domanda di protezione internazionale.
Ci preoccupa molto che gli ordini di allontanamento, di accompagnamento alla frontiera e anche di convalida da parte del giudice di pace – almeno quelli a cui Amnesty International ha potuto avere accesso – non includano alcun riferimento alla situazione individuale della persona sottoposta all'espulsione o al procedimento svolto per valutare i rischi, ma soltanto affermazioni così generiche da poter far presumere di essere già incluse in formulari precompilati.
La possibilità di svolgere una valutazione delle circostanze personali e dei rischi a cui una persona è esposta in caso di rimpatrio è, tra l'altro, ulteriormente ridotta da accordi di polizia come quello con il Sudan firmato nell'agosto scorso, che delegano pressoché ogni attività di identificazione a governi di Paesi con una storia di gravi violazioni di diritti umani.
Dunque, in tutte e tre le aree centrali, la realizzazione dell'approccio hotspot ha portato a maggiori violazioni dei diritti umani.
L'Italia deve ora reagire per mettere fine a tali violazioni. Occorre investigare gli abusi denunciati e prevedere garanzie per evitare qualunque maltrattamento e detenzione arbitraria.
Le forze di polizia devono conformarsi al dettato normativo, finché questo non venga modificato dal Parlamento, e occorre chiarire quali sono i limiti relativi a uso della forza e detenzione, in linea con il diritto internazionale.
In termini di garanzie, crediamo si debba assicurare, per esempio, la presenza di osservatori indipendenti durante le fasi più delicate, come il rilevamento delle impronte e lo screening, e che telecamere siano sempre presenti e conservino le immagini registrate per un tempo adeguato, cosa che al momento non sembra avvenire.
Le standard operating procedure sugli hotspot devono essere riviste, per assicurare che nessuna selezione avvenga immediatamente dopo lo sbarco e che tutte le persone in arrivo abbiano accesso a informazioni sufficienti prima dell'esame della loro situazione.
In terzo luogo, occorre garantire che i provvedimenti di espulsione siano adeguatamente motivati e basati su valutazioni individuali per garantire che nessuno venga rimandato in Paesi nei quali sia a rischio di gravi violazioni dei diritti umani, anche se non ha fatto richiesta di asilo.
L'Italia deve, inoltre, smettere di negoziare e applicare accordi di riammissione con governi responsabili di persecuzioni diffuse e gravi violazioni dei diritti umani, soprattutto laddove tali accordi non prevedano garanzie che assicurino che i rimpatriati non saranno a rischio di gravi violazioni.
A livello europeo, occorre una revisione del sistema di Dublino per sostituire il criterio del Paese di primo ingresso, motivo principale per cui le persone si oppongono al rilevamento delle impronte digitali, con l'impostazione di un nuovo sistema che preveda un'effettiva ridistribuzione dei richiedenti asilo appena arrivati in tutta Europa, un sistema che garantisca che il livello di protezione e assistenza per i richiedenti asilo sia lo stesso in tutta la regione e che permetta alle persone che hanno ottenuto protezione in un Paese della UE di muoversi liberamente negli altri Paesi.
Amnesty International ritiene, inoltre, che una riduzione significativa del numero di persone che intraprendono la pericolosa traversata del Mediterraneo centrale, quindi una riduzione sia dei morti in mare sia degli spostamenti irregolari all'interno dell'Europa, può e deve essere ottenuta attraverso l'apertura di canali sicuri e regolari.
Infine, se ho ancora tempo, vorrei aggiungere una nota rispetto alla nostra interlocuzione con il Ministero dell'interno.
Amnesty International ha avuto l'opportunità di incontrare il prefetto Morcone Pag. 9nella fase iniziale della ricerca, all'inizio di marzo, ma non ha poi ottenuto alcun riscontro alle molteplici sollecitazioni rivolte in seguito al Ministro dell'interno e in particolare al Dipartimento di pubblica sicurezza.
Con essi, Amnesty International ha condiviso almeno quattro lettere molto corpose, a giugno, a luglio, a settembre e a ottobre, in cui si riferivano i risultati della nostra ricerca, si segnalavano le testimonianze raccolte e le relative preoccupazioni di Amnesty International e si chiedeva al ministero di condividere informazioni per rispondere a tali preoccupazioni. Purtroppo, nessuna di queste lettere e richieste di incontro ha trovato risposta.
