Sulla pubblicità dei lavori:
Vito Elio , Presidente ... 2
INDAGINE CONOSCITIVA SUI SISTEMI D'ARMA DESTINATI ALLA DIFESA IN VISTA DEL CONSIGLIO EUROPEO DI DICEMBRE 2013
Audizione del professor Michele Nones, direttore dell'area sicurezza e difesa dell'Istituto Affari Internazionali (IAI).
Vito Elio , Presidente ... 2
Nones Michele , Direttore dell'area sicurezza e difesa dell'Istituto Affari Internazionali (IAI) ... 2
Vito Elio , Presidente ... 7
Scanu Gian Piero (PD) ... 7
Nones Michele , Direttore dell'area sicurezza e difesa dell'Istituto Affari Internazionali (IAI) ... 7
Cicu Salvatore (PdL) ... 7
Nones Michele , Direttore dell'area sicurezza e difesa dell'Istituto Affari Internazionali (IAI) ... 8
Artini Massimo (M5S) ... 9
Nones Michele , Direttore dell'area sicurezza e difesa dell'Istituto Affari Internazionali (IAI) ... 9
Rossi Domenico (SCPI) ... 11
Nones Michele , Direttore dell'area sicurezza e difesa dell'Istituto Affari Internazionali (IAI) ... 11
Piras Michele (SEL) ... 12
Nones Michele , Direttore dell'area sicurezza e difesa dell'Istituto Affari Internazionali (IAI) ... 13
Frusone Luca (M5S) ... 14
Galli Carlo (PD) ... 15
Artini Massimo (M5S) ... 15
Villecco Calipari Rosa Maria (PD) ... 15
Vito Elio , Presidente ... 15
Nones Michele , Direttore dell'area sicurezza e difesa dell'Istituto Affari Internazionali (IAI) ... 15
Vito Elio , Presidente ... 17
Audizione del dottor Gianandrea Gaiani, direttore della rivista Analisi Difesa:
Vito Elio , Presidente ... 17
Gaiani Gianandrea , Direttore della rivista ... 17
Vito Elio , Presidente ... 22
Corda Emanuela (M5S) ... 22
Gaiani Gianandrea , Direttore della rivista ... 22
Garofani Francesco Saverio (PD) ... 24
Gaiani Gianandrea , Direttore della rivista ... 24
Rossi Domenico (SCPI) ... 26
Gaiani Gianandrea , Direttore della rivista ... 26
Cicu Salvatore (PdL) ... 27
Vito Elio , Presidente ... 29
Gaiani Gianandrea , Direttore della rivista ... 29
Duranti Donatella (SEL) ... 30
Gaiani Gianandrea , Direttore della rivista ... 30
Galli Carlo (PD) ... 31
Gaiani Gianandrea , Direttore della rivista ... 31
Vito Elio , Presidente ... 32
ALLEGATO: Documentazione presentata dal professor Michele Nones, direttore dell'area sicurezza e difesa dell'Istituto Affari Internazionali (IAI) ... 33
Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Fratelli d'Italia: FdI;
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE ELIO VITO
La seduta comincia alle 10.05.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata, oltre che attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, anche mediante la trasmissione sul canale satellitare della Camera dei deputati e la diretta televisiva sulla web-tv della Camera dei deputati.
Audizione del professor Michele Nones, direttore dell'area sicurezza e difesa dell'Istituto Affari Internazionali (IAI).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del direttore dell'area sicurezza e difesa dell'Istituto Affari Internazionali (IAI), nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui sistemi d'arma destinati alla difesa in vista del Consiglio europeo 2013.
Come i colleghi ricorderanno, nel programma deliberato all'unanimità dall'Ufficio di presidenza della Commissione e autorizzato dalla Presidenza della Camera, era prevista la possibilità di svolgere audizioni di esperti.
Ringrazio il professor Nones, che già nelle passate legislature è stato audito dalla Commissione difesa e ha potuto mettere al servizio del Parlamento la sua esperienza e la sua competenza. Sicuramente, gli saremo grati per quanto ci dirà questa mattina.
Se siete d'accordo, procederei in questo modo: darei la parola al professor Nones, che ha predisposto anche delle slide illustrative e svolgerà, quindi, un breve intervento introduttivo; dopodiché, potremmo passare direttamente alle domande dei colleghi, alle quali il professor Nones risponderà singolarmente. In questo modo, potremo svolgere più domande e più interventi di replica del professore. Naturalmente, l'invito è quello di fare domande brevi e specifiche. Il professore risponderà in maniera diretta.
Do, quindi, la parola al professor Nones per l'illustrazione della sua presentazione.
MICHELE NONES, Direttore dell'area sicurezza e difesa dell'Istituto Affari Internazionali (IAI). Vorrei, innanzitutto, ringraziarvi per avermi offerto l'opportunità di parlare qui oggi su un tema al quale ho dedicato gran parte della mia vita professionale e sul quale spero di poter condurre riflessioni che vi possano aiutare nel lavoro che avete avviato.
Ho letto lo stenografico dell'audizione del Ministro Mauro che si è concentrato sugli aspetti istituzionali e legislativi della politica degli armamenti. Ovviamente, essendo questa la prima audizione dell'indagine conoscitiva dopo quella del Ministro, ho pensato fosse opportuno cercare di offrirvi quello che, a mio avviso, è lo scenario di riferimento all'interno del quale vanno esaminati i temi legati alla politica degli armamenti o, comunque, al processo di acquisizione dei sistemi di difesa.
Schematizzerò molto, cercando di prendere meno tempo possibile, attraverso 9 slide che scorrerò molto velocemente e Pag. 3che serviranno un po’ di guida alle mie riflessioni. La prima riguarda lo scenario per la difesa italiana. Credo che il primo elemento da considerare sia quello della minaccia asimmetrica, diventata difficilmente prevedibile e quantificabile in termini di tempi, provenienza, modalità e durata. Siamo passati, con l'inizio di questo secolo, a un quadro strategico in cui è molto più difficile definire la minaccia.
Uso sempre questo esempio: se a metà del primo decennio degli anni Duemila qualcuno avesse chiesto, anche ai cosiddetti esperti, se ritenevano possibile che l'arco della crisi – che identifichiamo con l'insieme dei Paesi a più alta instabilità politica e istituzionale e, quindi, che possono potenzialmente creare maggiori problemi – avrebbe potuto coprire tutta la sponda sud del Mediterraneo, credo che sinceramente nessuno di noi avrebbe dato una risposta positiva. Eppure, nell'arco di pochi anni, ci siamo ritrovati con una minaccia che mentre prima collocavamo in una distanza dell'ordine delle migliaia di chilometri adesso collochiamo in una distanza dell'ordine delle centinaia di chilometri.
In secondo luogo, esiste l'aspetto dell'insegnamento delle missioni internazionali. Queste, soprattutto negli ultimi quindici anni, sono state particolarmente importanti e hanno fornito alcuni insegnamenti importanti: l'inserimento in iniziative collettive; l'interoperabilità con strumenti militari avanzati; la sostenibilità nel tempo di queste missioni; la necessità di proteggere il personale; la necessità di limitare i cosiddetti danni collaterali; la necessità di sviluppare il comprensive approach e, quindi, azioni che possano avere anche un'attività militare, ma che sicuramente fin dall'inizio dovrebbero sempre avere anche una loro componente e una loro attività in campo civile.
Vengo al terzo aspetto, quello del contenimento delle spese nell'ambito della riduzione del personale. Le dimensioni delle Forze armate non solo italiane, come vedremo da alcuni dati, sono assolutamente insostenibili con le risorse messe a disposizione da tutti i Paesi avanzati. Il problema, casomai, non è solo quello di definire il livello di dimensione ottimale, ma anche quello dei tempi in cui questa riduzione può essere sviluppata. Vi anticipo che è mia personale opinione ritenere che i tempi attualmente previsti per la riduzione del personale delle Forze armate non siano adeguati e sufficienti per consentire loro di tornare a un assetto ottimale dal punto di vista del rapporto investimenti, esercizio e personale.
Faccio, inoltre, presente che un aspetto metodologico sul quale bisognerebbe riflettere è il seguente: se ci troviamo di fronte, per tante ragioni – non voglio sindacare quali – a una dimensione di emergenza, che vede uno squilibrio totale tra le dimensioni delle Forze armate e la loro capacità operative, credo che il Parlamento dovrebbe valutare insieme al Governo la possibilità di attuare delle misure di carattere straordinario che ovviamente cerchino di non penalizzare e di limitare al massimo l'impatto sociale di queste misure.
Infine, esiste la necessità di una maggiore integrazione europea per garantire le capacità di sicurezza e difesa europea. Siamo entrati in una fase in cui l'Europa non è più vista come una scelta di qualche europeista convinto, come sono io, ma bensì accettata come una necessità ineludibile. Non esistono alternative al processo di integrazione europea perché, altrimenti, i singoli Paesi europei rischiano di veder compromesse completamente le loro capacità di sicurezza e difesa e, per quanto può essere rilevante, anche le connesse capacità tecnologiche e industriali.
Nelle slide a pagina 74, 75 e 76 mi sono limitato a presentarvi il divario tra Europa e Stati Uniti. Tenete presente che è un artifizio. Non esiste, infatti, un'Europa, ma la sommatoria dei 28 Paesi attuali Stati membri dell'Unione europea. Quindi il confronto è artificiale. Magari avessimo da una parte l'Europa e dall'altra gli Stati Uniti !
Se, però, vogliamo andare avanti e pensare che l'Europa porti avanti un suo processo di unificazione, il confronto con gli americani è palesato dagli squilibri Pag. 4evidenziati in questi grafici, ma l'aspetto su cui vorrei soprattutto concentrare l'attenzione è che abbiamo un impegno complessivo in termini economici assolutamente squilibrato.
Dal punto di vista politico-militare, un rapporto squilibrato è, secondo me, il presupposto per una minore capacità di influenza nei confronti dei partner. Vale per l'Italia nei confronti degli altri Paesi europei; vale per l'Europa nei confronti degli Stati Uniti. È un po’ il discorso della mosca che dice all'elefante dove andare. Credo, dunque, che sia necessario un rapporto più equilibrato che consenta all'Europa, seppure messa tutta insieme, di affrontare con gli americani ogni iniziativa da posizioni più equilibrate.
L'aspetto più preoccupante è, comunque, il tema degli investimenti. È chiaro, infatti, che, se gli Stati Uniti continuano a investire sul settore della difesa e l'Europa continua a mantenere l'attuale trend, il gap tecnologico tra l'Europa e gli Stati Uniti sarà destinato ad aumentare. È un dato di fatto. I nuovi sistemi d'arma sostituiscono i vecchi, hanno prestazioni e capacità diverse. Noi continuiamo ad avere un assetto europeo basato su equipaggiamenti militari sempre meno operabili nei confronti di quelli più avanzati.
Scusate la banalità, ma è un po’ come continuare a provare – come a volte faccio io, che ho 63 anni – determinati programmi sui computer, mentre questi sono andati più avanti; non funzionano più, non sono più utilizzabili. Bisogna, a un certo punto, compiere dei salti di qualità e avvicinarsi a una riduzione di questo gap tecnologico.
L'ultimo dato su cui vorrei svolgere una riflessione è relativo alle spese di ricerca e sviluppo e a quelle di ricerca e tecnologia, riportato nella slide a pagina 76. È un aspetto importante perché le spese sulla ricerca e sviluppo in ogni campo rappresentano l'investimento sulle generazioni future. Parlo di generazioni di persone. Rappresentano il nostro investimento sui tecnici che un domani, tra dieci anni, saranno quelli che gestiranno le attività.
È chiaro che, se gli Stati Uniti hanno un trend così nettamente superiore a quello europeo, sia sulla parte ricerca e sviluppo sia su quella ricerca e tecnologia, stiamo assistendo a un aumento del divario tecnologico tra gli Stati Uniti ed l'Europa.
In tutti i campi, ma anche in quello della difesa, il paragone è artificiale se si limita al confronto tra Stati Uniti ed Europa. Se gli Stati Uniti rappresentano il benchmarking, il Paese più avanzato dal punto di vista tecnologico, e l'Europa sta rincorrendo, va tuttavia aggiunto che non è vero che dietro l'Europa non ci sia nessuno. Ci sono le nuove grandi potenze regionali che stanno crescendo. Siamo su una scala. Se ci allontaniamo dalle posizioni di vertice, stiamo progressivamente scivolando indietro o, se volete, quelli che stavano dietro stanno venendo avanti. Il risultato è che l'Europa si trova schiacciata tra un Paese che continua a investire massicciamente sul settore della ricerca e dello sviluppo nel campo della sicurezza e difesa, da una parte, e nuovi Paesi che stanno facendo altrettanto, dall'altra.
Il mercato europeo della difesa sta subendo, evidentemente, la crisi economica finanziaria che coinvolge anche l'Italia insieme agli altri Paesi. Direi che sono quattro gli elementi di riferimento. Il primo è che, oggettivamente, sta andando avanti l'integrazione del mercato europeo della difesa. Piaccia o non piaccia, coscientemente o inconsciamente, in qualche modo sta succedendo questo.
Allo stesso tempo, stanno andando avanti l'internazionalizzazione e la concentrazione dell'industria europea della difesa. Oggi, infatti, parlare di industrie nazionali della difesa è sempre più difficile. Le industrie sono internazionalizzate sia per mercati di riferimento, perché acquisiscono gran parte degli ordini su mercati che non sono quelli del Paese in cui fisicamente sta il loro exporter, la loro base, sia perché a volte la stessa proprietà delle imprese è diventata internazionalizzata.
Ancora, si sta internazionalizzando la catena dei rifornitori. Infatti, queste imprese Pag. 5sempre più sovranazionali cercano di trovare nei Paesi vicini, e non solo all'interno del territorio nazionale, i fornitori più efficienti.
Infine, aspetto da non sottovalutare, esiste il problema della spinta per i Paesi europei, per le industrie europee, all'esportazione verso i Paesi terzi non europei. È una spinta determinata dalla scarsità della domanda sui mercati europei, che però espone l'Europa rispetto agli Stati Uniti e anche, ormai, rispetto a Russia e alle nuove potenze regionali a un grado di dipendenza dalle esportazioni molto più elevato.
In pratica, le industrie europee sono export oriented più di quanto non lo siano quelle americane. Questo, evidentemente, sul piano politico, si riflette in una serie di conseguenze molto importanti. Manca, in Europa, una capacità di governare, una governance europea del processo in corso. Abbiamo lavorato molto – parlo come europeo – sulla regolamentazione del mercato. Sono state fatte due direttive europee, una sugli acquisti di prodotti per la difesa e una sui trasferimenti intracomunitari, ma queste regolamentazioni devono essere trasposte nelle normative nazionali. Segnalo, a questo proposito, che l'Italia, ahimè, non è sicuramente tra i Paesi da citare a esempio: su ambedue le direttive, infatti, siamo ancora indietro nella fase applicativa.
Abbiamo una domanda che resta frammentata perché la domanda dei Paesi europei resta nei Ministeri della difesa europei. Abbiamo un'offerta tendenzialmente più integrata. Dal punto vista economico, questo vuol dire che il mercato europeo è squilibrato, c’è una domanda frammentata e un'offerta che, tendenzialmente, è sempre più integrata. Tanto per capirci, il fatturato dei grandi gruppi europei è superiore a quello di 3, 4 o 5 Ministeri della difesa europei. Credetemi, questo non è mai un sintomo di benessere. Significa, infatti, che è molto più forte l'offerta rispetto alla domanda. Tale aspetto è un elemento su cui in Europa dobbiamo riflettere.
C’è una maggiore interdipendenza europea, una perdita di identità nazionale delle imprese. Sempre più, ogni Paese europeo dipende dagli altri Paesi europei. Le imprese, come dicevo, diventano sempre più sovranazionali, ma, non esistendo un quadro di integrazione sufficientemente avanzato, cominciano a presentarsi rischi per la sicurezza degli approvvigionamenti.
