Sulla pubblicità dei lavori:
Vito Elio , Presidente ... 3
INDAGINE CONOSCITIVA SUI SISTEMI D'ARMA DESTINATI ALLA DIFESA IN VISTA DEL CONSIGLIO EUROPEO DI DICEMBRE 2013
Audizione di Alessandro Politi, direttore della NATO Defense College Foundation.
Vito Elio , Presidente ... 3
Politi Alessandro , Direttore della NATO Defense College Foundation ... 3
Vito Elio , Presidente ... 16
Villecco Calipari Rosa Maria (PD) ... 16
Artini Massimo (M5S) ... 17
Rossi Domenico (SCpI) ... 17
Frusone Luca (M5S) ... 17
Vito Elio , Presidente ... 18
Politi Alessandro , Direttore della NATO Defense College Foundation ... 18
Vito Elio , Presidente ... 21
ALLEGATO: Documentazione presentata dal direttore della NATO Defense College Foundation, Alessandro Politi ... 22
Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: FI-PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Nuovo Centro-destra: NCD;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Fratelli d'Italia: FdI;
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE ELIO VITO
La seduta comincia alle 9.05.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata, oltre che attraverso l'attivazione degli impianti audiovisivi a circuito chiuso, anche mediante la trasmissione sul canale satellitare della Camera dei deputati e la diretta televisiva sulla web-tv della Camera dei deputati.
Audizione di Alessandro Politi, direttore della NATO Defense College Foundation.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui sistemi d'arma destinati alla difesa in vista del Consiglio europeo di dicembre 2013, l'audizione del professor Alessandro Politi, direttore della NATO Defense College Foundation.
Prima di iniziare la seduta permettetemi di esprimere, a nome di tutta la Commissione, oltre che mio personale, il cordoglio per le vittime dell'alluvione della Sardegna, la solidarietà alle popolazioni colpite e, naturalmente, il ringraziamento agli uomini del servizio militare, del servizio civile, della protezione civile e delle forze dell'ordine che sono impegnati in queste ore nel soccorso alla popolazione per gli interventi infrastrutturali.
Come sapete, anche la nostra Commissione, come molte altre stamattina, soffre per l'assenza dei parlamentari sardi, ai quali rivolgo un caloroso abbraccio. La loro è un'assenza che consideriamo ampiamente giustificata, viste le condizioni che ci sono in Sardegna e l'impossibilità di raggiungere Roma.
Ringrazio il dottor Politi per la disponibilità a prendere parte ai lavori della nostra Commissione e anche per averci fatto pervenire anche alcune schede illustrative che potranno consentire ai colleghi presenti di seguire meglio il suo intervento.
Do, quindi, senz'altro la parola al dottor Politi. Successivamente, i colleghi che lo vorranno potranno porre alcune domande, alle quali il nostro ospite potrà replicare.
ALESSANDRO POLITI, Direttore della NATO Defense College Foundation. Onorevole presidente, La ringrazio. Onorevoli parlamentari, è per me un onore essere stato convocato per svolgere quest'audizione. Ho preferito avvalermi di una presentazione con alcune lastrine perché l'insieme di parole e immagini a volte aiuta a focalizzare meglio alcuni concetti.
Lo potete vedere già dalla prima lastrina, dove ci sono due immagini. La prima è una vecchia illustrazione degli anni Trenta, in cui i Paesi dell'Europa prima della seconda guerra mondiale, stavano davanti a un albero di Natale e i giocattoli sono armi.
La seconda, invece, è di Cameron e riguarda il suo referendum, ventilato nei prossimi anni, con cui la popolazione inglese forse dovrebbe decidere di andarsene Pag. 4via dall'Europa. Francamente, si tratta di un'iniziativa molto più complicata di quello che sembra, ma queste sono le gioie della politica europea.