Preciso, in termini di metodologia, che molte delle testimonianze sono state raccolte all'inizio di luglio. Successivamente, avremmo potuto fare una conferenza stampa e fare rumore rispetto a quelle testimonianze, ma abbiamo ritenuto che fosse più corretto scrivere una lettera al Ministero dell'interno, indicando un sommario di ciascuna delle testimonianze che avevamo raccolto, con il virgolettato, e al tempo stesso procedere a una successiva missione di ricerca, un mese dopo, che non era stata preventivamente pianificata, per verificare con un sample diverso di intervistati, a Ventimiglia, a Como e a Roma, se eventualmente potessimo raccogliere ulteriori testimonianze che confermavano il tipo di denunce fatte all'inizio di luglio.
Così abbiamo agito, quindi nel mese di agosto abbiamo raccolto ulteriori testimonianze, mentre non abbiamo ricevuto alcuna risposta da parte del Ministero dell'interno. Nonostante si sia astenuto dal collaborare alla ricerca e dal rispondere alle nostre sollecitazioni, il Ministero dell'interno ha ritenuto di voler, invece, rispondere a mezzo stampa alla pubblicazione del nostro rapporto in maniera molto dura.
Le dichiarazioni di alti ufficiali del ministero si sono concentrate su alcuni elementi.
Primo, bollare il rapporto come un insieme di falsità e di cretinaggini, per quanto senza condividere elementi in grado di fare luce sui casi citati e di dimostrare che gli episodi riferiti sarebbero avvenuti diversamente da come descritto nel rapporto.
Secondo, infangare Amnesty International con accuse basate su elementi, tra l'altro, non veritieri, per esempio che la ricerca non sarebbe stata condotta in Italia o che sarebbe stata condotta solamente a Ventimiglia, mentre abbiamo passato molti più giorni in Sicilia che non a Ventimiglia, o che il rapporto sarebbe stato basato su «presunte» testimonianze, insinuando che Amnesty International possa essersi inventata il contenuto delle stesse, ciò che probabilmente costituirebbe reato.
Terzo, focalizzarsi unicamente sulla parte del rapporto relativa alle violenze, senza dire, invece, una parola in merito agli altri aspetti tutt'altro che secondari, relativi alla detenzione arbitraria, allo screening dei nuovi sbarcati e alle espulsioni illegali.
Sarei certamente lieto di replicare a ciascuna di queste affermazioni con i dettagli opportuni e in maniera più approfondita, se qualcuno degli onorevoli presenti desidererà sollecitarci in tal senso.
Amnesty International opera in maniera trasparente e non ha paura delle critiche. Al tempo stesso, mi permetto di invitarvi a considerare come le accuse mosse nei nostri confronti siano, purtroppo, sinora riuscite a boicottare il dibattito pubblico, che crediamo debba focalizzarsi sulle violazioni dei diritti umani piuttosto che su chi le denuncia.
Vi sono moltissime questioni di merito su cui il Governo italiano deve rendere conto, con risposte precise e proposte di soluzioni.
È vero o non è vero che operatori di polizia hanno ricevuto dal Ministero indicazioni secondo cui l'uso della forza fisica sarebbe legittimo? È vero che in diversi casi operatori di polizia avrebbero dato seguito a tali indicazioni, usando forza fisica su persone che rifiutavano il fotosegnalamento? Sulla base di quale normativa è stato fatto?
È vero che le telecamere che filmano queste operazioni, dove ne esistono, cancellano le immagini raccolte entro 24 ore o al massimo sette giorni, rendendo di fatto Pag. 10impossibile il loro impiego a fini di giustizia?
È vero che durante il rilevamento forzoso delle impronte negli hotspot non è consentita la partecipazione di UNHCR, né di alcuna altra organizzazione internazionale, e che in molti casi le persone che rifiutano di dare le impronte vengono trasferite in commissariati, dove tali organizzazioni non sono nemmeno presenti?
Sulla base di quale normativa si trattengono le persone in hotspot per giorni e settimane, circostanza ormai appurata da tutti gli osservatori, inclusa questa Commissione?
Rispetto allo screening, perché nonostante le critiche sollevate da più parti non è possibile prevedere che prima si offra una informativa su base individuale e poi eventualmente si proceda allo screening?