Vi cito subito un esempio. Se l'AgustaWestland dipende da un fornitore collocato in un determinato Paese europeo e questo fornitore è acquisito da un concorrente di AgustaWestland, è chiaro che da quel momento AgustaWestland rischia di essere condizionata da un suo concorrente. Siccome l'Europa non si è data una normativa europea per il controllo comune delle attività strategiche, ma solo alcuni Paesi, compresa l'Italia, l'hanno a livello nazionale, questo rischio è reale.
Vengo adesso ai trasferimenti tecnologici. Poiché l'Europa è fortemente dipendente dalle esportazioni, i clienti possono imporre ai competitori di effettuare i trasferimenti tecnologici. Questo processo può essere estremamente delicato perché potrebbe indebolire la cosiddetta base tecnologica industriale europea. Mancando una politica di esportazione comune, i Paesi europei si mettono in concorrenza tra loro, oltre che nei confronti degli americani, degli altri fornitori.
Di fronte a questa situazione, l'Europa si sta muovendo e questo è ciò che conta. Per la prima volta a dicembre, il Consiglio europeo dei Capi di Stato e di Governo affronterà – tra i temi che saranno messi all'ordine del giorno – il tema della difesa. Per preparare quest'evento, tutti i servizi e le istituzioni europee stanno lavorando per produrre documenti. Non l'ho citato, ma lo stesso Parlamento europeo sta seguendo con grande attenzione quest'evento.
Si tratta di una sfida rischiosa. Possiamo schematicamente ipotizzare il risultato che a dicembre, il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo si concluda con semplici dichiarazioni di buone intenzioni, di buona volontà e, secondo me, il rischio è che il processo inevitabile di ristrutturazione Pag. 6degli strumenti militari europei vada avanti in ordine sparso. Ogni Paese procederà alle sue riduzioni in modo che prenderà, come a mio avviso rischiamo di fare anche noi, le sue forze armate e le ridurrà, ad esempio, del 10 per cento da una parte e da un'altra, cercando di mantenere in ogni Paese le stesse capacità. Non è, tuttavia, questa la soluzione. Sotto un certo livello e una certa soglia, determinate capacità non hanno assolutamente significato.
Tanto per capirci, se alla fine dovessimo ritrovarci con dieci velivoli intercettori, non ci faremmo niente. Se, infatti, l'attacco arriva da nord anziché da sud o da est anziché da ovest, con i dieci intercettori non saremmo in grado di contrastarlo, essendo necessario un numero minimo. Se in ogni settore non riusciamo a garantire, come tutti gli altri Paesi, quella soglia minima, dobbiamo farlo rinunciando a quelle capacità e confidando sul fatto che siano mantenute da un altro Paese, ma questo, evidentemente, non può che avvenire con un processo organizzato.
L'ultima slide riguarda l'ammodernamento delle Forze armate. Su alcuni punti, a mio avviso, è necessaria una riflessione e devono essere adottate delle misure. Anzitutto, non possiamo essere un Paese attivo, a volte molto attivo, nella messa a punto degli impegni europei e poi venire meno nella fase applicativa. Dobbiamo essere coerenti e conseguenti. Ne va anche della nostra credibilità.
Se avanziamo delle proposte a livello europeo e poi siamo gli ultimi ad adottarle, è chiaro che la volta successiva il nostro impatto sarà molto minore. Mi riferisco al fatto che, a distanza di quattro anni dalla direttiva europea n. 43 del 2009 relativa ai trasferimenti intracomunitari, non abbiamo ancora completato non il recepimento formale, ma la fase applicativa, che è la stessa cosa.
Quanto al mantenimento dell'affidabilità italiana come partner internazionale, se diventiamo sempre più integrati sia a livello europeo sia a livello internazionale, dobbiamo dimostrare di essere affidabili. Nessuno di noi – vorrei quasi dire anche a livello personale – si metterebbe insieme a qualcuno che non sia affidabile.
Allora, l'affidabilità richiede anche coerenza. Tutte le decisioni possono essere ridiscusse e riesaminate di fronte a eventi nuovi, ma sicuramente non possono essere rimesse in discussione un giorno sì e l'altro no. Questo impedisce che l'Italia sia considerata a livello internazionale un partner affidabile.
In relazione al rafforzamento delle capacità industriali e tecnologiche, credo che l'Italia abbia sviluppato, con grandi sacrifici dei contribuenti, delle capacità significative nel campo della sicurezza e della difesa, che giudico un patrimonio importante del Paese e che, quindi, va mantenuto. Oltretutto, nei settori avanzati, a mio avviso non ne abbiamo molte altre.
In tema di adeguamento nel breve e medio periodo del rapporto personale, esercizio e investimento, bisogna liberare risorse nel bilancio della Difesa e questo passa per un'accelerazione della ristrutturazione delle Forze armate.
Possiamo anche discutere di tutti i programmi – so che siete stati molto impegnati, in particolare sulla discussione e sul programma degli F-35, discussioni interessanti e sicuramente utili – ma mi permetto di richiamare la vostra attenzione sul fatto che è molto difficile, credo persino per un tecnico, per quanto in buona fede, offrire un contributo su un singolo programma se non gli si chiarisce il quadro di riferimento.
Cito sempre l'esempio dei Vigili del fuoco, che servono, ci sono e funzionano, per fortuna, in Italia anche se, per fortuna, non devono intervenire molto spesso. Stabilire, però, quante autoscale, autopompe o veicoli per la protezione devono avere è un processo che va chiaramente definito anche coinvolgendo le istituzioni, il Parlamento, il Governo, ma che deve partire da un quadro di riferimento. Diversamente, discutere se bisogna comperarne 50, 25 o 17, a mio avviso, rischia di essere un po’ inconcludente.
PRESIDENTE. Ringrazio molto il professore Nones per la completezza della sua introduzione, nonché per la documentazione che ci ha fornito di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta (Vedi allegato).
Do ora la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni. Ricordo che alle ore 11 abbiamo un'altra audizione.
GIAN PIERO SCANU. Le mie saranno, presidente, due domande brevi. Per un Paese come il nostro, professore, a cosa risponde il concetto di affidabilità ?
Inoltre, per quale ragione, a suo giudizio, nonostante nel nostro Paese non ci sia un Libro bianco della Difesa, si intenderebbero acquistare novanta F-35 ?
MICHELE NONES, Direttore dell'area sicurezza e difesa dell'Istituto Affari Internazionali (IAI). Forse qualcuno di voi ricorda la vicenda dell’A-400M, il velivolo da trasporto europeo: ci siamo impegnati, inizialmente, nella partecipazione al programma e poi, a un certo punto, ci siamo defilati con motivazioni a mio avviso non corrette. In quel momento, credo che abbiamo messo a repentaglio la nostra affidabilità.
Cito un altro esempio. Oggi, siamo impegnati, come dico apertamente, nel programma F-35, a cui lei ha fatto riferimento e abbiamo preso degli impegni nei confronti di Paesi come l'Olanda. Lasciamo perdere gli americani, parlo dei Paesi europei: abbiamo sottoscritto un accordo con l'Olanda, in base al quale ci siamo impegnati a costruire i velivoli olandesi nel Centro FACO di Cameri e, in cambio, abbiamo riconosciuto che l'attività sulla parte motoristica sarà sviluppata in Olanda attraverso una società, peraltro vorrei ricordare controllata dalla AVIO. In parte è, dunque, una partita di giro.
Ipotizziamo che, a questo punto, decidessimo di non andare più avanti con la FACO, che buttiamo via il miliardo di euro investito e che interrompiamo la collaborazione con gli americani: ovviamente, dovremo sostituire ugualmente una serie di velivoli in servizio nel momento in cui escono dalla fase operativa e, quindi, credo che dovremo lo stesso comperare degli F-35, anche se non li produrremo più in Italia. Agli olandesi cosa diciamo ? Che abbiamo scherzato ? Che abbiamo cambiato idea, che non si fa più la FACO e di arrangiarsi ? Credo che una decisione del genere comprometterebbe pesantemente l'affidabilità italiana.
Quanto al Libro bianco, da tanto tempo ne vado sostenendo la necessità. Per mia memoria, sono andato a ricontrollare: 1977, 1985, 2002. Lasciamo perdere la qualità, ma 8 anni tra il primo e il secondo, 17 anni tra il secondo e il terzo, 11 anni senza Libro bianco sono tanti. Altri Paesi a noi simili realizzano dei Libri bianchi con cadenza quasi triennale. Credo sia giunto il momento. Questo non significa che si possa fermare la corsa; non si può fermare un treno che sta marciando per ripartire quando si sarà pronti. Il treno va avanti perché è il treno europeo internazionale.
Certo, sono convinto che, nel quadro di un Libro bianco, si potranno meglio spiegare le ragioni e i modi di certe scelte o, eventualmente, anche correggerle, ma il treno va avanti, per cui credo che non sia questione di bloccare un programma. Se si vuole fare un Libro bianco, sei mesi sono sufficienti. Se il Ministro della difesa decide in tal senso, sono convinto che nella primavera dell'anno prossimo può tornare, consegnarvi il Libro bianco e discuterlo con voi e col Parlamento, prendere le decisioni necessarie e, su quella base, modificare e confermare o meno i programmi. Senza, credo che sarebbe un po’ più difficile.
SALVATORE CICU. Ho avuto modo di apprezzare Michele Nones durante tutto il lungo periodo in cui mi sono interessato al sistema delle Forze armate. Lo dico in premessa perché credo che la sua autorevolezza in questa Commissione debba assumere un significato interessante.
La mia domanda è provocatoria, credo anche abbastanza complessa, ma in caso di risposta, forse riusciremmo ad andare Pag. 8avanti rispetto alla particolare questione degli F-35 e dei sistemi che riguardano i programmi d'arma in generale.
Giustamente, lei ha osservato che, per valutare il modo in cui le nostre Forze armate possono assicurare sicurezza e difesa al nostro Paese, si deve partire da criteri di valutazione preliminari in modo da poter capire quale sia l'entità degli strumenti di cui abbiamo bisogno. Infatti, in Parlamento e nel Paese, da una parte, si discute della crisi drammatica che coinvolge il nostro sistema complessivamente, della necessità di tutelare i nostri cittadini, i nostri operai, le nostre piccole e medie imprese; dall'altra, si cerca di capire se la destinazione dei finanziamenti per la sicurezza e la difesa del Paese sia congrua e in che modo questa congruità debba essere valutata.
A suo giudizio, professor Nones, se lei non fosse in grado di risponderci, chi potrebbe farlo ? Per me la fase ideologica è superata. Rispetto le opinioni degli altri, ma per me la fase ideologica è superata. Credo, infatti, che questo Paese abbia bisogno di difesa e sicurezza e, come correttamente lei ha affermato, di agganciarsi al treno dell'innovazione e della tecnologia internazionale, dove non possiamo essere ultimi tra gli ultimi. Le chiedo, dunque, se può indicarci gli elementi che, in qualche modo, ci aiutino a capire quale possa essere il numero più congruo rispetto agli F-35.
MICHELE NONES, Direttore dell'area sicurezza e difesa dell'Istituto Affari Internazionali (IAI). Credo che i riferimenti siano o possano essere due. Attualmente, abbiamo circa 220-221 velivoli che svolgono, sulla carta, l'attività che sarebbe svolta dall’F-35. Dico sulla carta perché, come sapete, il livello operativo, cioè quante di queste macchine sono effettivamente in grado di volare, è molto più basso rispetto ai numeri.
Apro una parentesi. Nella politica degli armamenti, finora si è premiato – non solo in Italia, bensì in molti Paesi anche europei – l'acquisto rispetto al funzionamento: si comprano dieci unità sapendo in partenza che tre funzionano e le altre sette sono in manutenzione o in revisione o difettose o non in grado di essere mantenute. È come se ciascuno di noi comperasse tre automobili per usarne una: penso che ciascuno di noi compri un'automobile e cerchi di farla funzionare; se non funziona, la porta dal meccanico e si tiene i soldi sufficienti per pagare il meccanico. È un'impostazione un po’ contorta.
Scusate, ma a me sembra che sia proprio una brutta abitudine italiana, come per le scuole. Costruiamo edifici splendidi: siccome, però, nessuno ha previsto le spese di manutenzione, dopo due anni nelle università, dove magari il primo giorno funziona tutto, non ci sono i soldi per riparare i computer, non funziona il visore, non c’è neanche la carta igienica e siamo a livelli inauditi. Bisogna che impariamo a gestire bene ciò su cui investiamo il denaro dei nostri contribuenti. Ciò premesso, e precisato che non volano tutti i 221 velivoli, credo che attualmente ne abbiamo circa la metà in grado di volare.
La Difesa prevede di sostituirli con un rapporto non più di uno a uno, ossia non sostituisce neanche quelli che sono operativi. Il numero si è ridotto per due ragioni: in primo luogo, nel nuovo velivolo è assicurata un'operatività molto superiore a quella attuale (si punta a un'operatività del velivolo superiore al 75 per cento, quindi, su 100 velivoli, 75 devono volare); in secondo luogo, le capacità e le prestazioni di questi velivoli sono, indubbiamente, molto superiori a quelle dei velivoli che vanno a sostituire e, quindi, si può ridurne il numero mantenendo le stesse capacità. Il primo riferimento, dunque, è che vanno sostituiti.
Il secondo riferimento è quello relativo all’Eurofighter. Nella concezione della nostra Aeronautica – non ho elementi per contraddirla – si ritiene di dover avere un numero di velivoli intercettori, cioè destinati alla difesa aerea, uguale a quello dei velivoli destinati all'appoggio tattico. Come tutte, questa è una scelta di carattere Pag. 9tecnico-militare. Non è scritto nel Vangelo, ma è un rapporto che hanno ritenuto congruo.
Inoltre, è sostenibile nel bilancio della Difesa. È chiaro, infatti, che, se potessero, ne comprerebbero di più. Poiché non possono, hanno ritenuto di fissare il numero in novanta, peraltro nell'arco di dodici anni. Stiamo parlando, allora, di un acquisto molto protratto nel tempo.
MASSIMO ARTINI. Ringrazio il professor Nones, che non conoscevo, ma del quale apprezzo molto l'ampia visione che ci ha fornito.
Pur essendo qui da poco e non avendo mai trattato l'argomento in maniera molto approfondita, ho appreso che, dopo il 1990, alla base del concetto di difesa c’è quello di minaccia asimmetrica. Le chiedo di illustrarmi un'esperienza reale di una minaccia che ci permetta di giustificare questo sistema di difesa.
Sinceramente, non vedo queste minacce non solo dal punto di vista degli intercettori – è stato anche affermato che negli ultimi trent'anni non hanno mai svolto quel ruolo perché nessuno ci ha mai attaccato a livello aereo e che sono stati utilizzati solo cacciabombardieri – ma neanche in altri settori. È vero che aumentando il livello della pericolosità dei conflitti esterni, anche molto distanti, cresce anche una certa paura, ma veramente mi chiedo quale sia questo pericolo per l'Italia. Magari sono io che non riconosco quali possano essere i concreti pericoli per l'attacco al nostro Paese.
Con riguardo, poi, a quanto è emerso proprio ieri a conclusione dell'esame del documento programmatico pluriennale del Ministero della difesa per gli anni 2013-2015, anche il sottosegretario Pinotti ci ha confermato che, sommando tutti gli importi destinati agli investimenti militari – sia nella parte del bilancio del Ministero dello sviluppo economico sia in quella propria del Ministero della difesa – si arriverebbe ad un rapporto che vede il 51 per cento delle risorse speso per la parte del personale, il 14 per cento su quella dell'esercizio (quindi torna il suo ragionamento) e il 33 per cento su quella degli investimenti. Lei ha affermato che l'attuale numero di personale non è sostenibile dall'attuale strumento di difesa: incrementando di un altro 5, 6 o 7 per cento la spesa destinata all'acquisto degli strumenti d'arma, quale sarebbe l'entità di personale che ci servirebbe per poterli fare funzionare ?