Come mi è stato rappresentato nell'invito a quest'audizione, il tema è nazionale, ma il traguardo è europeo e, quindi, la prima questione è che, in realtà, intorno alla strategia europea non c’è una particolare chiarezza di intenti.
Vorrei partire da un dato italiano. Si tratta di un dato che è stato assolutamente teorizzato in ambito nazionale e riguarda il concetto di «Cindoterraneo». Se vedete la cartina della terza diapositiva, notate un'area che parte dalla Cina, passa attraverso tutto l'Oceano Indiano e arriva nel Mediterraneo. Più specificamente, arriva, per ora, a Gioia Tauro. Si tratta dell'insieme di merci, beni, capitali e persone che transita per Suez e arriva nel Mediterraneo.
Questo è un dato piuttosto recente della storia del nostro Mediterraneo, che non è immutabile, ma che caratterizza la relazione tra questo mare e gli altri, a cominciare dal Pacifico. Mentre una volta noi eravamo abituati a considerare il Mare Nostrum ancora in termini mussoliniani, oppure come estensione della flotta dell'Atlantico attraverso la Sesta Flotta Americana – la Sesta Flotta esiste ancora, ma è una flotta fantasma – oggi questo mare è soprattutto un terminale mondiale di commerci. Questa è, francamente, un'eccezione, perché tutti gli altri commerci seguono una linea equatoriale, quella che viene chiamata conveyor belt, ossia nastro trasportatore, per i commerci marittimi, che sono quelli con maggior tonnellaggio.
Nella quarta lastrina vedete quello che dovrebbe essere un punto d'arrivo della politica di sicurezza europea, quella che io chiamerei area di responsabilità primaria. Ovviamente questo trapezio non ha alcuna connotazione neo o post-coloniale, ma è la risultante di quello che si vede dalle nostre missioni a partire dagli anni Sessanta e anche delle nostre concrete capacità di trasporto logistico aereo.
Come Paesi europei, noi siamo andati anche più lontano. Timor Est è un caso classico. Se, però, dobbiamo parlare di un'area in cui l'Europa può e dovrebbe assumersi alcune responsabilità e ha i mezzi per farlo, nonostante essi siano frammentati, duplicati e tutto quello che voi già sapete, è proprio questa. Tale area copre una parte dell'Africa e lo stretto di Hormuz. Si può andare oltre, ma con livelli di efficacia decrescenti. Essa copre anche una parte dalla Russia, perché è un partner importantissimo, di cui un tempo temevamo l'aggressione e di cui oggi potremmo piuttosto temere un collasso, se non affronta i suoi problemi interni.
La quinta lastrina vi mostra un'opera italiana. È una prima, a dire la verità, nel Ministero della difesa italiano. In sessant'anni, infatti, per la prima volta ci si è occupati di guardare il mondo in modo strutturato, sistematico e predittivo. Questo tipo di volume contiene alcune previsioni a breve termine. Le successive quattro lastrine vi mostreranno, per quattro enormi quadranti del mondo, i dati strategici fondamentali che adesso, mentre noi parliamo, vengono rielaborati per arrivare al Global Outlook 2014. È un'attività che sta andando avanti.
Per il Pacifico, vorrei attirare la vostra attenzione sul fatto che mediaticamente sono le controversie marittime nel Mar della Cina, nel Mar cinese meridionale quelle che suscitano maggiore interesse, ma – in realtà – la situazione più rischiosa che noi abbiamo in questo momento e per gli anni a venire è il gemellaggio economico piuttosto perverso e ad alto rischio tra Cina e Stati Uniti. Si tratta di un collegamento tra export, accredito e debito, che non viene ancora controllato. I nostri amici americani non sono capaci di fare finanziarie lacrime e sangue all'italiana. Vedremo se ne saranno capaci, per ora stanno solo spostando i tetti del debito.