Attraverso quale meccanismo le autorità che adottano un provvedimento di allontanamento valutano se la persona per cui si ritiene di adottare tale provvedimento non rischi gravi violazioni di diritti umani una volta rimpatriata? Se è vero, come è vero, che tale rischio va valutato in ogni caso secondo la legge, sulla base delle circostanze individuali ed indipendentemente dalla presentazione o meno di una domanda di asilo, perché i provvedimenti di allontanamento non riportano mai riferimenti agli elementi personali considerati al fine di compiere tale valutazione?
Come si concilia quest'obbligo con il memorandum firmato dalla polizia italiana con quella sudanese che prevede che presunti cittadini sudanesi possano essere trasferiti a Khartoum, rapidamente e in alcuni casi senza neanche procedere alla loro identificazione in Italia?
Su che basi il prefetto Pinto, in una lettera pubblicata sull’Espresso, ha affermato che tale principio non si applicherebbe nei confronti dei cittadini sudanesi?
Nel caso del rimpatrio del 24 agosto, è stato chiesto o no alle persone da rimpatriare da quale regione del Sudan provenissero e se le persone hanno detto di venire dal Darfur – ci risulta che diverse persone che sono state rimpatriate effettivamente provenissero dal Darfur – come giustifica il Ministero la decisione di rimpatriarle, nonostante i gravi rischi a cui sarebbero state sottoposte?
Infine, perché il Ministero ha ritenuto di non dare seguito alle lettere inviate da Amnesty International durante il 2016, visto che, come ha dichiarato, non ha niente da nascondere?
Quali misure intende adottare per investigare le denunce e per evitare che, a prescindere da qualunque valutazione su eventi passati, qualunque tipo di abuso sia commesso in futuro?
Queste e altre domande restano aperte e in attesa di una risposta da parte del Governo. Ci sembrano domande legittime, ma non crediamo che, nel porle, possiamo offendere la dignità delle migliaia di operatori di polizia che ogni giorno – lo sappiamo bene – lavorano con grande professionalità e dedizione in condizioni anche molto difficili.
Nella speranza che questa Commissione vorrà considerare di usare le sue prerogative per ottenere una risposta convincente a qualcuna di queste domande, vi ringrazio per la vostra attenzione.
PRESIDENTE. Grazie per l'interessantissima relazione. Do la parola ai colleghi che desiderano intervenire, iniziando dall'onorevole Paolo Beni, che, fra l'altro, è l'estensore della relazione che abbiamo realizzato sulla attività di funzionamento dei quattro hotspot.
PAOLO BENI. Grazie, presidente. Vorrei fare due considerazioni per interloquire, anche per vedere come possiamo avvalerci del prezioso aiuto che offre la relazione che ci è stata fatta dal dottor De Bellis.
Vorrei chiarire un aspetto, a scanso di ogni equivoco. Penso, peraltro, che la documentazione verrà consegnata, quindi la vedremo.
Amnesty è un'organizzazione indipendente. Il governo italiano ha le sue responsabilità istituzionali; il Parlamento ha la sua funzione di indipendenza anche rispetto al Governo. La Commissione di inchiesta parlamentare fa il suo lavoro. Insomma, ognuno ha un suo ruolo, per cui è Pag. 11importante non fare confusione di ruoli, anche rispetto alle polemiche che ci sono state.
Ciascuno si assume le proprie responsabilità nell'esercizio del suo ruolo. Noi non siamo né gli avvocati difensori, né l'inquisizione del Governo. Svolgiamo il nostro ruolo con indipendenza; voi fate il vostro lavoro, quindi vi ringraziamo del contributo.
Proporrei, insomma, di lasciare le polemiche dove stanno. Ognuno motiverà le proprie espressioni. Credo che dobbiamo prendere atto del contenuto di questa audizione, quindi mettere agli atti quanto voi ci state dicendo, considerandolo con tutti gli altri elementi. In sostanza, dobbiamo avvalerci del vostro contributo per fare il nostro lavoro.
Ora, sulle questioni sollevate, abbiamo fatto un'accurata osservazione dei quattro hotspot, ma non solo. Fra l'altro, nella nostra relazione, che presumo abbiate avuto modo di vedere, abbiamo rilevato che i maggiori problemi non sono nell'approccio hotspot, ma riguardano l'intero sistema.
L'approccio hotspot attualmente assorbe meno del 40 per cento degli arrivi. La maggioranza degli sbarchi passa ancora fuori dagli hotspot, intesi come strutture. Quindi, il problema non è tanto quello.