Lei ritiene che, effettivamente, esista questa necessità di riformulare anche la parte del personale ? Siamo già al 51 per cento e il paradigma della riforma prevedeva il 50 per cento: non c’è grande divario tra l'obiettivo della riforma Di Paola e quello attuale se si considerano anche gli investimenti iscritti nel bilancio del Ministero dello sviluppo economico.
Vorrei capire se effettivamente abbia senso ristrutturare la parte del personale o se, invece, non serva ridurre la parte degli investimenti per incrementare quella dell'esercizio.
Neanche io comprerei tre automobili per garantirmi per vent'anni di poter guidare una macchina. Probabilmente, terrei i soldi per la corretta manutenzione, che peraltro probabilmente costa anche meno che acquistare le automobili nuove.
MICHELE NONES, Direttore dell'area sicurezza e difesa dell'Istituto Affari Internazionali (IAI). Parto dalla seconda domanda. Forse mi sono espresso male. Penso che l'attuale quadro della Difesa non sia sostenibile dal punto di vista dell'inefficienza che genera. Teoricamente, possiamo anche permetterci una difesa in cui il 100 per cento delle spese finisce sul personale, ma sarebbe come il discorso fatto per l'università e per la ricerca: paghiamo le persone, ma se non garantiamo loro i mezzi per lavorare, finiamo per tenere la gente a grattarsi i pollici. Vale per la Difesa e per l'università.
Credo che dobbiamo rapportarci alle medie dei Paesi a noi simili, in cui le spese del personale rappresentano il 50 per cento del bilancio della Difesa. Bisogna, inoltre, verificare, come sono distribuite queste spese: se il vertice non sia grande e il corpo, invece, piccolo, come siano Pag. 10distribuiti i costi e così via. Per il momento, mi limito ad affermare che non siamo all'ottimale.
Tra parentesi, considerare le spese del Ministero dello sviluppo economico è giusto e da anni, come IAI, ci sforziamo di produrre delle stime per offrire al Paese e all'opinione pubblica dati più credibili, che non siano solo quelli del bilancio della Difesa, perché la dimensione del nostro impegno sarebbe completamente falsata.
Dico anche – lasciatemi passare il termine – che questa è un'abitudine, a mio avviso, un po’ staliniana: in passato, per paura di turbare l'opinione pubblica e per trovare maggiore sostegno da parte del Parlamento, si era creata questa tradizione, per cui venivano affrontate le spese della Difesa come nella Russia staliniana o nell'attuale Cina e attribuite a varie fonti, che non sono quelle della Difesa. Forse correttezza vorrebbe che le spese per gli acquisti di prodotti della Difesa fossero imputate al suo bilancio, al quale andrebbero trasferiti i relativi fondi.
Altro discorso è invece il sostegno alla ricerca tecnologica, che è necessariamente a monte, quindi è civile, militare, duale e giustamente è gestita dal Ministero dello sviluppo economico. Per capirci, la legge n. 808 del 1985 ha un senso; la legge n. 421 del 1996 a mio avviso no, per come è realizzata. Dobbiamo arrivare a questo assetto e insisto che dobbiamo trovare gli strumenti, dal punto di vista politico e sociale, accettabili. Non ci siamo sforzati per niente. Non facciamo abbastanza per ricollocare il personale in esubero all'interno del mondo della Difesa in modo adeguato, senza creare traumi, e non lo facciamo nemmeno come sforzo di fantasia.
Citerò un esempio. Da tempo vado sostenendo, senza essere ascoltato, che si potrebbe offrire al personale in esubero la possibilità di uscire dal mondo della Difesa garantendo, molto semplicemente, che possano impegnarsi in ulteriori attività – non di lavoro dipendente, ma di lavoro indipendente – con ampie esenzioni fiscali sul reddito aggiuntivo.
In questo modo, si favorirebbe l'esodo e non si costringerebbe a subirlo. Bisognerebbe creare dei meccanismi incentivanti per cui il personale possa scegliere se accedere a una pensione limitata o avviare una determinata attività senza perdere su quest'ultima la pensione, come avverrebbe nel quadro attuale, e beneficiando di un'esenzione fiscale.
Per lo Stato, comunque, significherebbe reddito d'imposta ulteriore, eviteremmo il lavoro nero, che rappresenta un grosso problema. Non possiamo, infatti, spingere la gente a cercare lavoro nero. È eticamente scorretto e, dal punto di vista sociale, inaccettabile. La mia è un'idea, ma possono essercene altre, però bisogna che ci si misuri.
Quanto al discorso dei velivoli, in generale, se vogliamo partecipare – come io ritengo che dobbiamo – alle missioni internazionali, dovremmo farlo avendo la possibilità di svolgere anche missioni di carattere militare. Siamo intervenuti in Iraq con i velivoli d'attacco, i Tornado; sapete che nel caso dell'Afghanistan che c’è stata un'intera fase in cui i nostri velivoli non sono stati utilizzati per i compiti per i quali erano previsti. A mio avviso, è stato sbagliato perché il problema è vedere quali siano le regole di ingaggio fissate.
Per difendere le nostre forze da un attacco degli insorgenti, ritengo che a un certo punto debba essere utilizzato anche lo strumento aereo, di cui dobbiamo disporre. Dover dipendere da qualche Paese alleato significa una forte lesione della nostra autonomia e, soprattutto, significa che rischiamo di essere coinvolti in scelte tattiche o di utilizzo di questi strumenti che possono non corrispondere alle nostre regole.
Per essere concreti, se si deve difendere un reparto italiano in Afghanistan, preferisco che a difenderlo sia un velivolo italiano, non americano, inglese o altro. Quello italiano è guidato da un pilota italiano, che risponde al comando italiano ed è stato formato in un certo modo. Pag. 11Benché io non voglia discuterne, lasciatemi dire che quello americano sicuramente è formato in modo diverso.
Per essere ancora più chiari, per quanto riguarda quelli che, purtroppo, sono considerati i cosiddetti danni collaterali, uno degli aspetti più pesanti e negativi delle missioni internazionali, posso dire con certezza che il personale italiano impegnato – salvo rarissime eccezioni, un paio di casi in questi vent'anni – si è comportato nel modo più prudente possibile.
DOMENICO ROSSI. Parto subito con le domande, poi cercherò di spiegarle brevemente perché serve una premessa.
Innanzitutto, è valida la legge di revisione dello strumento militare ? Seconda domanda: quanto ci costerà in più il bilancio della Difesa se vogliamo una Difesa europea comune ? Infine, i sistemi d'arma, come sembrerebbero essere acquisiti o in via di acquisizione da parte della Difesa, ammettendo che rispondano a un'esigenza di minaccia, rispondono anche a quello che deriva dalle lesson learned degli ultimi quindici anni ?
Nell'ambito della prima slide, lei ha parlato, ovviamente, dello squilibrio tra dimensioni. Non entro nel merito dei motivi, ma quelli attuali sono ben chiari. Anzitutto, nel momento del passaggio tra un esercito di leva e un esercito di professionisti – che tra le altre cose lei ricorderà benissimo ha coinciso con l'inizio dell'operatività reale delle Forze armate fuori dai confini nazionali – si è dovuto scegliere tra l'avere o no le Forze armate.
Per avere le Forze armate è stato deciso di adottare un modello che prevedeva non solo una parte volontaria in ferma, ma una consistente struttura in servizio permanente, specie per la truppa, in quanto il Paese non ha dato nessuna mano alle Forze armate in merito al ricollocamento del personale in uscita dopo tre anni. Nel momento in cui è stata approvata la legge sul passaggio dalla leva alle Forze armate professionali, il bilancio è stato a mano a mano eroso in termini reali e sostanziali. Il risultato è stato che l'erosione del bilancio e la struttura in servizio permanente rendono oggi difficile sia avere un equilibrio nella spesa, sia portare fuori dalla struttura militare il personale in servizio permanente.
Perché la domanda sulla legge n. 244 del 2012 ? Non le sembra che, alla luce della sua esperienza e anche di quanto evidenziato, per continuare ad avere lo stesso modello strutturale, avremmo bisogno di due aspetti che non riusciamo, a mio avviso, a stabilire oggi ? Parlo della continuità nel bilancio – altrimenti, per forza di cose andremo sempre a ridurre l'esercizio come parte flessibile – e di un modello strutturale di personale, come quello francese o inglese, basato su ferme prolungate e immissioni nel mondo del lavoro mirate, comprensive di formazione e di aspetti previdenziali legati a pensioni acquisite dopo un certo numero di anni di riferimento. È la direzione esattamente contraria a quella in cui si stava andando o siamo andati con la riforma pensionistica.
Quanto al costo per entrare in Europa, la questione è molto semplice. Mi ricollego alla slide sul crescente divario tra Europa e Stati Uniti. Mi ha colpito molto quanto ha parlato del gap tecnologico in incremento e di questo squilibrio che influenza i rapporti di forza, cioè influenza chi decide e chi invece obbedisce: le chiedo, allora, di quanto dovrebbe incrementare le spese militari l'Europa e di quanto l'Italia per essere, a sua volta, soggetto attivo e leader in Europa ?
MICHELE NONES, Direttore dell'area sicurezza e difesa dell'Istituto Affari Internazionali (IAI). Molte sono le domande e le riflessioni. Penso che mi concentrerò solo su alcune.
Innanzitutto, sostengo che l'Europa rappresenti un'occasione per costruire uno strumento di difesa e sicurezza più efficace, vorrei quasi dire forse risparmiando del denaro più che spendendone di più. Personalmente, quindi, non credo che l'Europa debba aumentare le sue spese per la difesa, ma solo utilizzarle meglio.Pag. 12
Questo significa che, se si realizzano dei risparmi, questi devono essere utilizzati per rendere il sistema più efficiente e non per coprire i debiti pubblici eccetera. I risparmi dovrebbero essere utilizzati all'interno del sistema della difesa.
Per quanto riguarda la continuità del bilancio, è evidente che, senza mantenere gli impegni presi, è impossibile qualsiasi tipo di programmazione. Su questo siamo più che d'accordo. L'unico punto sul quale forse non sono sicuro di avere una posizione simile e che comunque vorrei ribadire è il seguente: per troppi anni siamo andati avanti all'interno di quello che ho definito un patto scellerato tra il mondo politico italiano e il mondo delle Forze armate.
Tutti i Governi – di qualsiasi colore, fino a tre anni fa – hanno promesso o sostenuto la necessità di aumentare le spese per la Difesa. Il risultato è stato che le Forze armate, fidandosi, a mio avviso ingenuamente, di questa promessa, per anni hanno costruito il modello di difesa sulla base di impegni che non sono mai stati rispettati.
È chiaro, quindi, che a un certo punto – nella convinzione che prima o poi sarebbero arrivati più soldi in modo da ripianare gli impegni presi – il modello di difesa non può più restare in piedi perché l'Italia ha continuato a essere uno dei Paesi europei con il più basso livello di spese per la difesa. È un dato di fatto, non un elemento polemico. Prendiamo atto che l'Italia ha deciso di destinare alla difesa una quota minore rispetto agli altri Paesi ed è su questa base che dobbiamo costruire lo strumento militare.
MICHELE PIRAS. Non vorrei necessariamente polemizzare con l'amico Cicu, con cui ho un ottimo rapporto, ma ogni tanto bisognerà pur farlo, altrimenti rischiamo che gli amici del Movimento 5 Stelle ci dicano che facciamo tutti parte di una larga coalizione. Vorrei semplicemente dire che esiste anche un'ideologia della fine delle ideologie e in alcune situazioni è fin troppo semplice soffermarsi sul fatto che, quando si hanno posizioni diverse, si scada sul terreno ideologico. Magari, a volte, semplicemente si tratta di domande, osservazioni o anche posizioni che, più che ideologiche, sono logiche.
Io, per esempio, sono tra quelli che non pensano che dobbiamo rinunciare a perdere il treno dell'innovazione tecnologica internazionale. Dovremmo, al contrario, implementare il treno della ricerca scientifica e tecnologica, dell'innovazione e anche offrire il nostro contributo in questa Nazione più di quanto non siamo riusciti a fare negli ultimi anni in cui abbiamo abbondantemente perso il treno perché non solo abbiamo investito meno del necessario, ma addirittura abbiamo consentito che le nostre migliori menti emigrassero altrove a implementare altri binari e a costruire altri treni non nostri.
Penso anche che l'implementazione dell'innovazione tecnologica non sia l'acquisto di un F-35, oltretutto una tecnologia americana e non europea. Siamo usciti dal programma Eurofighter e credo che il nodo sia un altro. Su questo vorrei porle una domanda.
Vorrei capire – secondo me questo Parlamento ne ha il diritto, al di là di quanto sceglierà o di quanto ha già scelto sugli F-35 – se e dove, eventualmente, se è stato deciso, risiede il mutamento della strategia della difesa di questo Paese. Se pensiamo a un modello di difesa più offensivo è bene che ce lo diciamo. Poi ci sarà chi si riferirà in maniera più ortodossa all'articolo 11 della Costituzione o chi ne darà un'altra interpretazione, ma è bene che ce lo diciamo.
È del tutto chiaro che, laddove è prevista la difesa aerea dei nostri militari di stanza all'estero, va operata una difesa aerea. Ciò che è meno chiaro è perché la difesa aerea debba avvenire attraverso tecnologie che possono imbarcare bombe nucleari. Su questo aspetto il collegamento logico è meno chiaro.
Si tratta di un tema più discusso e più dibattuto, nonostante il Ministro Mauro mi abbia risposto che è un tema più di competenza della Commissione esteri, ma io ho l'impressione che i temi si incrocino. Del resto, non in tutti i Paesi esiste una Pag. 13separazione netta tra Ministero degli esteri e Ministero della difesa e non è un caso.
Il tema dibattuto è, ovviamente, la missione all'estero o, missione per missione, se siamo d'accordo sulle missioni estere, ne discuteremo a breve in questo Parlamento. Vengo allora alla domanda, che vuole essere provocatoria, posto che non inseguirei gli Stati Uniti d'America sul terreno del gap dei sistemi di armamenti, un po’ perché non li raggiungeremmo, un po’ perché rischieremmo un’escalation: secondo lei, c’è stata una scelta di maggiore aggressività della nostra politica estera e di difesa oppure si considerano realmente queste nuove tecnologie a servizio di una linea di continuità rispetto al passato ?
MICHELE NONES, Direttore dell'area sicurezza e difesa dell'Istituto Affari Internazionali (IAI). Onorevole Piras, non mi risulta che siamo usciti dal programma Eurofighter. Continuiamo a parteciparvi. Siamo partner importanti di quel programma, abbiamo la partecipazione del 21 per cento per quanto riguarda le spese. Se guardiamo dal punto di vista industriale, in realtà, la partecipazione italiana – se consideriamo i ritorni su Finmeccanica – è superiore perché avendo acquistato Finmeccanica l'attività avionica inglese, sull’Eurofighter ha un peso superiore.
Spero e credo che abbiamo tutte le intenzioni di portare avanti l'acquisto del velivolo Eurofighter come per gli altri Paesi fino alla cosiddetta prima parte della terza tranche, come stabilito quattro anni fa e confermato da tutti i Paesi partner, cioè Inghilterra, Germania, Italia e Spagna. Credo anche che sia intenzione della nostra Aeronautica militare e della Difesa portare avanti l'ammodernamento dell’Eurofighter, attualmente un po’ carente dal punto vista tecnologico sul cosiddetto radar di bordo, per cui è previsto il finanziamento di un aggiornamento con un radar più capace.