C’è poi, ovviamente, quello che viene chiamato un pivot to Asia, ossia uno spostamento di attenzione all'Asia, che, in realtà, è una rimonta degli Stati Uniti rispetto alle posizioni conquistate dalla Cina nel corso di quest'ultimo decennio, a partire più o meno dalla fine degli anni Pag. 5Novanta. Questa rimonta è, per ora, condotta con mezzi pacifici, soprattutto di diplomazia commerciale. Come voi sapete, è, infatti, in corso di negoziato la Trans-Pacific Partnership. Lungo il continente americano tutti i grandi attori sono in fase di ristrutturazione.
La politica di Obama, che probabilmente è il primo presidente democristiano degli Stati Uniti, è una politica di ricostruzione sociale interna, oltre che di riduzione delle guerre iniziate dalla presidenza precedente. Il Messico è impegnato in una pesantissima guerra di mafia che fa assolutamente impallidire i ricordi dei nostri corleonesi e i Paesi latinoamericani, a cominciare soprattutto dal Brasile, devono affrontare la gestione di propri squilibri interni.
Questo stesso problema tocca anche la Cina. Normalmente, in ambito di difesa, si parla del riarmo della Cina, ma, se considerate il combinato disposto dei problemi sociali, ecologici e di corruzione, notate che sono questi i maggiori ostacoli su cui la Cina potrebbe inciampare.
Con la settima lastrina passiamo, invece, a un altro scacchiere, completamente diverso, ma a noi più vicino: l'Oceano Indiano. In merito bisogna constatare che in questi anni c’è stato uno spostamento di rivalità strategica tra Cina e India dall'arco himalayano verso l'Oceano Indiano. Questo è avvenuto perché – e questo è un dato storico ormai più che secolare, non solo per la Cina, ma in genere anche per la storia dei Paesi europei – più crescono i traffici marittimi, più cresce l'interesse della potenza navale. La nave da guerra segue il mercantile. Poiché i cinesi hanno un flusso di energia che arriva dal Medio Oriente, più precisamente dallo stretto di Hormuz, fino alle loro industrie, che sono ancora piuttosto energivore e anche inquinanti, è chiaro che ci sarà un interesse a proteggere questa linea di comunicazione marittima. Questo li mette anche in una posizione di attrito con una potenza emergente come quella indiana, che, insieme all'Iran, è l'unica potenza emergente nell'Oceano Indiano. È una questione che spesso dimentichiamo, perché per noi l'Iran è un po’ isolato lassù, nel Medio Oriente. Sembra un tassello estratto da un mare che è, invece, più ampio.
Questa è ancora una rivalità sotto traccia, mentre quella a cui noi dobbiamo traguardare, dopo il ritiro della NATO dall'Afghanistan, è la posizione del Pakistan, un attore apparentemente molto forte, che condiziona anche i processi politici afgani, ma che rischia di trovarsi isolato per l'interazione di collaborazione e competizione tra Cina, India e Stati Uniti. Ciò l'avete potuto vedere molto chiaramente con l'accordo sul nucleare tra India e Stati Uniti, particolarmente creativo, direi. Infatti, i pachistani hanno cercato di fare esattamente la stessa manovra degli indiani e sono stati respinti da un cortese diniego della Casa Bianca.
L'ultima parte di stretta attualità che ci interessa è l'Iran. Come voi sapete, sono in corso negoziati particolarmente promettenti e strutturalmente prevedibili dall'ascesa di Obama. Se Obama vuole recuperare la sconfitta irachena, deve negoziare con l'Iran. L'Iran ha un interesse fortissimo per negoziare, perché le sanzioni, dopo un decennio, funzionano.
Se c’è una realtà che possiamo vedere dagli anni Ottanta a oggi è che, dopo un decennio, in genere le sanzioni, su qualunque tipo di regime petrolifero, funzionano eccome. Certo, ci sono contrabbandi, riciclaggi, canali occulti, ma, alla fine, dopo un decennio, le industrie petrolifere di questi Paesi hanno bisogno di una serie di investimenti e, quindi, sono più portate a negoziare. Soprattutto gli iraniani hanno un ruolo nel Golfo Persico. Si tratta di un ruolo arabico che non potranno mai avere, se non negoziano con il loro avversario americano.