Ora, noi non abbiamo rilevato gli episodi di violenza che voi riportate, attraverso testimonianze che, peraltro, non sono riscontrabili e verificabili. Pertanto, il problema denunciato dobbiamo subordinarlo alle eventuali verifiche. Abbiamo, invece, riscontrato una serie di criticità, che coincidono con alcune osservazioni che voi fate e che sono le stesse che lei stava denunciando.
Sono, però, due cose diverse.
C'è, probabilmente, un problema nelle modalità e nei tempi con cui viene fatto quello che voi avete definito screening, ovvero la selezione in tre categorie fra i richiedenti protezione internazionale, i richiedenti protezione da ricollocare in Europa e i respingimenti differiti o meno, rispetto al fatto che questa suddivisione rischia di ledere la possibilità di dare a tutti il diritto di richiedere protezione, proprio per i tempi in cui viene fatta e per alcune modalità.
Inoltre, c'è il fatto che l'informativa legale è spesso successiva al momento decisivo, che è quello della compilazione del foglio notizie. Lo stesso foglio notizie, ovvero l'intervista dove c'è la fatidica domanda «cosa sei venuto a fare?», è somministrato in una forma discutibile che può creare alcune ambiguità e soprattutto in tempi affrettati rispetto a quelli che verrebbero richiesti per una consapevole manifestazione della propria volontà da parte del migrante.
Ecco, queste sono tutte cose che abbiamo scritto nella nostra relazione e sono elementi di criticità che abbiamo posto al Governo, chiedendo di risolverli.
Inoltre, ci sono le criticità legate al difetto di copertura dal punto di vista della legittimazione giuridica della procedura e delle pratiche. L’hotspot non esiste dal punto di vista delle fonti nella già complessa architettura normativa che sovrintende alla diversa tipologia dei centri.
Qui c'è bisogno effettivamente di un intervento sul piano legislativo. Anche questa cosa, quindi, la segnaliamo.
Detto questo, nessuno può escludere gli episodi di violenza. Noi non li abbiamo verificati, ma se ci sono vanno denunciati, per cui è opportuno che chi di competenza intervenga per verificare.
Affinché sia utile questo scambio reciproco di documenti, materiali e informazioni, nei diversi ruoli – ripeto – che ciascuno di noi svolge, credo che l'approccio debba essere questo. Noi prendiamo atto del vostro lavoro, che sicuramente ci è utile, come farà anche il ministero, anche perché i problemi vanno risolti.
Noi rimaniamo – questa è stata la conclusione del lavoro che ha fatto la Commissione – dell'opinione che l'approccio hotspot, di per sé, ha un senso, una logica e una razionalità in presenza di determinate condizioni. Attualmente non tutte queste condizioni, a cominciare dall'impossibilità di ricollocazione in altri Paesi europei, per andare avanti con diverse altre, sono presenti. Pag. 12
Questo è un elemento su cui il Governo italiano dovrà inevitabilmente lavorare.
EDOARDO PATRIARCA. Sarò breve, ma credo sia importante intervenire. Vorrei continuare la riflessione del collega Beni, con tre passaggi molto brevi.
La prima è che la riflessione che lei ci ha offerto sulla questione generale della filiera della gestione dell'accoglienza nel nostro Paese e i problemi che ha posto sono ben chiari a questa Commissione. Non la prenda come una battuta, ma potrei dedicare ore e ore – come penso anche molti colleghi qui presenti – al tema degli snodi delicati che riguardano l'accoglienza nel nostro Paese perché sono due anni che questa Commissione lavora su questo.
Abbiamo fatto un lavoro di approfondimento parecchio utile e importante. Quindi, la parte nella quale Amnesty illustra i problemi, i nodi e le difficoltà del sistema Italia ci sono noti e sono ben presenti a questa Commissione, che ha svolto sempre un ruolo di interlocuzione, per quanto possibile anche con il Governo. Su questo non posso non condividere la sua riflessione.
La seconda osservazione che mi sentirei di porre è che è ben chiara alla Commissione – penso di poter parlare a nome di tutti i colleghi – la questione della dignità e del rispetto dei diritti, che è assolutamente non negoziabile per quanto riguarda me e molti colleghi.
Laddove si manifestino o si denuncino mancanze o violazione di diritti e della dignità delle persone, come può immaginare, come parlamentari, non possiamo minimamente retrocedere.
Le ponevo, però, alcune domande, chiudendo con una terza riflessione.