Questo velivolo è destinato a rimanere in servizio fino alla fine degli anni Venti, probabilmente fino al 2035, e non mi risulta, come continuo a ripetere di sperare, ma non sono io a decidere, che l'Aeronautica abbia deciso di mettere a terra l’Eurofighter. Oltretutto, non vedo, in questo caso, come potrebbe svolgere i compiti di difesa aerea necessari.
L’F-35 svolge il lavoro degli AMX, dei Tornado e degli AV8-B. Non vedo perché, sostituendo un velivolo più moderno a dei velivoli vecchi, abbiamo una politica più aggressiva. Abbiamo semplicemente un velivolo che svolge gli stessi compiti meglio e più efficacemente.
Vi ricordo che il Tornado è nato per portare le bombe nucleari, quindi non stiamo parlando di un piccolo velivolo al quale oggi sostituiamo il caccia aggressivo, ma di un velivolo pesante, che era destinato, nell'ottica dell'epoca, a trasportare le bombe nucleari su quello che identificavamo come il potenziale nemico, ossia l'URSS. Sono fatti storici. Non mi sembra che l’F-35 sia più aggressivo rispetto al velivolo che va a sostituire.
Quanto al problema della tecnologia, ho sostenuto vent'anni fa che l'Europa doveva avere il coraggio di lanciare un programma europeo destinato a costruire un velivolo in sostituzione del Tornado. Credo, dunque, di essere titolato a dirvi oggi che non l'ha scelto – colpa di tutti, colpa di nessuno – ma il risultato è che oggi abbiamo un velivolo vecchio che non può che essere sostituito da un velivolo più moderno.
Abbiamo scelto di partecipare al programma F-35. Ho sostenuto, come qualcuno di voi sa, la nostra partecipazione al programma anziché l'acquisto proprio per evitare che ci limitassimo a finanziare la crescita tecnologica e industriale americana senza ricavare alcun tipo di beneficio.
Possiamo discutere se i benefici che pensiamo tornino in Italia possano essere aumentati. Credo che possano esserlo e che il nostro Governo già in passato avrebbe dovuto essere un po’ più deciso nel pretendere dagli americani una disponibilità che non sempre c’è stata, per essere chiari. Fatta, però, questa precisazione, abbiamo cercato di portare a casa tutto quanto era possibile. Non penso che sia nulla, ma sicuramente, come italiano, Pag. 14penso che mi sarebbe piaciuto che la nostra industria fosse stata più coinvolta.
Come dico agli amici industriali, non è però solo colpa sempre del nemico americano. Per portare a casa più trasferimenti, infatti, bisogna anche cambiare determinate abitudini: l'industria europea e italiana, secondo me, invece, si sono abituate per troppo tempo a una logica assistenziale. I cosiddetti programmi europei – non è una critica, era necessario – si sono basati sul principio per cui si porta a casa per quanto si paga. Questo ha creato, però, una psicosi o, se volete, un atteggiamento psicologico per cui i ritorni sono garantiti. Non devo essere efficiente, ma semplicemente garantito.
A parte le storture cui ha dato luogo, posso assicurarvi che in molti casi questo sistema ha fatto sì che ci fossero semplicemente delle partite di giro. Siccome non si è capaci di prendere tutto il lavoro che spetterebbe in base alla sua suddivisione, si prende formalmente, poi lo si fa fare a un altro, all'estero, e si applica semplicemente il 5-10 dieci per cento di incremento per la gestione, ma sulla carta era svolto in Italia. Eppure, non tutto quello che sulla carta doveva essere fatto in Italia lo è stato.
È un sistema assolutamente da abbandonare. L'Europa non può più permetterselo. Costa l'ira di Dio. Non è sostenibile e, quindi, bisogna passare a sistemi nuovi. Anche l'industria deve adeguarsi.
LUCA FRUSONE. Presidente, dato l'orario, cercherò di essere breve. Vorrei chiedere come si collochi il sistema d'arma F-35 negli scenari elaborati dal Pentagono e, in particolar modo, negli scenari elaborati dal Defense science board, nel suo Resilient military system and advanced cyber threat.
Secondo questi scenari, la maggiore minaccia per gli Stati Uniti è la cyber war, una minaccia effettivamente reale dato che è una guerra molto meno costosa di altri tipi, e quindi alla portata di Paesi con limitate risorse economiche e anche di eventuali movimenti terroristici.
Tenendo conto che l’F-35 è un aereo la cui tecnologia informatica gestisce ogni singolo minuto di volo, come si valuta questo aspetto e, soprattutto, come si tiene in considerazione il fatto che, oltre a essere sempre collegato con le sale C4 dei Paesi proprietari del velivolo, è anche collegato, attraverso il sistema Alis, con la Lockeed-Martin, non dimenticando l'attacco subìto da questo sistema da parte di hacker della Repubblica popolare cinese. La fragilità di questo sistema, oltretutto, è stata sottolineata anche dagli attacchi preventivi, della U.S. Navy fatti proprio allo scopo di valutarne l'affidabilità.
Rimanendo sempre su tale sistema – naturalmente, queste sono voci non confermate, ma bisogna tener conto di tutte le voci, visto che stiamo parlando di un argomento importantissimo – è stato detto, in tempi ormai lontani, che grazie a un sistema simile all'Alis, c’è stata in un certo senso l'impossibilità di decollo degli F-16 della difesa pachistana, dati dagli Stati Uniti, nell'evento della cattura e dell'uccisione di Osama Bin Laden.
Attraverso queste informazioni – che ribadisco non sono confermate – tenendo conto di questo sistema che effettivamente può permettere l'accensione o meno di un velivolo, ritengo che si andrebbe incontro anche a un problema reale di sovranità nazionale.
Inoltre, sempre in relazione agli F-35, è stata evidenziata la scarsa resistenza all’electronic warfare di questo apparecchio. Stiamo parlando, infatti, di un velivolo che, grazie alle sue capacità, soprattutto quella stealth, è in grado di penetrare all'interno delle linee del nemico e avvicinarsi molto agli obiettivi, quindi è soggetto a questo tipo di attacchi. Tenendo conto della scarsa protezione agli impulsi MP, ridotta appunto per il problema di peso totale del velivolo, ciò come va a incidere sull'operatività del velivolo ?
Vorrei anche continuare il discorso su altri aspetti più tecnici, magari sui problemi dell'armamento anti nave, per esempio il missile harpoon, che, sempre per motivi di spazio e di peso, hanno manifestato problemi. Purtroppo, però, non Pag. 15abbiamo tempo. Mi piacerebbe, tuttavia, anche intavolare un discorso sulla categorizzazione di questo velivolo come quinta generazione, tenendo conto che ha meno caratteristiche rispetto ad aerei già naturalmente sviluppati.
Questo è un aereo in sviluppo e, probabilmente, molti problemi saranno risolti, tuttavia vorrei sapere come giudica il suo inserimento nella quinta generazione e se è vero, secondo quanto asseriscono alcuni esperti, che sarebbe una quarta generazione finale come l’Eurofighter.
CARLO GALLI. Professore, lei ha enfatizzato il dislivello che esiste tra la capacità militare e la capacità di ricerca dell'Europa, da una parte, e degli Stati Uniti, dall'altra: alla luce di quest'enfatizzazione, reputa che sia stata una saggia decisione quella di non sviluppare l’Eurofighter portandolo a essere un aereo di quinta generazione e trasformandone le caratteristiche da intercettore ad aereo di attacco al suolo ?
Se è stato un errore, questo è figlio o è padre della scelta italiana di collaborare al progetto dell’F-35 ? È stata, cioè, presa prima la decisione di passare all’F-35, e quindi di abbandonare quell'eventuale progetto Eurofighter, o il contrario ?
Lei ha poi detto e scritto che la partecipazione italiana al progetto dell’F-35 ha caratteristiche diverse da quelle consuete: non si fonda su ritorni garantiti, ma sulla competizione, sul fatto che pezzi dell'industria italiana riescono a entrare in questo programma sostanzialmente statunitense grazie alla loro capacità di stare nel mercato.
A questo riguardo, ritiene che l'investimento italiano, consistente nella produzione di ali dell’F-35, abbia in sé una capacità di autosostenersi sotto il profilo economico, dato che al momento sappiamo che avremo da costruire un centinaio di ali, mentre la capacità di raggiungere il punto di equilibrio nella nostra partecipazione al progetto scatta verso le 800 unità ?
MASSIMO ARTINI. Presidente, poiché ho rilevato anche da parte di tutti i colleghi la stessa volontà, se il professor Nones ci offre la sua disponibilità, vorremmo poterlo risentire con più tempo a disposizione. Avrei, infatti, da porre altre domande.
Siamo arrivati forse alla seconda pagina delle slide e sarebbe importante trovare il tempo per andare ancora più avanti.
ROSA MARIA VILLECCO CALIPARI. Mi sono resa conto che stiamo facendo una terribile gaffe con chi sta aspettando fuori da 20 minuti. Poiché questa Commissione ha fortemente voluto l'indagine conoscitiva per svolgerla approfonditamente e seriamente, chiedo al presidente, d'ora in poi, di tener conto del fatto che i componenti della Commissione vogliono intervenire, e che pertanto i tempi dell'audizione non possono essere limitati a un'ora. Con tale tempo a disposizione, terminato l'intervento dell'audito, resta uno spazio talmente limitato che non è possibile rivolgere domande e dare la possibilità all'ospite di rispondere.
O si forniscono prima le domande o chiediamo agli auditi di tornare o ampliamo il tempo dedicato all'audizione. Queste sono le opzioni. Ritengo che non sia possibile concludere qui perché molti di noi non interverranno comunque, mentre erano del tutto interessati a scambiare opinioni col professor Nones.
PRESIDENTE. Onorevole Villecco Calipari, lei ha perfettamente ragione. Evidentemente, l'Ufficio di presidenza aveva sottovalutato l'interesse della relazione del professor Nones, ma la nostra indagine conoscitiva è solo all'avvio e avremo sicuramente modo di proseguirla. Se ce ne sarà richiesta, naturalmente, chiederemo anche al professor Nones di tornare.
Nel frattempo, gli do volentieri la parola affinché possa concludere quest'audizione rispondendo anche alle ulteriori domande dei colleghi.
MICHELE NONES, Direttore dell'area sicurezza e difesa dell'Istituto Affari Internazionali (IAI). Innanzitutto, mi scuso con Pag. 16voi perché, probabilmente, sono andato un po’ più lungo sulla presentazione di quanto non avrei voluto. Mi dispiace molto anche per, chi è fuori ad aspettare.
Premesso questo e che, come istituto, siamo sempre disponibili, personalmente lo sarò sempre in qualsiasi forma e con qualsiasi modalità. Facciamo normalmente incontri con forze politiche, sociali, con organizzazioni non governative. Credo che sia compito di un istituto come il nostro cercare di offrire, nel limite delle sue capacità, il suo parere sulle questioni su cui si richiede e che stiamo cercando di studiare.
Nel merito, l'intervento dell'onorevole Frusone è molto interessante. Non credo di essere, però, la persona giusta a cui porre tutte quelle domande. Forse su certi argomenti l'onorevole è più esperto di me. Mi limito a farle osservare, da economista industriale, che quella che definisco la progressiva diffusione dell'elettronificazione – scusate il bruttissimo termine – di tutti i sistemi fa sì che la minaccia informatica diventi prevalente, ma vale per tutto, per i nostri cellulari, per le infrastrutture critiche, per i sistemi d'arma.
Da questo punto di vista, è un processo inevitabile. Non possiamo impedire che i nuovi sistemi di sicurezza e difesa abbiano una parte elettronica sempre più rilevante, per cui siamo soggetti sempre di più alla minaccia della cyber war. La minaccia cibernetica, infatti, è legata, evidentemente, alla natura di questi sistemi. Vale per i satelliti, per i velivoli, ormai anche per i mezzi terrestri.
Vorrei, però, farle presente che, a mio giudizio, di fronte al discorso della minaccia asimmetrica, dobbiamo avere un ventaglio di strumenti molto più ampio che nel passato. Non possiamo rispondere a un attacco cibernetico scaricando una bomba atomica o effettuando un bombardamento e neanche lanciando un missile. Veramente, penso che non dobbiamo farlo in nessun caso, ma tanto meno se la minaccia è di quel tipo. Credo che dobbiamo, però, nello stesso tempo, tener conto del fatto che, se ci sparano addosso, in qualche modo dobbiamo difenderci.
A questo proposto, tuttavia, l'esempio mi servirebbe solo per ricordarvi come proprio lo sviluppo tecnologico dimostri l'indispensabilità di una soluzione europea. Mi riferisco ai sistemi satellitari. Nessun Paese europeo può permettersi un sistema satellitare proprietario a livello globale. Possiamo avere un satellite di comunicazione, di osservazione, ma non siamo in grado, evidentemente, di coprire l'intero spazio internazionale. Può farlo solo l'Europa. È uno dei casi che dimostrano che, senza una soluzione europea, i Paesi europei da soli non vanno da nessuna parte.
Quanto al problema economico industriale sul discorso dell’EFA, non sono un ingegnere, ma vi ricordo che, quando il Tornado è stato costruito, è stato presentato come MRCA Tornando, acronimo per multi-role combat aircraft. L'idea era di un velivolo che facesse tutto, intercettore e difesa aerea.
Ne furono sviluppate due versioni, una pagata dai contribuenti inglesi e adottata dalla RAF, e una versione d'attacco adottata da Germania e Italia. La doppia versione si è dimostrata un fallimento totale. Gli inglesi, a un certo punto, hanno rinunciato a usare questo velivolo, l'Aeronautica italiana l'ha preso in leasing per due anni. Molti, infatti, all'epoca sostenevano che l’EFA fosse ancora in una fase assai arretrata e che stavamo viaggiando con l’F-104, chiamato bara volante, per cui bisognava rinunciare e comperare gli F-16.
L'Aeronautica, la Difesa, il Governo e il Parlamento decisero che bisognava, invece, aspettare l’EFA e, nel frattempo, abbiamo preso in leasing pagando gli inglesi questo Tornado in versione air defence variant (ADV) che, secondo l'Aeronautica militare italiana, si è dimostrato un completo disastro. L'abbiamo, infatti, restituito agli inglesi e abbiamo preso in leasing l’F-16, sempre aspettando il famoso EFA, che finalmente a un certo punto è arrivato. A me sembra che la storia non dimostri assolutamente che l'Italia abbia avuto un atteggiamento ostile nei confronti dell’EFA.
Quanto all’F-35, l'Italia ha deciso di partecipare al programma quando è stato Pag. 17chiaro a tutti – vi parlo degli anni 1999-2000 – che l'Europa non voleva, non poteva, non sapeva mettersi d'accordo nello sviluppare un velivolo analogo.
Possiamo discutere volentieri sulle ragioni per cui l'Europa ha mancato in questa capacità, sull'errore commesso da tutti i Paesi europei; dopodiché, in ordine sparso, ognuno è andato avanti per la sua strada. A mio avviso, l'inizio – se cerca l'inizio della storia – sta nella scelta inglese: quando gli inglesi decidono di partecipare al programma F-35, condannano qualsiasi progetto europeo perché solo l'industria inglese avrebbe avuto le capacità, come le ha avute sul Tornado e poi sull’EFA, di guidare le altre imprese europee nello sviluppo di un velivolo europeo. Una volta che gli inglesi, se vogliamo cercare il responsabile, hanno scelto di partecipare all’F-35, gli altri sono stati condannati.
Il tema del ritorno industriale è quello di una grande scommessa. Non è, infatti, sulla produzione dell’F-35 che misureremo i ritorni industriali, ovvero i vantaggi tecnologici industriali per l'Italia, ma sulla fase di manutenzione e supporto logistico. Ho 63 anni e i capelli bianchi, e stiamo parlando di qualcosa che penso forse vedremo tra 10, 12, addirittura 15 anni. Molti di voi sono più giovani, quindi potranno verificare.