Questo, però, non è un dato scontato. L'avete visto dallo stop francese, ma soprattutto dal crescente nervosismo del Governo israeliano. È estremamente importante capire che noi abbiamo sfiorato l'anno scorso un rischio di attacco mirato israeliano alle installazioni nucleari iraniane. Le fonti aperte parlano abbondantemente di dissidi, preparativi e schieramenti.Pag. 6
Questo rischio è residuale, ma non è ancora totalmente scomparso. Le dichiarazioni di Netanyahu in materia sono assolutamente palmari. Io spero vivamente che siano tattiche, ma non vorrei che, per le strane dinamiche che possono succedere in gabinetti ristretti – come voi sapete, il gabinetto ristretto israeliano è composto di sole nove persone – la tentazione di una brillante fuga in avanti con una spettacolare operazione militare che guadagni un po’ di prestigio e di tempo non risultasse irresistibile. Ripeto, è un rischio molto più ridotto rispetto alla fine dell'anno scorso, ma non è ancora del tutto sparito e questo naturalmente ci tocca, perché siamo proprio estremamente collegati a quel teatro.
L'ottava lastrina parla di un continente da cui l'Italia è piuttosto assente, purtroppo, dai tragici fatti della Somalia, praticamente dall'imboscata del Checkpoint Pasta. Come voi sapete, nel nostro Paese c’è una corrente di pensiero, assolutamente bipartisan, che ritiene che l'Africa sia un Paese poco interessante. La lastrina mostra che sarà forse poco interessante per noi, ma è, invece, interessantissima per numerosi Paesi, tutt'altro che scontati. Vorrei attirare la vostra attenzione sull'India, sulla Turchia e sul Brasile.
I tre grandi motori di questo continente che, insieme alla Libia, erano parte del passaggio dall'Organizzazione per l'unità africana all'Unione africana, sono al momento paralizzati. Dell'Egitto sanno tutti. La Nigeria lo è per questioni di divisioni tra nord e sud. Il nome in codice mediatico è Boko Haram, che, però, come movimento terrorista, è solo una sottile crosta di un sintomo più serio. Il Sudafrica è invece paralizzato per le tensioni sociali, a volte razziali, ma sicuramente legate alle difficoltà di gestione dell'economia. Il relativo governo sta cercando di reimparare alcune cose che, naturalmente, in anni di apartheid non si sono potute imparare e che la transizione di Mandela ha saputo coprire brillantemente, ma che poi rappresentano i problemi di un normale governo.
Non tutto il quadro africano è negativo. Proprio il Corno d'Africa lascia sperare alcune possibilità di composizione, ma, come voi sapete, fare una pace è molto più difficile che fare una guerra, soprattutto quando in ambito somalo ci sono stati tentativi piuttosto riusciti di autogestione, che potrebbero essere anche di secessione.
I capitoli aperti sono in parte il Mali, ma soprattutto il Sud Sudan e la Repubblica Democratica del Congo. Sono poste in gioco di ovvia evidenza strategica, non fosse altro per le ricchezze minerali ed energetiche che questi due Paesi hanno nel loro territorio.
La nona lastrina, e non è un caso che sia l'ultima della serie di quattro lastrine di cui vi dicevo, è dedicata all'Oceano Atlantico. Soltanto quando si fa una ricognizione del resto del mondo si può arrivare ad affrontare le nostre realtà di casa con occhi leggermente diversi, altrimenti si fa più o meno la stessa rifrittura da quasi trent'anni dei temi transatlantici che conoscete a memoria.