Come ricordava il collega Beni, ciascuno deve svolgere il proprio compito con serietà e responsabilità. Le porrei, quindi, due o tre interrogativi.
Primo, laddove parla di un uso lievemente sproporzionato della forza vorrei dei chiarimenti, perché credo ci interessi comprendere. Se lei mi dice che a una persona hanno preso un braccio e glielo hanno messo sul rilevatore e questo viene valutato da Amnesty come un atto di forza, qualche pensiero e qualche riflessione li faccio. Ecco, occorre ben calibrare le parole che si usano, come anche i gesti che eventualmente hanno usato gli operatori della polizia.
All'inizio, lei parlava di uso moderato o sproporzionato. Allora, le chiederei, se fosse possibile capire quali sono i criteri secondo i quali si dice che un gesto nuoce la dignità di una persona o semplicemente, come accade spesso, è solo una forma di convinzione.
Ecco, le domando questo per capire nei casi che lei illustra qual è la misura di questo uso legittimo della forza. Questo è un tema, come lei sa, molto delicato.
Passo all'ultima domanda. Noi siamo una Commissione parlamentare, per cui occorre essere responsabili. Gli elementi che Amnesty ha raccolto hanno già un contenuto che può portare a denunce oppure si tratta di semplici dichiarazioni?
Ovviamente, io rispetto e non metto in dubbio le schede e le annotazioni di Amnesty. Ci mancherebbe altro. Tuttavia, lei capisce che un gesto di denuncia, se vuole andare fino in fondo nel percorso, come auspico, ha bisogno di prove e di sostenere un processo anche giudiziario.
Su questi due punti e, in generale, sul tema uso della forza proporzionato o meno, le chiedo di comprendere quali sono i criteri di Amnesty, rispetto a questa situazione complessa che lei conosce bene, visto che l'Italia quest'anno raggiungerà un'accoglienza dei 170.000 migranti. Dico sempre che non siamo nell'emergenza, ma le strutture sono continuamente sotto pressione.
Ecco, vorrei chiarimenti su questa questione che è importante anche in termini di opinione pubblica. Se Amnesty valuta uso sproporzionato della forza o come una mancanza di rispetto della persona prendere il braccio di una persona e dirgli che deve fare subito il fotosegnalamento, le chiederei un approfondimento.
Inoltre, le chiedo se le riflessioni che lei ci ha proposto e che sono contenute nel Rapporto hanno elementi per una denuncia di chi si ritiene siano responsabili di questi fatti.
PRESIDENTE. Anche io mi permetto di approfittare della vostra presenza. Innanzitutto, vi ringrazio dello straordinario lavoro che state facendo non solo nel nostro Paese, ma a livello mondiale. Soprattutto, credo sia nell'interesse reciproco far emergere situazioni di anomalia o patologiche che sono presenti in qualunque sistema, specialmente in uno come il nostro, che si è trovato a organizzare un'accoglienza con numeri sicuramente non fisiologici, facendosi carico di un problema che non è solo italiano o europeo, ma di natura globale.
Allora, vi sono due cose importanti che anche voi avete denunciato. La prima è il fatto che non esiste una normativa italiana che disciplini meglio questa modalità di accoglienza e di approccio nelle sue articolazioni. La seconda riguarda il tema delle denunce.
Ora, al di là degli esempi che lei ha portato, ho avuto modo di leggere velocemente il dossier, dove si fanno riferimenti molto molto chiari di atti di violenza specifici.
«Mi ha tirato per due volte la mano verso la macchina, ma non sono riuscito a ritrarmi», «mi ha preso per il collo», «mi ha buttato per terra», «sono caduta e mi hanno messo il piede sul lato della faccia per tenermi giù», «siamo rimasti così per dieci minuti e loro dicevano in inglese “vuoi darci le impronte digitali?”».
Insomma, è evidente che l'elenco – ne ho lette molte altre – di denunce riportate dal dossier che voi avete presentato e che mi sembra di aver capito siano il frutto del vostro lavoro non solo nei quattro hotspot, ma in tutte le realtà in cui siete riusciti a raccoglierle, quindi complessivamente in tutto il Paese, sono evidenti violazioni dei diritti umani, della dignità e della libertà delle persone.