È stata una scommessa vinta o persa ? Non lo so. Potranno verificarlo loro. Se, però, sarà vinta, lo sarà perché avremo la possibilità di lavorare sul supporto logistico del velivolo non solo italiano, quindi non dei novanta velivoli italiani, ma delle centinaia di velivoli che saranno in circolazione in Europa.
PRESIDENTE. Ringrazio il professore Nones. Sicuramente avremo altre occasioni per approfondire le sue opinioni e per sviluppare la collaborazione con la Commissione.
Audizione del dottor Gianandrea Gaiani, direttore della rivista Analisi Difesa.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui sistemi d'arma destinati alla difesa in vista del Consiglio europeo 2013, l'audizione del dottor Gianandrea Gaiani, direttore della rivista Analisi Difesa.
Saluto il direttore e mi scuso per il ritardo con il quale iniziamo la sua audizione. Il direttore Gaiani già conosce il programma della nostra indagine conoscitiva. Abbiamo deciso di procedere, se lei ritiene necessario, a una breve illustrazione iniziale. Successivamente, potrà rispondere direttamente alle singole domande che i componenti della Commissione avranno sicuramente l'interesse e il piacere di rivolgerle.
Le do senz'altro la parola, ringraziandola ancora per la disponibilità e anche la cortesia che ci ha mostrato questa mattina.
GIANANDREA GAIANI, Direttore della rivista Analisi Difesa. Ringrazio il presidente e gli onorevoli per quest'invito, che mi consente di portare alla vostra attenzione temi sui quali ho lavorato molto negli ultimi anni su Analisi Difesa, ma anche per Il Sole 24 Ore e altre testate.
Vorrei rubarvi solo pochi minuti introducendo il tema ampio del quale vi state occupando per contestualizzarlo. Credo che i dati per le spese della difesa dei prossimi anni forniti dal Governo e, anche recentemente, enfatizzati dal Ministro della difesa Mauro evidenzino un aspetto critico evidente. Il Ministro ha infatti parlato di rischio default per la nostra difesa.
Direi che, nella gran massa di dati, numeri e cifre, il rischio default può essere individuato, in particolare, nella voce dell'esercizio, che continua e continuerà a decrescere nei prossimi anni. Le tabelle rese note si fermano al 2015, ma – valutando per stime – questa cifra continuerà a decrescere anche dopo. Allo stesso modo, nonostante i primi effetti dei tagli al personale dovuti alla riforma del Ministro Di Paola, le spese per il personale continueranno lievemente a salire ancora per qualche anno.
Questa situazione testimonia che non avremo e già non abbiamo i soldi, in molti casi, per gestire il minuto mantenimento Pag. 18di caserme. Esistono caserme in cui non ci sono fondi per riparare i servizi igienici. Parlo di fatti che immagino conosciate. Non abbiamo i soldi per l'addestramento e, anzi, i reparti che devono addestrarsi, in particolare al combattimento per andare in Afghanistan, teatro ad alto rischio, utilizzano i fondi delle missioni oltremare perché i fondi del bilancio non lo consentirebbero.
È il quadro fosco già dipinto dal Ministro, all'interno del quale però credo che si debbano evidenziare anche le contraddizioni. Se questa è la situazione, perché dobbiamo acquistare gli F-35 ? Non è una posizione ideologica la mia, non lo è mai stata e mai lo sarà su questi temi, convinto, come sono, che uno Stato abbia tante funzioni, inclusa la sanità e la scuola, ma anche quella della difesa. Oggi, il mondo intorno a noi, anche il micromondo – parliamo solo del Mediterraneo – non credo ci offra buone ragioni per un disarmo unilaterale o quasi.
Perché, tuttavia, l’F-35 ? Facciamo un po’ di chiarezza. Negli ultimi tempi, sono circolati tantissimi numeri sull’F-35, dalle cifre del loro costo a quelle delle maestranze che saranno impiegate. Ci sono state polemiche. Va, però, precisato un punto: gli aerei che saranno rimpiazzati dai novanta F-35 sono 130, ossia quelli attualmente in servizio da sostituire, non 256. Quest'ultimo è il numero di aerei di vecchio modello che furono prodotti, ma oggi in servizio abbiamo una sessantina di Tornado. Completando l'aggiornamento, ci sono 52 AMX già aggiornati, alcuni in Afghanistan, e la Marina ha ancora 16 Ariel dei 18 che ha ricevuto.
Procediamo a un confronto con altri Paesi europei. Visto che si parla, infatti, dell'ormai imminente, tra pochi mesi, Consiglio europeo dedicato alla Difesa, scegliamo due Paesi che spendono esattamente il doppio di noi per la Difesa: la Francia e la Germania. Tra qualche anno, le loro forze aeree saranno standardizzate su un solo aereo da combattimento: i francesi avranno il Rafal, 200 esemplari circa, prodotto in Francia, che fa lavorare le industrie e i progettisti francesi e che i francesi esportano o cercano di esportare in tutto il mondo; la Germania avrà 160 Eurofighter, che produce come noi perché nel consorzio Eurofighter ci sono Germania, Gran Bretagna, Spagna e Italia, e utilizzerà questi aerei sia per l'attacco contro aerei nemici – semplifichiamo il concetto – ma anche per il bombardamento, l'attacco al suolo.
Se queste due Aeronautiche, che fanno parte di Paesi che spendono il doppio di noi per la Difesa, avranno delle linee da combattimento su un solo aeroplano, con quello che significa avere una semplificazione della logistica, dei costi di gestione, dell'addestramento per una sola macchina, può l'Italia permettersi di avere, tra dieci anni, un'Aeronautica basata su due macchine, un Eurofighter Typhoon da caccia e un F-35 per l'attacco al suolo ?
Al di là delle valutazioni dell'Aeronautica, ovviamente di competenza, e al di là del valore dell'aeroplano – attualmente l’F-35 presenta tantissimi problemi, ma le nuove tecnologie spesso ne hanno – ipotizziamo che, tra dieci anni, l’F-35 sia il miglior aereo da attacco mai concepito nella storia: ebbene, tra dieci anni non avremo i soldi per fare il pieno, per gestirne la manutenzione, che sarà centralizzata negli Stati Uniti o, comunque, nelle loro mani. È come se si comperasse una Ferrari, pagandola in quindici anni, senza avere il denaro per il bollo, l'assicurazione, il pieno di benzina. A mio parere, il rischio è questo.
Ci sono, però, degli F-35 indispensabili, perché non ci sono alternative, e questo è vero. Non sono quelli dell'Aeronautica, che, come vedremo, ha un'alternativa molto concreta, ma la Marina non può fare a meno degli F-35. Quando dovrà rimpiazzare i suoi Harrier, avrà bisogno di un aereo che potrà decollare da un ponte corto, come quello del Cavour, e atterrare verticalmente. C’è solo un aereo in preproduzione con tali caratteristiche: l’F-35B.
Non è detto che, per avere quest'aereo per la Marina in 15-20 esemplari, si debba per forza aderire al programma F-35. Magari tra dieci anni, quando questo aereo Pag. 19– che è quello, nelle tre versioni dell’F-35 che dà più problemi tecnici – sarà più maturo e avrà risolto i suoi problemi, potremo comprarlo dagli americani a un prezzo ragionevole. Nel dubbio, i Marines statunitensi hanno deciso di aggiornare i loro Harrier per renderli operativi fino al 2030, proprio per pararsi da eventuali prolungamenti dei problemi di questa versione dell’F-35. Potremmo pensare anche alla stessa soluzione, risparmiando un sacco di soldi. Il Cavour è costato 1,39 miliardi di euro: spenderemmo 74 milioni per attrezzare il ponte a ricevere gli F-35B.
L'Aeronautica, invece, ha delle alternative perché il programma Eurofighter Typhoon, nato per lo più come aereo da caccia, è già sviluppato come aereo con capacità multiruolo. Dovevamo comprarne 121, siamo scesi a 96, ma alla fine l'Aeronautica ne vuole tenere solo 72 e cerca già di piazzare sul mercato dell'usato, usato di qualità perché sono aerei che hanno pochissimi anni di vita, i primi 24 esemplari. Tuttavia, dell’Eurofighter Typhoon noi contribuenti abbiamo già pagato tutto: la ricerca e sviluppo, lo sviluppo del velivolo e adesso, invece di completare la commessa con un aereo ormai maturo, riduciamo il numero per poterci rivolgere a un altro tipo di aereo da affiancare al Typhoon, quindi, come dicevo prima, due linee di aerei da combattimento.
Che, però, il Typhoon sia anche un cacciabombardiere o possa svolgere questo ruolo, non solo lo dimostra il fatto che i britannici lo hanno anche già usato per questo compito e i tedeschi lo useranno. Anche l'Aeronautica italiana pensa di usarlo come cacciabombardiere. Abbiamo solo un'arma strategica – possiamo definirla tale – che è il missile da crociera Storm shadow, prodotto dalla società MBDA, di cui fa parte anche Finmeccanica, secondo produttore mondiale di missili da società europea.
Abbiamo impiegato questo missile in due dozzine di esemplari nelle operazioni in Libia con successo, una gittata di centinaia di chilometri. È un'arma strategica impiegata oggi dai Tornado: domani l'Aeronautica la sistemerà sugli Eurofighter Typhoon.
Perché non sull’F-35 ? Perché non entra nella sua stiva, che nasce per ospitare armi americane, mentre lo Strom shadow è troppo grande. Si può attaccarlo sotto un'ala, ma in questo caso le pretese di invisibilità dell’F-35 verrebbero meno in quanto il missile sotto l'ala aumenterebbe la traccia radar.
Se già pensiamo di impiegare gli Eurofighter Typhoon, pensiamo a un futuro in cui potremo avere 121 Typhoon: la Germania ne avrebbe 160. Fatte le debite proporzioni di potenza militare ed economica, penso che potremmo starci. Tra l'altro, una questione che non mi è molto chiara della programmazione futura della difesa, che forse mi è sfuggita, è contro chi ci prepariamo a combattere. I marziani, i cinesi ? Scusate se faccio un po’ di ironia. Oppure nemici con i quali ci siamo già confrontati in questi anni, eserciti raffazzonati, come quello di Gheddafi, le milizie talebane irregolari ?
Siamo certi che disporre di aerei che costano 100 milioni di euro, probabilmente di più – i primi F-35 li stiamo pagando 150 milioni di euro – sia l'arma migliore per colpire un avversario che dispone di armi che valgono forse 2.000 dollari ? Per distruggere un pick-up libico, vale la pena impiegare questo tipo di aerei ? Forse avremmo delle altre soluzioni.
Brevemente, cercherò di darvi un quadro della mia valutazione, ma il rischio con l’F-35 è che la nostra industria passi dal ruolo di progettista, produttore ed esportatore di aerei da guerra, da combattimento, a ruolo di subfornitore delle aziende americane come la Lockheed Martin. Non mi pare un grande passo avanti in nell'ottica, sulla quale mi pare tutti siamo d'accordo, di difficile ma necessaria integrazione della difesa europea.
È vero che non esiste nessuna penale se ci tiriamo indietro dal programma F-35, ma mi sembra altrettanto vero che non ci sia nessun impegno scritto da parte di Lockheed Martin a garantire del lavoro e Pag. 20di qualità alle nostre industrie. Tutto è in fase di contrattazione. Si sottoscrivono contratti, un altro se ne farà l'anno prossimo: da quel che sento, gli americani hanno già completato l'acquisizione dei prossimi due lotti di aeroplani all'interno dei quali ci sono la seconda tranche di tre aerei italiani. Quindi, i primi tre li abbiamo già acquisiti e questi sono i secondi tre. Se non esiste questo impegno, potremmo ridiscutere il tutto. Potremmo parlarne, valutare anche i costi eventuali e i benefici.
Quanto ai posti di lavoro, credo che dover elemosinare a contrattare da Lockheed Martin commesse da subfornitori ci offra meno garanzie di posti di lavoro che non sviluppare progetti e prodotti made in Italy. Peraltro, una buona parte delle maestranze che lavoreranno sull’F-35 sarà sottratta alle linee di montaggio dell’Eurofighter, per cui non si tratta di posti di lavoro nuovi, ma di impiegare quelli che già lavorano su un programma che però stiamo decurtando, da 121 a 96 velivoli.
Noi non possiamo permetterci gli F-35. Questa è la valutazione che mi sento di darvi con molta onestà. Il costo è incerto, non lo conoscono neppure gli americani perché si sta contrattando, lotto per lotto, e siamo ai lotti di preproduzione. Ogni problema dei tanti che l'aereo ha, per essere risolto, richiederà tempo e denaro, e più tempo sarà necessario più denaro occorrerà. Se gli americani non sanno quanto pagheranno in realtà l’F-35, non lo sappiamo certo noi, che contrattiamo il prezzo dell'aereo che comperiamo direttamente con il Governo statunitense.
Inoltre, non abbiamo nessuna sovranità sulla tecnologia impiegata, e quindi ci ritroviamo con aeroplani su cui, paradossalmente, non avremmo la sovranità totale. Probabilmente, qualora volessimo impiegarlo in operazioni non condivise con il principale nostro alleato, potremmo trovarci con un po’ di difficoltà di gestione.
Allora, perché non puntare sul made in Italy, soprattutto nei momenti di crisi finanziaria ? Facciamolo. Le qualità ci sono, siamo già integrati coi nostri partner europei, il programma Eurofighter c’è, ma abbiamo anche un altro aeroplano, l’M-346, il Master, considerato il più avanzato addestratore. Aveva anche una potenzialità di sviluppo come aereo leggero d'attacco.
Mi ricollego a quanto già dicevo: magari, è l'aereo giusto a costi contenuti da impiegare in un teatro bellico a bassa intensità. Per sorvegliare le montagne afgane e colpire gruppi di ribelli che piazzano ordigni, forse sarebbe meglio utilizzare un aeroplano italiano che già abbiamo. Non costerebbe poco, ma i soldi resterebbero in Italia, ricadrebbero sulla nostra tecnologia, sulla nostra industria, sui nostri posti di lavoro e non finirebbero negli Stati Uniti.
Potrebbe, inoltre, essere questo un aereo giusto anche da spingere per i mercati internazionali. Sempre di più ci si accorge che, per confrontarsi con un nemico asimmetrico, come dicono i militari – il miliziano, il terrorista – forse non è opportuno impiegare aerei da 100 milioni di euro che imbarcano armi costosissime. Adesso, addirittura, si sono costruite bombe sottopotenziate per colpire il terrorista sperando di non colpire la scuola vicina dal momento che il terrorista sempre si piazza vicino a una scuola o a un bersaglio sensibili. Per questo tipo di guerra, forse è meglio pensare a qualche aereo meno costoso, più leggero: noi lo produciamo ed è l’M-346.
Quello che mi preoccupa, da italiano, oltre che da persona che si occupa di difesa ormai da 25 anni, è che dopo il 2020, l'unico aereo da combattimento che sarà in produzione in Occidente sarà l’F-35. Infatti, i tre aerei europei – Eurofighter Typhoon, Gripen e Rafael – avranno esaurito le loro commesse, a meno di contratti di esportazione molto forti.
Negli Stati Uniti, anche l’F-18 della Boeing non sarà più in produzione. Chiunque voglia un aeroplano da guerra, dopo il 2020, dovrà rivolgersi a Lockheed Martin, agli Stati Uniti, o ai russi o ai cinesi. Questo mi preoccupa perché significherà che, probabilmente, buona parte dell'industria aeronautica – non solo italiana, Pag. 21ma anche quella europea forse – per sopravvivere dovrà agganciarsi alle aziende americane e sperare sulle loro commesse per subfornitura.
Molti sostengono la necessità di acquistare l’F-35 per il fatto di aver già speso 2,5 miliardi di euro per quest'aereo. Io faccio un altro discorso: quanto abbiamo speso dagli anni Settanta a oggi per dotarci, come italiani, come europei, della capacità di essere produttori, progettatori ed esportatori di aerei da combattimento in competizione con gli americani ? Abbiamo prima sviluppato un consorzio per i bombardieri Tornado, poi il consorzio Eurofighter per i cacciabombardieri Typhoon, siamo riusciti a non dipendere dagli F-104, che gli americani non volevano ma ci rifilavano e a diventare indipendenti.
Oggi, invece, siamo pronti a rinunciare a quest'indipendenza che abbiamo pagato di tasca nostra con un sacco di soldi. Il programma Eurofighter solo a noi italiani costerà alla fine 21 miliardi di euro, giustificati se ci danno l'autonomia tecnologica, industriale, che vuol dire anche autonomia politica, di potersi muovere in un piano strategico senza dover dipendere, magari da alleati ma non da vassalli. Se buttiamo via questi soldi, tornando sotto l'ombrello e a impiegare velivoli americani, questa spesa sarà stata assolutamente inutile.
Tra l'altro, gli americani non ci vengono molto incontro ultimamente. Non comperano un solo velivolo italiano, benché si fossero impegnati a farlo. L'Amministrazione Bush aveva acquisito, per il rinnovo della flotta di elicotteri presidenziali, il Marine One, un elicottero di AgustaWestland, l’AW-101, che avrebbero prodotto negli Stati Uniti, certo, ma con tecnologia nostra, britannica ed europea.
Obama l'ha cancellato e non solo. Alcuni giorni fa, su Il Sole 24 Ore, si riferiva che è stata riaperta la gara, ma con specifiche tali che vanno bene solo per un elicottero che – accidenti – produce la Sikorsky americana. Gli altri si stanno ritirando dalla gara, inclusa AgustaWestland, perché nel 2009, in piena crisi finanziaria, il Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ricorse allo slogan secondo il quale una risposta alla crisi era buy american, comprare americano. Da allora, nessuna commessa militare, forse anche di altri settori, che non seguo, è stata affidata a fornitori esterni agli Stati Uniti.
Ce n'erano già in corso per forniture italiane, il cargo tattico C-27J, un aereo che stiamo esportando in diversi Paesi. Gli americani dovevano comperarne 78, poi hanno ridotto a 38, poi hanno cancellato il programma quando ne avevano acquisiti venti, addirittura sostenendo che avrebbero cercato di vendere questi venti sul mercato dell'usato, così sottraendo potenzialità di esportazione ad Alenia Aermacchi, che cerca di vendere questi aerei nuovi.
Addirittura, gli americani avevano piazzato all'aviazione afgana, sostenuta e costruita con i fondi statunitensi, i nostri vecchi G-222, i cargo che abbiamo rimpiazzato col C-27J, i quali, ricondizionati, potevano avere ancora una dignitosa vita utile in Afghanistan. Quando, su venti aerei, sedici erano già erano stati consegnati, gli americani decisero che non garantivano prestazioni adeguate, che non vi erano i pezzi di ricambio, che mancava una buona operatività e hanno cancellato l'ordine. In entrambi i casi, fornitura di cargo tattici per le forze americane e per le forze afgane, gli americani hanno optato per un altro aereo, il C-130J di Lockeed Martin. Nulla è più chiaro.
Cito un altro esempio. Dalle ultime indiscrezioni che si raccolgono anche sul programma per l'addestratore nuovo delle forze americane, l’M-346, il nostro aeroplano – scelto anche dagli israeliani, oltre a Singapore – sembra avere scarse possibilità, forse perché appunto non è americano. Recentemente, inoltre, un alto ufficiale dell'Aeronautica ha fatto presente che, se l'Italia uscisse dal programmata F-35, ne andrebbe della nostra credibilità.
Cosa dovremmo dire degli Stati Uniti che, dopo averci fatto spendere un miliardo di euro di ricerca sul programma Medium estende air defense system (MEADS) per un sistema di difesa antimissile Pag. 22balistico, si sono fermati alla fase di sviluppo, lasciando noi e i tedeschi con qualche difficoltà ? O troviamo un altro partner che metta dei miliardi o altrimenti avremo sprecato tutto questo.
Come possiamo parlare di difesa europea, di investimenti congiunti da fare per la difesa europea, con tutti i limiti che essa presenta senza avere una direzione politica congiunta ? Difficilmente potremo avere forze armate congiunte. Parlare, però, di questo e poi buy american, comprare americano, mi sembra che sia quantomeno contraddittorio.
Oltretutto, credo anche che acquisire l’F-35 sarà un suicidio non solo industriale e politico, ma anche strategico. In questo momento più che mai, infatti, come mai in passato, gli interessi degli Stati Uniti e degli alleati europei stanno divergendo.
Quando nacque il programma F-35, alla fin dagli anni Novanta, non c'erano grosse divergenze, credo che gli Stati Uniti ancora avessero in comune con noi, caduto il muro di Berlino, finita la minaccia sovietica, fondamentalmente un punto: la tutela della stabilità delle aree energetiche, che erano di interesse comune, per loro come per noi.
Da quando gli americani hanno varato il programma shale gas e shale oil, saranno autosufficienti per l'energia entro pochi anni e dal 2020 saranno forti esportatore di gas e petrolio: questo vuol dire che forse avranno molto meno interesse a coinvolgersi in situazioni di difficoltà o nella stabilizzazione di un Medio Oriente che di stabilità oggi, invece, ha molto bisogno.
In questo momento, in cui i loro interessi e i nostri divergono come mai negli ultimi settant'anni era successo, forse non è il momento giusto per metterci per i prossimi cinquant'anni nelle mani degli Stati Uniti.
PRESIDENTE. Ringraziamo il dottor Gaiani per la sua interessante illustrazione.
Do ora la parola ai colleghi che intendano intervenire per formulare quesiti o porre osservazioni.
EMANUELA CORDA. Innanzitutto, ringrazio il dottor Gaiani perché è stato veramente molto incisivo nella sua relazione.
Quando ha parlato di manutenzione, nello specifico, ha detto, se non ho capito male, che questo riguarderà, in particolar modo, gli Stati Uniti. Quindi, la manutenzione resterà in capo a Lockheed Martin o, comunque, ad aziende statunitensi.
Noi abbiamo effettuato una visita allo stabilimento di Cameri, dove si sta realizzando il famoso Centro FACO: ci è stato anche riferito che l'obiettivo di questa struttura è concentrare proprio la manutenzione degli F-35 in Italia, quindi portare negli anni futuri un indotto nel nostro Paese. dovrebbero essere coinvolte molte aziende italiane o, almeno, questo è quello che ci è stato detto.
Ci è stato riferito, inoltre, che l'utilità di questo progetto risiede, più che altro, nel fatto che abbiamo una quota di partecipazione pari a circa il 4 per cento, se non erro, che ci consentirà di risparmiare negli anni successivi. Abbiamo, dunque, una quota di partecipazione piccola se guardiamo agli altri Paesi, ma alla fine avremo un vantaggio importante negli anni successivi rispetto a chi acquisterà gli F-35 in una fase successiva.
Ovviamente, la sua relazione ha un po’ smentito tutte queste notizie. Ha praticamente frantumato – mi consenta la terminologia – il progetto degli F-35, ci sta dicendo che l'Italia non avrà nessun vantaggio e che le aziende italiane praticamente non ricaveranno granché da questo programma.
Effettivamente, allora, questa quota di partecipazione non ha nessun valore ? Quello che ci è stato detto è una bufala ? Mi consenta il termine, abbia pazienza, ma ci dicono tutto e il contrario di tutto e, giustamente, cerchiamo di acquisire più informazioni possibile.
GIANANDREA GAIANI, Direttore della rivista Analisi Difesa. Abbiamo una quota di partecipazione, abbiamo messo un miliardo Pag. 23di dollari per partecipare come partner. Più di noi hanno messo solo i britannici.
Il problema è un altro. Non sostengo che non avremo un ritorno industriale, che avremo e, addirittura, adesso ci sono molte polemiche anche sulla sua entità. C’è chi parla del 70 per cento, il Ministro Mauro pochi giorni fa ha detto addirittura che sarà superiore alla quota che investiremo.
Voglio spiegarmi meglio. Non ho sostenuto che la manutenzione sarà realizzata negli Stati Uniti. La FACO dovrebbe anche assemblare gli aerei olandesi, ma non c’è nessun impegno dell'Olanda a farli assemblare in Italia. Oltretutto, pare che gli aerei assemblati a Cameri costeranno un po’ di più di quelli assemblati negli Stati Uniti perché occorre considerare il trasporto di pezzi e una linea abbastanza complessa.
Sostengo, invece, che non è nostro interesse diventare in questo programma assemblatori di aerei altrui, dei quali produciamo un po’ di ali. Potremmo produrne molte di più, ma i contratti saranno firmati in futuro, quindi non abbiamo certezze e, soprattutto, dentro la FACO, come vi avranno detto, ci sono alcune aree di manutenzione che riguardano i sistemi elettronici, quelli più sensibili, che sono solo statunitensi.
È una fabbrica gestita da Lockheed Martin, oltre che da Alenia Aermacchi, e ha delle aree in cui italiani non entrano perché gli americani, giustamente o meno, dal loro punto di vista ritengono che certi segreti non debbano essere divulgati neppure agli alleati.
È un problema che non riguarda solo noi, ma anche noi. Il generale Debertolis, che sta per lasciare il Segretariato generale della difesa, un mese fa circa lamentava che, sull'acquisizione degli armamenti per i nostri droni, i velivoli teleguidati Reaper e Predator, gli americani tentennavano e non ci fornivano tutti i dettagli perché si tratta di una tecnologia che vogliono tenere per loro.
Il dibattito al Congresso è stato molto forte, nel senso di non dare armi per i droni a nessuno. I tedeschi volevano acquistare degli Eurohawk, droni da ricognizione, e hanno dovuto rinunciare perché questi droni, per poter volare nei cieli tedeschi ed europei, avevano bisogno di permessi particolari, per ottenere i quali bisognava avere delle certificazioni, della documentazione tecnica molto precisa dal produttore del velivolo. Gli americani non vogliono cedere queste informazioni, e quindi la Germania ha buttato 900 milioni di euro senza potersi dotare.
Sono certo che, quando il programma F-35 andrà a pieno sviluppo in Italia – quindi dopo il 2018 – avremo una discreta ricaduta in termini occupazionali, forse 2.500 persone, incluso l'indotto, non lo so, vedremo.
Attualmente, per asserire che ce ne sono mille, hanno dovuto contare anche le maestranze, i muratori e gli imbianchini che stanno costruendo la fabbrica: non mi sembra un'operazione molto corretta perché parliamo di un indotto di maestranze che lavorano sull'alta tecnologia e, con tutto il rispetto per chi costruisce capannoni industriali, non mi sento di abbinarli all’F-35. Oltretutto, siamo stati noi italiani a pagare quella fabbrica, 814, se ricordo bene, milioni di euro e, di questi, 300 sono finiti alla Lockheed Martin, che ha fornito ovviamente parte dei macchinari necessari.
Vorrei essere preciso perché non voglio essere frainteso e, se non mi sono spiegato bene prima, me ne scuso. Non penso che l’F-35 non ci porterà a nessuna ricaduta, ma che comunque non sia conveniente rispetto al fatto di far lavorare le nostre maestranze sui nostri progetti, sui nostri programmi, condivisi, già sviluppati con gli europei, con una tecnologia che è in fase di sviluppo – anche l’Eurofighter si aggiorna – e che ci permetterà in futuro di essere competitivi con i nostri prodotti sui mercati forse con un numero di maestranze impiegate maggiore di quelle che possono venire da forniture e subforniture degli Stati Uniti.
Sulla FACO dipenderà anche da quanti aeroplani saranno venduti in Europa. La Danimarca ha indetto una gara, come ha Pag. 24deciso di fare anche il Canada. Quando si è accorto che i costi dell’F-35 ammontavano al triplo di quelli previsti, ha bandito una gara, a cui parteciperanno tutti gli aerei interessati, mentre noi non l'abbiamo fatto.
La Danimarca lo farà, l'Olanda sta valutando quanti aerei prendere degli 85 previsti. Oggi si parla forse al massimo di trenta, è tutto in divenire. Se, però, i numeri si riducono, aumentano i costi e, se si riducono i numeri delle commesse in Europa, anche le possibilità di lavoro per la nostra FACO si riducono.
Oltretutto, gli altri Paesi stanno chiedendo e ottenendo delle compensazioni di questo tipo. I turchi le pretendono per comprare l’F-35 e anche Israele vuole la sua quota di ali da produrre per acquistare quest'aeroplano.
FRANCESCO SAVERIO GAROFANI. Ringrazio il direttore Gaiani per la chiarezza e l'efficacia delle sue valutazioni, ma vorrei uscire dal solco della sua relazione. La nostra indagine ha un oggetto molto più ampio e non vorrei che questa si esaurisse, anche sulla spinta un po’ emotiva degli F-35, nell'isolare questo tema. Stiamo ragionando di un percorso più ampio, quello dei sistemi d'arma, e quindi delle esigenze strategiche delle nostre Forze armate, interessi nazionali e sovranazionali del nostro Paese, in un lavoro molto più complesso e articolato.
Recentemente, abbiamo ascoltato una relazione molto allarmata del Capo di stato maggiore della Marina, Ammiraglio De Giorgi, che ci ha parlato di un imminente rischio di impossibilità operativa. Dismetteremo, da qui a qualche anno, quasi 50 navi; ne sono previste – non so se ricordo bene – 11 o, forse, 12, quindi molte di meno, il che potrebbe comportare un decadimento verticale dello strumento Marina. Alla luce di queste valutazioni, mi chiedo se non sia, in qualche modo, troppo squilibrato oggi focalizzare la nostra attenzione sugli F-35.
Nel corso della citata audizione, l'Ammiraglio asseriva che ereditiamo dalla Guerra fredda e dagli assetti strategici che l'hanno caratterizzata uno strumento aeronautico molto sovradimensionato. Forse è giunto il momento di rivedere queste scelte, di riequilibrare le risorse in maniera diversa, considerando anche che, probabilmente, investire nello strumento Marina vorrebbe dire, dal punto di vista industriale, dare ossigeno a un comparto che oggi per noi è strategico e rispetto al quale abbiamo forse anche dei vantaggi tecnologici su altri partner europei. Non è affatto improbabile che possa esserci una ricaduta anche in termini occupazionali maggiori.
Alla luce di queste osservazioni, vorrei sapere da lei come esperto se questo problema di squilibrio è reale e se, anche rispetto a esigenze strategiche militari, non sia il caso di spostare alcune risorse, ad esempio, sugli assetti della Marina, garantendo interessi ed esigenze che hanno una valenza molto forte anche dal punto di vista strategico e geopolitico.
GIANANDREA GAIANI, Direttore della rivista Analisi Difesa. La sua domanda è affascinante perché parte da una situazione di difficoltà delle Forze armate e valuta l'eventuale necessità di rimodulare, anche in termini finanziari, i capitoli di spesa del bilancio della Difesa. Credo che il problema fondamentale, se vogliamo definirlo così, non sia che l'Aeronautica ha una priorità, ma che i jet da combattimento sono i sistemi d'arma più costosi.
Non a caso, l’F-35 è considerato il sistema d'armi più costoso della storia, come in genere gli aerei da combattimento. Pensiamo che la portaerei Cavour è costata 1,4 miliardi di euro e che, per il programma degli F-35, stimiamo dei costi per 15 miliardi di euro. È, dunque, il «giocattolo» utilizzato da quella Forza armata che ha dei costi molto elevati.
Credo, però, che un riequilibrio sia possibile puntando su quanto già abbiamo. Se acquisiamo una flotta di Eurofighter, 121 aeroplani, completando la commessa, già risparmiamo un po’ di soldi rispetto all'acquisizione degli F-35, che a mio avviso possono essere utili prioritariamente Pag. 25per finanziare, sempre in ambito difesa, l'esercizio, che è il punto fondamentale.