Ecco, la domanda che le faccio rispetto a cose così nette e chiare è se l'autorità giudiziaria sia intervenuta. Non ci sono state conseguenze dirette di un'azione da parte dell'autorità giudiziaria? Dopo la presentazione di un dossier del genere, credo che la responsabilità dell'autorità giudiziaria sia di accertare se effettivamente queste testimonianze e dichiarazioni siano conseguenza di un abuso o di una violazione di un diritto.
Se così non fosse, allora comincio a preoccuparmi anch'io seriamente sulla capacità del nostro sistema di rispondere a denunce palesemente chiare, come quelle che avete riportato.
Credo, infatti, che non sia solo un problema di responsabilità dei livelli istituzionali del Ministero dell'interno, ma c'è un problema più generale del nostro Paese che non è in grado, a mio avviso, rispetto alle cose che dite, di gestire una situazione così complessa.
Al di là dei numeri complessivi, che sicuramente sono giganteschi, anche se ci fosse un solo episodio che dimostra che i diritti non sono stati garantiti e tutelati, credo che sia interesse di tutti che questo venga passato all'autorità competente per un'azione immediata di verifica e di indagine conseguente.
Le cedo la parola per una breve replica.
MATTEO DE BELLIS, Ricercatore del Segretariato Internazionale di Amnesty International. Grazie per le riflessioni e per le domande. Innanzitutto, voglio precisare un aspetto.
Abbiamo letto le diverse relazioni, quella di maggioranza e le due di minoranza, di questa Commissione e devo dire che su gran parte dei temi il nostro rapporto e le vostre relazioni coincidono nell'identificazione dei problemi e nell'analisi, come è stato, appunto, sottolineato. Mi sembra importante, quindi, sottolinearlo, aggiungendo che siamo stati invitati e abbiamo voluto esprimere la nostra posizione su tutti i fronti, anche su quelli che sappiamo essere già noti a questa Commissione. Vogliamo, infatti, lasciare agli atti che Amnesty International abbia una determinata posizione su tutti i temi all'attenzione di questa Commissione.
Condividiamo la riflessione per cui il problema non è necessariamente l'approccio hotspot, ma il sistema in generale e la modalità con cui l'approccio hotspot è stato applicato.
Siamo ben consapevoli del fatto che solamente una parte minoritaria degli sbarchi Pag. 14 vengano gestiti nei centri chiamati hotspot.
Questa è una delle ragioni per le quali abbiamo ritenuto di voler allargare il nostro campo di ricerca e valutare anche quali fossero le conseguenze del passaggio delle persone non attraverso i centri chiamati hotspot, perché, appunto, l'applicazione dell'approccio hotspot prevede il fotosegnalamento, lo screening e l'incanalamento verso le diverse destinazioni anche in altri centri di accoglienza e in altri porti, in particolare quando questo possa essere avvenuto in commissariati di polizia.
Sulla selezione e sull'informativa alcune delle riflessioni che abbiamo fatto coincidono completamente con quelle fatte da questa Commissione, come anche sulla mancanza di copertura normativa.
Sull'uso sproporzionato della forza sono stati sollecitati giustamente dei chiarimenti. Questa è una materia estremamente complessa. Noi stessi abbiamo dovuto analizzarla e prendere posizione su cosa venga ritenuto uso necessario o proporzionato della forza. In realtà, però, ci siamo trovati in linea con quanto già stabilito dalla Fundamental Rights Agency (FRA), che l'anno scorso ha pubblicato un documento – se non ricordo male nel settembre 2015 – indicando quali sarebbero i limiti dell'uso della forza proprio a fini di fotosegnalamento.
La nostra posizione è che, come indicato anche dalla FRA, è necessario intervenire inizialmente con tutti i metodi non violenti, quindi con un'informativa legale, con la presenza di un interprete che possa spiegare esattamente alla persona quali sono i suoi diritti, i suoi doveri e le conseguenze giuridiche delle sue azioni. Poi, soltanto una volta che siano stati esperiti senza successo tutti questi tentativi, sarebbe considerato proporzionato o necessario un uso moderato della forza. Per moderato intendo, appunto, il prendere la mano e metterla sulla macchina.
Mi sembra di capire che non siamo completamente d'accordo su questo punto. Devo riferire che la posizione di Amnesty International è che nei casi in cui anche un uso moderato della forza venga esperito senza preventivamente dare informativa legale e senza la presenza di un interprete questo – per quanto uso moderato – debba essere considerato sproporzionato.