Se perdiamo, infatti, la capacità operativa dei nostri militari, se facciamo volare poco i nostri piloti, se mandiamo poco in mare le navi perché non abbiamo il carburante, se non addestriamo i soldati al combattimento, quando ci sarà bisogno di queste competenze, non si potranno riequilibrare o riavere con un improvviso investimento speciale o ad hoc, ma serviranno anni per riacquisire quelle capacità.
L'Ammiraglio De Giorgi ha detto delle cose interessanti non solo a voi. Ha lanciato, infatti, una campagna mediatica in questo senso – se n’è parlato su tante testate – parlando di una flotta rinnovata, con navi multiruolo, pattugliatori. Credo che il punto fondamentale sia che si tratta, anche in questo caso, di made in Italy. Questo può tranquillizzarci sul fatto che si tratterebbe di investimenti che avrebbero un impatto, una ricaduta positiva immediata diretta anche per quanto riguarda l'indotto sulla nostra industria e, come diceva lei prima giustamente, anche per la nostra cantieristica.
L'aspetto, invece, che credo sia un po’ più complicato è quello che riguarda l'invecchiamento della flotta, nata in buona parte con la legge navale del 1975, tra l'altro varata dal padre dell'attuale Capo di stato maggiore della Marina, Ammiraglio De Giorgi. Oggi, costruire una nuova flotta comporterebbe, con gli attuali chiari di luna del bilancio e anche per l'insufficienza dei fondi messi a disposizione dal Ministero per lo sviluppo economico, la spesa di alcuni miliardi di euro, che potrebbero essere resi disponibili da una nuova legge navale legge ad hoc, se così vogliamo chiamarla, e ciò potrebbe essere complicato vista l'attuale tendenza e anche la situazione economico finanziaria.
Voglio, però, tracciare un parallelo, che può essere interessante perché riguarda anche gli aspetti storici. Non mi riferisco solo alla Marina, ma in generale alle spese militari: negli anni Settanta, all'epoca della legge navale del 1975, la nostra situazione economica non era fantastica. Venivamo dalla crisi petrolifera, con le domeniche a piedi. Io ero ragazzo e lo ricordo. Avevamo avuto un boom del prezzo del petrolio che aveva distrutto la nostra economia: l'inflazione era al 20 per cento, se ricordo bene; c'era, quindi, una situazione difficile.
Anche la situazione geostrategica non era delle più tranquille. Era finita nel 1973 la guerra dello Yom Kippur, l'ultima grande guerra arabo-israeliana; i libici mitragliavano le nostre navi e i nostri pescherecci, la corvetta De Cristofaro ebbe un morto e due feriti per il raid di un Mirage di Gheddafi; fin nello Ionio si spingevano le flotte sovietiche in piena Guerra fredda.
A quell'epoca, nonostante una situazione economicamente difficile, il fatto che le minacce non mancassero diedero la possibilità, anche politica, di varare quella legge che a sua volta consentì lo sviluppo della nostra Marina e la capacità di rinnovare la nostra Marina con prodotti che furono poi largamente esportati, come ad esempio le fregate Lupo.
Oggi, a mio avviso, questa possibilità è più improbabile, anche se la considero auspicabile. Mentre gli americani, infatti, possono decidere di affrontare la crisi con una serie di commesse interne, stando attenti, ma fino a un certo punto, al deficit, dando comunque un'iniezione di denaro alla propria industria, noi non abbiamo una sovranità monetaria ci possa consentirci di muoverci in questo modo o di stanziare denaro tranquillamente per questo tipo o per altre esigenze.
Dobbiamo, infatti, rispondere al criterio del rapporto deficit/PIL che l'Europa ci impone, ma credo che le condizioni geostrategiche attuali dell'Italia richiederebbero investimenti del genere. Il Mediterraneo è in fiamme e non credo che si tranquillizzerà nei prossimi mesi. Forse la situazione peggiorerà, per cui resta prioritaria – per un Paese che fa viaggiare via mare l'80 per cento delle merci che importa e che esporta – l'attenzione verso la capacità di mantenere forze navali sufficienti a difendere gli interessi nazionali anche un po’ lontano dalle coste di casa.
DOMENICO ROSSI. Ringrazio il direttore Gaiani della relazione. Più che una domanda, forse porrò delle osservazioni a voce alta, che mi provengono, in particolare, dall'ultima domanda posta e dalle riflessioni che lei ha fatto su questa.
La prima osservazione è la seguente: probabilmente, sta già emergendo, dopo questo nostro secondo appuntamento, l'importanza di un Libro bianco che definisca bene i compiti delle Forze armate. Sappiamo tutti che fino a oggi, infatti, non avendo ben definiti questi compiti, se non, ovviamente, attraverso la legge generica, le Forze armate si sono autocostruite attraverso un processo inverso. Ossia, date le risorse, ci si è chiesti come si potesse usarle anziché chiedersi, dati i compiti, quale sarebbe lo strumento per ottimizzarli.
Penso, dunque, che su questo sia necessaria una riflessione. È evidente, solo per cogliere certi aspetti, che se il Parlamento italiano nella sua sovranità dovesse decidere di non far più varcare a nessun soldato i confini nazionali in qualsiasi missione – vado per eccessi – le dimensioni delle Forze armate sarebbero assolutamente di altro tipo.
In secondo luogo, stiamo dimenticando, in questa valutazione, come a mio avviso non dovremmo fare – ho sentito parlare per adesso di aerei e di navi – che negli ultimi 15 anni le Forza armata che all'80 per cento hanno sostenuto il peso della politica estera nazionale nel campo della difesa è stato proprio l'Esercito. I morti, purtroppo, indossavano tutti uniformi grigio-verdi.
Va bene, quindi, tutto, ma – e non perché provengo dall'Esercito – se dovessi dare una priorità nell'ambito degli investimenti, evidentemente questa andrebbe a beneficio della sicurezza di coloro che mettono gli stivali sul terreno, quindi equipaggiamento, armamento finalizzato a chi effettivamente oggi va in Afghanistan, in Libano, percorre strade minate, entra nei villaggi e così via.
Debbo dire che, peraltro, dalle relazioni oggi ascoltate mi scaturisce una riflessione leggermente amara. Forse sono io giudicarla così, forse non lo è, ma il professor Nones, nel momento in cui ho fatto presente che determinate situazioni derivavano da un bilancio che non è stato mantenuto, ha asserito che le Forze armate sono state ingenue perché si sono fidate dei politici.
Anche dalla sua relazione sembra emergere che le Forze armate o i loro vertici sono stati ingenui, e che non sanno decidere bene nelle scelte operative. Veramente, allora, mi viene quasi un dubbio: abbiamo dei vertici ingenui e che non sanno nemmeno effettuare le scelte operative giuste nell'ambito delle priorità e dei sistemi d'arma.
Tenuto conto di questa mia riflessione, ritengo che quello che conta da parte di tutti noi sia acquisire – ecco perché la ringrazio – le osservazioni di tutti coloro che possono fornirci informazioni e costruire il quadro finale proprio sulla sommatoria di tutti questi tasselli. Probabilmente, ci diranno che tutti sicuramente stanno lavorando in buona fede, partendo da una valutazione degli aspetti positivi e negativi, ma evidentemente questa valutazione non coincide sempre tra chi è fuori chi è chi dentro l'organizzazione.
GIANANDREA GAIANI, Direttore della rivista Analisi Difesa. Onorevole, parto dalla sua riflessione amara. Credo che sia una questione di sensibilità diversa. Il vertice militare generalmente punta ad avere il sistema d'arma che ritiene più adatto per svolgere il suo lavoro. Credo che la politica debba fare anche valutazioni diverse. Per questo, credo dobbiate occuparvene in maniera costante e attenta. Gli interessi nazionali, in questo caso, non si fermano solo al mezzo che forse sarà più adatto, ma riguardano anche l'industria, le ricadute occupazionali, il fatto che i soldi che spendiamo restino il più possibile in Italia o consentano all'Italia di fare sistema.
Sento, quindi, di consolarla nella sua amarezza, nel senso che sono certo che ognuno – ci metto anche la mia sensibilità – su questi temi e su questi argomenti abbia una sensibilità diversa. Ascoltando Pag. 2750 persone a diverso titolo, sentirete sensibilità e pareri diversi.
Su un punto, però, mi preme soffermarmi: attenzione al rischio di fare, come al solito, la guerra tra poveri: Marina, Esercito, Aeronautica. Noi siamo sempre poveri perché, come il Ministro ci spiegava, negli ultimi anni abbiamo avuto un crollo verticale degli investimenti nella Difesa. Le guerre, gli sgambetti tra poveri sono dunque all'ordine del giorno.
Quante navi potremmo costruire con meno aerei ? Quanti blindati o quante torrette per i Lince servirebbero ? Un'analisi il più possibile razionale ci dice che è vero che i caduti sono quasi tutti dell'Esercito, o comunque sono caduti su un campo che lo vede coinvolto, ma è anche vero che nella gran parte delle nostre operazioni che, a tutti gli effetti, hanno visto un impiego bellico (la guerra in Serbia, in Bosnia e poi in Kosovo, in Libia etc.) è stato impiegato sia lo strumento aereo, sia quello aeronavale.
In Libia, nostri Harrier operavano dalla portaerei mobile Garibaldi e la difesa dalla minaccia della pirateria dei nostri, e non solo, mercantili nell'Oceano Indiano è operata dalle navi. Sono loro a effettuare il controllo sul mare delle rotte utilizzate dai nostri mercantili.
Credo che, oggi più che mai, non possiamo dimenticare che tutte le Forze armate ci servono. Ovviamente, la difficoltà sta nel bilanciare le risorse per creare uno strumento che non solo sia efficiente, ma che sia anche sostenibile, cioè che economicamente e finanziariamente possiamo permetterci. Diversamente, rischiamo, come si diceva, di avere ottime navi e ottimi aerei parcheggiati sui moli o negli hangar perché mancano i fondi per utilizzarli. Credo che questa sia la sfida su cui dobbiamo soffermarci, anche se è vero che l'Esercito ha bisogno di essere sostenuto, soprattutto con fondi per la manutenzione dei mezzi in Patria. Si tratta di addestramento al combattimento.
Teniamo presente un dato, secondo me paradossale: oggi, le missioni all'estero non sono un'opzione politica. Certo sono anche questo, ma sono necessarie alle Forze armate. Quando finiranno le missioni all'estero, non avremo più i soldi per addestrare al combattimento le brigate di fanteria, i reggimenti.
Non voglio pensare che il mio Paese resti in Afghanistan fino all'ultimo, anche più degli americani – consentitemi la battuta, ma gli americani minacciano l'opzione zero a Karzai un giorno sì e l'altro pure – perché, in realtà, le nostre Forze armate hanno bisogno di quel miliardo e oltre di euro all'anno. Qui è richiesta un'iniziativa che deve essere essenzialmente politica di bilanciare, certo, lo strumento militare, ma anche di finanziarlo per averlo disponibile.
Oggi, come in passato, ma forse oggi di più, le esigenze emergono da un giorno all'altro e non possiamo avere il problema di aver fatto volare poco quei piloti o addestrato poco quel reggimento e non poterlo impiegare per questa ragione. Le esigenze, purtroppo, si manifestano con una rapidità che non riusciamo neanche a prevedere. Pensate solo al doppio rovesciamento in corso in Egitto: chi avrebbe mai detto che l'Occidente avrebbe abbandonato Mubarak a se stesso ? O che avrebbe sostenuto i militari o, comunque, non ostacolato i militari ? Le cose cambiano in fretta e dobbiamo essere pronti.
Questa è la ragione per cui richiamo l'attenzione sulla voce del bilancio difesa che si riferisce all'esercizio. Lavoriamo su quello. Nuovi equipaggiamenti servono sicuramente, ma dobbiamo avere la capacità di mantenere personale addestrato e usare questi equipaggiamenti in tutte le Forze armate.
SALVATORE CICU. Sono rimasto, direttore, molto colpito dalla sua relazione che ha fornito dati interessanti, ma anche una visione ben precisa. Ultimamente, mi sono appassionato di storytelling. Non guardo, cioè, mai al contesto se non abbinato a un excursus storico. In particolare, guardo alla Difesa con un excursus storico che considera una precisa decisione fatta dai nostri padri fondatori, ossia quella di demarcare una linea di partecipazione con l'Occidente, in maniera particolare con gli Stati Uniti d'America.Pag. 28
Siamo inseriti in un contesto internazionale, siamo NATO, ONU e vorremmo essere forza europea. Ci accingiamo, a dicembre, a cercare di capire in che modo possibilmente avvicinarci a interpretare questo concetto dal quale siamo ancora ben lontani.
Abbiamo necessità di partecipare a un linguaggio che ci consenta di essere inseriti in un contesto di partecipazione internazionale. È evidente che anche a me piacerebbe che l'Italia avesse il prodotto migliore, che il modello di difesa italiano fosse il migliore e anche poter pensare che i nostri interventi possano e debbano limitarsi a combattere quattro scalmanati che, senza armi adeguate, possano essere sedati il giorno dopo o il giorno prima rispetto alle intenzioni bellicose. Purtroppo, però, non credo che sia così. Sarei ben felice se lo fosse.
Guardando alla storia e alla politica di questo Paese, come lei sa meglio di me, gli F-35 nascono non in questa fase e con questa indagine, ma con un percorso politico che ha visto coinvolti tutti, esclusi quelli che – per logica, non per ideologia – hanno preso scelte diverse, legittimamente e correttamente, che io ho sempre rispettato.
Credo, infatti, che il confronto sia necessario per la nostra democrazia, ma anche che le maggioranze di questo Paese – diverse, precedenti al sistema berlusconiano – abbiano individuato, insieme al sistema delle nostre Forze armate, anche quello del nostro sistema industriale.
Ricordo l'audizione dell'amministratore delegato di Finmeccanica nella precedente legislatura, che sottolineava e valorizzava non solo la necessità, ma anche l'opportunità di partecipare al progetto degli F-35. Credo che i primi di settembre li sentiremo nuovamente per capire se confermeranno o smentiranno – sono curioso – ma c'era, in ogni caso, questa spinta fortissima. Stiamo parlando del nostro sistema industriale italiano, non di quello americano.
Parlavano, appunto, di quello che, lei ha precisato meglio: ci sono dei benefici, che verificheremo, ma – lo credo per qualsiasi scelta prendiamo – non possiamo definire preventivamente o preliminarmente in maniera esatta quali saranno i benefici rispetto ai costi.
Sono certamente appassionato alle valutazioni tecniche e politiche che riguardano la scelta dell’F-35, ma lo sono ancora di più nel cercare di capire come possiamo e dobbiamo restare una forza democratica credibile, affidabile e importante nello scenario geostrategico della sicurezza.
Ho sentito prima un collega del Movimento 5 Stelle rivolgere una domanda sugli intercettori da qui a trent'anni prima: non credo che dobbiamo guardare ai limiti dei nostri confini perché, in questo modo, finiremo per erigere muri più alti, per quanto possibile, e stare a vedere se qualcuno riesce a superarli.
Il punto è che facciamo parte di una storia, di una linea politica, di un sistema e non voglio assolutamente pensare che siamo un sistema di forza armata ultimo o di persone incompetenti o incapaci. Ho seguìto il Ministro Di Paola, con la sua esperienza internazionale e con la sua capacità, nel mondo: in India, in Cina, in America, in Germania, in Francia e in Inghilterra. Quando si presentava – non l'ho mai sottolineato, lo faccio ora per la prima volta – c'era un contesto non solo di autorevolezza, di credibilità, ma di ascolto e di grande interesse verso ciò che l'Italia in quel momento rappresentava.
Non vorrei che cadessimo nell'errore di sostenere che non riusciamo a prendere delle scelte, che le nostre scelte sono sbagliate, che dobbiamo pensare che tutto quello che esiste oggi debba essere completamente cambiato e radicalmente rivoluzionato. Credo che, assieme all'equilibrio, esista un altro aspetto da considerare: rispetto a 10 anni fa, dopo il crollo delle Torri gemelle, l'opinione pubblica di questo Paese si è «avvicinata» tantissimo al ruolo e alla funzione delle nostre Forze armate. Nel momento in cui, piano piano, ci sentiamo più sicuri e tranquilli, è chiaro che subentra un altro aspetto, quello della crisi drammatica per i nostri cittadini, per la nostra gente, per le nostre imprese ed Pag. 29è evidente che ancora di più siamo chiamati a cercare di capire come razionalizzare e riequilibrare un contesto di spese per un settore che non sentiamo più oggi propriamente prioritario e strategicamente principale. Anch'io ritengo, infatti, che l'obiettivo principale sia la vita della nostra Nazione, dei nostri cittadini e delle nostre famiglie.
Su questo aspetto, è evidente che nelle nostre audizioni sentiamo pareri – credo che la collega lo abbia precisato meglio di me – che stridono e che sono contrapposti. È giusto che sia così, ma a questo punto, nel momento in cui tutto stride, confido che le nostre Forze armate siano all'altezza delle migliori valutazioni. Spero che la politica sia in grado di capire e di seguire con attenzione questo processo perché dia la risposta migliore al Paese.
PRESIDENTE. D'altra parte, il nostro compito è proprio quello di ascoltare una pluralità di opinioni in modo da farci un'idea più completa sull'insieme della materia oggetto della nostra indagine conoscitiva.
GIANANDREA GAIANI, Direttore della rivista Analisi Difesa. Sottoscrivo quanto appena osservato. Ovviamente, esprimo le mie valutazioni personali, che non sono quelle dell'industria né quelle delle Forze armate, ma le mie dal momento che avete avuto la bontà di invitarmi.
Possiamo restare alleati degli Stati Uniti, perfettamente integrabili con uno sforzo militare alleato in una prossima operazione, anche senza aver acquistato aerei americani. La Francia e la Germania, ad esempio, sono membri a tutti gli effetti della NATO e la Francia ha condotto da protagonista la guerra in Libia, impiegando aerei prodotti in Francia, armi prodotte in Francia e sistemi che ovviamente permettono l'integrazione.
Spero che l'Italia continui a investire, soprattutto in un momento come questo, nella tecnologia che sviluppiamo insieme ai nostri partner europei – oggi, pochi Paesi sono in grado da soli di creare certi sistemi d'arma, la Francia ci sta riuscendo, pagando un prezzo importante – senza per forza essere vassalli degli Stati Uniti.
Credo che l'alleanza possa certamente continuare a esistere se permangono gli interessi congiunti, ma dobbiamo senz'altro puntare anche noi a un ruolo che non sia solo quello di fruitori di tecnologia che gli altri ci forniscono. Oltretutto, da questo ruolo ci siamo emancipati ormai da tanti anni con programmi che ci hanno consentito di essere autonomi non solo nel campo aeronautico.
Oggi, stiamo per collaudare in Afghanistan dei piccoli robot da combattimento, che assomigliano a quei robottini che si usano per disinnescare gli ordini, ma sono armati e pilotati dall'interno di una base: serviranno per sorvegliare i dintorni delle basi afgane, evitando di esporre i nostri soldati in questo lavoro difficile e pericolosissimo a causa degli ordigni e dei cecchini talebani. È tecnologia italiana, prodotta da Oto Melara.
Forse da soli potremmo far fatica a sviluppare al meglio queste nostre capacità tecnologiche. L'Europa non è ancora in grado di avere Forze armate congiunte perché non ha una struttura politica congiunta. Avete visto cosa è accaduto in Mali, i francesi ci sono andati: chi li ha seguìti ? Dovevamo mandare un po’ di aeroplani da rifornimento e cargo e poi abbiamo cambiato idea.
I test dell'integrazione militare delle Forze armate sono le operazioni. È chiaro allora – lei ha ragione, onorevole Cicu – che c’è ancora tanto da fare su questa strada, ma almeno sul piano industriale, dove tanta strada abbiamo già percorso con i consorzi, con le aziende e multinazionali europee, continuiamo a lavorare su questo. Se, infatti, disperdiamo questo capitale, difficilmente avremo la possibilità di supportare, anche sul piano produttivo, un sistema politico e militare europeo integrato.
Oltretutto, esistono temi come il procurement militare, l'acquisizione di sistemi d'arma, l’F-35 in particolare, perché è il più costoso e allora fa più notizia, per tutti, anche per gli Stati Uniti, dove c’è un fortissimo dibattito interno alle forze armate. Pag. 30È così anche da noi. Da quanto sento, si sta diffondendo una linea che prevede sì di acquistare i nostri F-35, ma in quantità un po’ più ridotta nei primi anni, per poi aumentare l'acquisizione negli anni successivi perché i primi esemplari dei lotti di preproduzione costano tantissimo.
È in quest'ottica che chiedevo perché non aspettare che il sistema sia maturo. Almeno quelli della Marina, che ci serviranno per forza, potrebbero essere acquistati più avanti. Sono, però, talvolta anche provocazioni e, come penso e mi auguro, stimoli, dopodiché sta a voi decidere.
Credo molto nel ruolo del Parlamento anche sulle questioni di pianificazione politica militare, per cui il mio auspicio è di offrire anche strumenti di provocazione e di riflessione su cui voi elaborerete programmi e politiche da discutere e da approvare.
DONATELLA DURANTI. Anch'io voglio ringraziare il dottor Gaiani, anzitutto perché lo abbiamo fatto aspettare, ma anche per la chiarezza e la profondità con cui ha voluto, appunto, esprimerci la sua valutazione.
Non ho domande specifiche da rivolgerle sugli F-35. Nella sua relazione, ha risposto ampiamente, per quello che mi riguarda, alle nostre preoccupazioni e alle domande – provo a essere garbata – che abbiamo rivolto a molti soggetti e alle risposte che, appunto, non abbiamo ricevuto in questi mesi, in queste settimane. Oggi, invece, sento di poter affermare che abbiamo ricevuto alcune risposte e anche per questo la ringrazio.
In ogni caso, condividendo con lei che il rischio default vero sia quello che riguarda l'esercizio, vorrei capire meglio questo aspetto anche in relazione, appunto agli altri Paesi europei. È di ieri o avantieri l'affermazione del Ministro Mauro, secondo la quale, complessivamente, l'Europa ha una spesa per la difesa superiore alla Cina, alla Russia e al Giappone messi insieme.
Noi parliamo tanto di integrazione europea, di politica della difesa e della sicurezza europea e così via, ma ci mancano gli elementi importanti per capire quale sia la fotografia degli altri Paesi europei e quali siano le differenze con l'Italia.
Dal punto di vista del rischio default nell'esercizio, per esempio, rispetto anche al numero delle Forze armate – quindi non solo dal punto di vista industriale, ma anche da quello del funzionamento e di quello che oggi è il modello di difesa a cui fanno riferimento la maggior parte dei Paesi europei – sarebbe utile per noi poter contestualizzare anche questo elemento.
GIANANDREA GAIANI, Direttore della rivista Analisi Difesa. La ringrazio per le sue parole. Le anticipo che, se dovessi rispondere alla sua domanda, probabilmente finiremmo all'ora di cena. Tutti i Paesi europei sono alle prese con una contrazione della spesa militare. Ogni Paese decide dove applicarla anche in base alle priorità operative dei singoli Paesi.
Francia e Gran Bretagna, ad esempio, cercano di mantenere ciò che hanno, essendo già gravati di spese molto forti per il loro arsenale nucleare. Questo non va dimenticato. Cercano di mantenere un buona capacità, non tanto in termini numerici, ma in termini qualitativi, di proiezione, ossia la capacità di intervenire all'estero dove necessario e dove i loro interessi possono chiamarli a intervenire.
Ovviamente, su questo fronte, l'Italia ha ambizioni ridotte. Se n’è parlato anche l'anno scorso, quando si metteva a punto la riforma dello strumento militare. Con queste risorse, le nostre ambizioni di presenza e di capacità di intervento all'estero, ovviamente si riducono.
Il problema fondamentale è che, avendo ogni Paese europeo la necessità di avere la capacità di fare quasi tutto disponendo di risorse sempre minori, ciascuno perde progressivamente un pezzo delle sue capacità e, quindi, delle sue potenzialità da esprimere in campo militare. Si indebolisce progressivamente. L'ideale – è facile dirlo – sarebbe che l'Europa affrontasse una spesa militare unica, attribuendo a livello di Unione delle Pag. 31competenze, spendendo meglio quel denaro, anziché trovarsi con 15 o 27 duplicati.
Molti Paesi, inoltre, sono piccoli e hanno forze armate simboliche. Scegliendo, però, i dieci più importanti, anziché spendere per dieci duplicati di capacità, si potrebbe spendere in maniera più organica.
Di tutto questo sento parlare da quando ero al liceo e ho cinquant'anni, per cui è passato un po’ di tempo. Ci facevano fare dei temi sulla difesa europea quando frequentavo ancora poco più che il ginnasio. Si tratta, dunque, di un tema che ricordo, di cui si parla da parecchio. È chiaro, però, che potrà avere un suo significato pratico nel momento in cui, se mai ci arriveremo, avremo un'integrazione politica dell'Europa.
Sarà necessario, infatti, un Governo che stabilisca una pianificazione della politica militare o anche solo che decida per tutti i partner europei che in quella guerra, in quell'operazione di pace, come preferite, interveniamo o meno. Diversamente, ci ritroveremo con situazioni simili a quanto della accaduto con la Libia, con Francia e Gran Bretagna che spingono per un intervento, la Germania che si tira indietro insieme ad altri Paesi e l'Italia costretta a farla anche se è il primo caso nella storia in cui un Paese fa la guerra al suo primo fornitore di petrolio.
Tutti i Paesi, anche gli Stati Uniti, sono alle prese con le difficoltà del bilancio della Difesa, con dei tagli importanti e, addirittura, col fatto che, non avendo trovato un accordo sul taglio al bilancio, hanno avuto il cosiddetto sequester, per cui alcuni stormi aerei improvvisamente non hanno più avuto i soldi per far volare i piloti. I piloti stanno a terra, si addestrano nel simulatore fino alla fine dell'anno fiscale.
Tutti hanno problemi in questo momento, cominciano ad averli forse anche i cinesi perché hanno una crescita inferiore al previsto. Forse, se questo trend continuerà, anche in Cina l'investimento ogni anno sempre maggiore nelle spese per la difesa potrebbe avere, nei prossimi anni – sono in corso analisi di prospettiva – una riduzione.
Prima si parlava di Libro bianco. Io credo che l'ideale sarebbe, per l'Italia, un Libro bianco che definisca cosa vogliamo fare, ma anche, e parlo forse di un'utopia, che esistesse un Libro bianco a livello europeo. Il mese di dicembre, il Consiglio europeo, su questo tema potrebbe essere una buona occasione.
Stabiliamo, intanto, insieme ai nostri partner, in attesa di un'unione politica, cosa l'Europa considera strategicamente prioritario e su cui tutti sono pronti e disponibili, anche a spendersi in termini militari, con quello che ne consegue in termini di rischio, di perdite di vite umane, ma anche in termini di investimento. Le operazioni militari, infatti, le guerre, hanno un costo. Una volta che vi si entra, non si può sapere quale sarà il costo finale. L'Afghanistan ce lo sta insegnando. Spero di aver risposto alle osservazioni.
CARLO GALLI. Dottore, ho molto apprezzato il suo intervento e il suo contributo. Le rivolgerò alcune domande, al di là di ogni questione ideologica: in che modo è compatibile con un'analisi realistica della nostra situazione, l'ipotesi che sia sul terreno la riconfigurazione dell’Eurofighter da aereo di superiorità in cacciabombardiere ? In quanto tempo, in quanti anni ciò potrebbe avvenire ? Questo è, per quanto riguarda la questione dell’F-35, il tema fondamentale.
È stato detto, al di là di ogni altra considerazione ideologica, fedeltà atlantica, che al momento è l'unica ipotesi in campo: è vero o l’Eurofighter può essere un'ipotesi concorrente in tempi brevi ?
GIANANDREA GAIANI, Direttore della rivista Analisi Difesa. L’Eurofighter è già un cacciabombardiere. La seconda trance del velivolo ha già questa capacità e ne avrà ancora di più nell'ultima serie che sarà prodotta. Come spiegavo durante la mia introduzione, anche l'Italia, che non lo usa e non vuole usarlo adesso come cacciabombardiere, Pag. 32ha già deciso che lo utilizzerà, come aereo d'attacco, per l'imbarco dei missili Storm shadow, missili da crociera lanciati da alcune centinaia di chilometri dall'obiettivo e che da soli lo colpiscono.
Inoltre, recentemente abbiamo parlato a proposito del programma di sviluppo anche su Analisi Difesa: entro pochi anni avremo a disposizione nuovi sistemi per l'utilizzo delle armi da attacco, un radar a scansione elettronica nuovo, delle potenzialità dell’Eurofighter che credo ci consentiranno di affrontare qualunque nemico, il miliziano a cui dovremo tirare la bomba di moderata potenza esplosiva, come il nemico a cui lanciare armi a lungo raggio, come abbiamo fatto ad esempio in Libia per distruggere alcuni centri di comando e controllo.
Credo che l’Eurofighter ci garantirà la possibilità di essere a un altissimo livello. I tedeschi ad esempio, avranno solo l’Eurofighter, ma ancora per molti anni. Non so se, quando l’F-35 sarà ultimato e veramente invisibile ai nuovi radar, avrà delle capacità così superiori come si dice all’Eurofighter. Potremo scoprirlo solo quando l’F-35 avrà raggiunto la sua maturità.
Oggi non l'ha raggiunta. Oltretutto, è un aereo sviluppato e prodotto mentre è ancora in fase di sviluppo ed è un po’ questa la sua contraddizione. Questo impedisce di percepire il ritardo perché l'aereo è già prodotto, ma in realtà non è ancora sviluppato, ha tante limitazioni, che forse saranno risolte.
Credo, però, che una scelta europea consapevole e, anche sul piano finanziario, credibile sia quella di puntare sull’Eurofighter, per investire i soldi che risparmiamo dall’F-35 in un progetto in cui siamo già protagonisti insieme ai francesi, il nEUROn, il dimostratore per l'UAV, ossia il drone da combattimento, sul quale Alenia Aermacchi è coinvolta insieme ai francesi e ad altri partner europei. Forse, tra 25-30 anni, forse molto prima, potremmo già disporre di una parte di flotta d'attacco composta da velivoli teleguidati.
Credo che, in un'ottica in cui si guardano soprattutto le risorse finanziarie, puntare oggi sull’Eurofighter, che ha un cacciabombardiere, è un aereo multiruolo e c’è già chi lo impiega per questo, e poi utilizzare le risorse risparmiate per investire sulla ricerca per velivoli da combattimento teleguidati, possa consentire all'Europa ancora una volta di restare al passo, ma soprattutto di non essere, anche sul fronte dei droni da combattimento, alle dipendenze degli Stati Uniti.
Questo è un rischio che stiamo già correndo. Chi, infatti, ha bisogno di droni, sta comperando quelli statunitensi. Sarebbe forse meglio che anche noi entrassimo in quel mercato in tempi rapidi, con investimenti che ci garantissero la possibilità di essere, da un lato, autonomi e, dall'altro, competitivi e concorrenziali coi prodotti statunitensi.
PRESIDENTE. Ringrazio ancora il dottor Gaiani e tutti i colleghi intervenuti alla seduta odierna della Commissione.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 12.45.
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