Devo, però, sottolineare che quando parliamo di 24 testimonianze di maltrattamenti non ci riferiamo a questo tipo di uso della forza, ma a quelli che sono stati citati, quindi schiaffi, pugni, manganellate e così via, che chiaramente offendono la dignità della persona e non possono costituire trattamento proporzionato secondo nessun criterio. Spero di aver chiarito il punto.
Sulla mancanza della normativa, come ho già detto, siamo d'accordo. Un appunto che vorrei fare è questo. Molte volte è stato detto in passato anche da rappresentanti del governo che ci troviamo di fronte a un vuoto legislativo. In realtà, però, quando si opera e si compiono delle azioni in presenza di un vuoto normativo si può leggere lo stesso evento dall'altra parte, per cui si parla di azioni in violazione di legge.
Stupisce che in questo momento ci si trovi di fronte ad azioni che secondo moltissimi osservatori e secondo questa stessa Commissione vengano compiute in violazione di legge, ma, nonostante queste osservazioni, non risultino, almeno a noi, interventi volti a interrompere il compimento di questi atti.
Mi riferisco, in particolare, alla detenzione che anche questa Commissione ha indicato come chiaramente più prolungata di quanto previsto dalla legge. Lo stesso si può dire per quanto riguarda le testimonianze e denunce rispetto alle violenze riportate. Non ci risulta, al momento, che siano state iniziate attività giudiziarie.
Tutte le persone che abbiamo intervistato erano ovviamente nella libertà di farlo o meno, ma purtroppo hanno ritenuto di non sporgere querela rispetto alle violenze che indicavano di aver subito, spiegando questo in particolare con la volontà di lasciare il Paese il prima possibile, quindi di considerare prioritario questo piuttosto che ottenere eventualmente giustizia nei tempi che conosciamo.
È stata una loro decisione libera, ma anche dal nostro punto di vista sarebbe sempre meglio facilitare l'azione giudiziaria, Pag. 15 per cui speriamo che in qualche misura questo possa ancora avvenire. Tuttavia, in mancanza di una querela della parte presuntamente lesa, è estremamente difficile che si riscontrino sufficienti elementi in ciascuno dei casi. Ovviamente, non precludiamo che questo possa avvenire, anzi speriamo che le autorità giudiziarie, nel caso lo ritengano opportuno, diano loro il seguito necessario.
Ovviamente, noi siamo a disposizione, come speriamo che sia a disposizione il Ministero dell'interno. Preciso, in conclusione, che nel momento in cui abbiamo condiviso tutte le informazioni e una copia del rapporto anche con il Ministero dell'interno, funzionari dello Stato che hanno determinati obblighi di legge, non abbiamo nessuna ragione per dubitare che abbiano agito secondo la legge o che lo faranno in futuro.
PRESIDENTE. Grazie. Ovviamente, anche noi faremo la stessa cosa. Ovviamente prendiamo atto della relazione che ci viene consegnata e faremo anche noi i nostri passaggi obbligati nei confronti dell'autorità giudiziaria, con la quale, come Commissione parlamentare di inchiesta, collaboriamo. La magistratura, ovviamente, svolge un altro mestiere rispetto al nostro, ma avete segnalato delle situazioni che effettivamente devono essere verificate e oggettivate.
Detto questo, vi ringraziamo per il contributo. La polemica iniziale con la quale ho esordito era legata al fatto che il lavoro che abbiamo realizzato e agli accertamenti che abbiamo effettuato nei quattro hotspot.
Quando ci siamo stati noi, le testimonianze e le verifiche che abbiamo raccolto non corrispondono alle cose che sono riportate da voi. Mi sembra, però, che abbiamo chiarito che il contesto è più generale e non è riferito solo ai quattro hotspot. Questo mi fa molto piacere, altrimenti avrebbe significato che avevamo preso un abbaglio, il che mi sembra abbastanza infondato.
Allora, continuiamo su questa strada. Ovviamente, vedremo se ci sono degli sviluppi anche rispetto a questa nostra azione per il lavoro che stiamo svolgendo, come veniva detto dai colleghi, ognuno nelle proprie competenze e nei propri ambiti. Credo che sia molto importante, comunque, continuare con questo impegno perché il fenomeno della migrazione non andrà sicuramente a scemare, ma dovrà essere continuamente monitorato e anche governato e gestito meglio di quello che è stato fatto fino ad oggi.
Nel ringraziarla nuovamente del contributo, dichiaro conclusa la seduta.
La seduta termina alle 9.55.
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