Le due sponde sono legate da due ideogrammi cinesi identici, che significano «vuoto». Il problema attuale, infatti, è che non abbiamo una situazione di protagonismo, ma di vuoti. Ci sono il vuoto degli Stati Uniti, impegnati nel loro problema del fiscal cliff, che è il problema del debito, il problema del credito cinese e il problema degli europei, impegnati nella battaglia dell'euro. Comunque venga chiamata, crisi dell'euro o dei debiti sovrani – questo è un nome di comodo – in realtà, è un vero e proprio assalto finanziario privato da cui gli Stati nazionali e la Banca centrale europea si stanno difendendo con molta difficoltà.
Se questo fosse il solo problema potremmo almeno contare sul protagonismo di altri attori, ma non è così. La Turchia era senz'altro un attore emergente. Adesso è paralizzata dalle contraddizioni della gestione del processo di pace con il Kurdistan. È quello che ha portato agli atteggiamenti autoritari di Erdogan nella gestione, piuttosto disastrosa, della crisi di Gezi Park.Pag. 7
Questo è lo stesso problema che, un po’ più a nord, ha Putin. Dopo dodici anni di gestione direi «con mano forte», il fatto di non risolvere i problemi strutturali del suo Paese rappresenta un handicap molto serio, che viene mascherato in modo brillante dall'iniziativa diplomatica siriana. D'altronde, questo giustamente devono fare i diplomatici. Quando non si hanno altri mezzi, la diplomazia può fare questi colpi spettacolari, che, però, nascondono debolezze nei fondamentali.
Questo doppio vuoto con altri attori vicini a noi crea il problema della non gestione delle rivoluzioni arabe, o meglio della loro gestione incompleta. Il problema non è tanto fare una rivoluzione o favorirla – è un vecchio gioco che si fa dai tempi della Rivoluzione americana – ma è l'accompagno dopo. In questo caso nell'accompagno, come voi sapete, siamo particolarmente carenti.
Nella decima lastrina vediamo che cosa dobbiamo aspettarci. La foto ritrae un campo profughi in Giordania. La Giordania ha un equilibrio piuttosto delicato, con un fifty-fifty approssimativo tra beduini e palestinesi, in condizioni già non facili. Questo afflusso di profughi rischia di far scricchiolare ancora di più gli equilibri della monarchia. A breve l'entropia in cui noi siamo immersi e, quindi, anche le crisi che subiamo o che tentiamo di gestire restano. Questo vale a breve tanto in Africa, quanto nel Levante e forse anche nel Golfo, non ricordando il rischio residuo sul fronte iraniano.
A medio-lungo termine vanno, dunque, tenuti presenti esattamente i problemi che abbiamo visto nelle lastrine precedenti. Non sono problemi che verranno risolti, nonostante, per esempio, i tentativi di riforma dell'ultimo Comitato centrale del Partito comunista cinese.
A lungo termine – mi duole dirlo, ma è un compito indispensabile nel mio mestiere farlo per tempo, sperando di scongiurare alcune eventualità – se l'economia mondiale avrà un atterraggio duro, i rischi di una guerra mondiale non sono tanto peregrini. Ce lo mostra la storia di noi europei. Quando ci sono forti squilibri commerciali, quando ci sono forti competizioni economico-politiche, il rischio che alla fine uno o più attori decidano di usare la scorciatoia della guerra non è assolutamente scontato.
In merito c’è tutto il tema del Pacifico, che è più o meno formulato, più o meno rimosso, ma che, a lungo termine, non verrà risolto se non si ricompone l'economia mondiale secondo equilibri che, naturalmente, sono di compromesso e che, quindi, possono essere estremamente sgradevoli per alcuni attori abituati ad avere posizioni di vantaggio automatiche. Questo è, purtroppo, un dato che è opportuno tener presente proprio perché, solo tentando di prevenire, possiamo scongiurare situazioni che nella nostra storia mondiale sono successe con una certa regolarità.
Quali siano i fattori di incertezza li possiamo vedere nell'undicesima lastrina. Per noi italiani quelle che erano un tempo stelle polari oggi rischiano di essere stelle nova. Mi riferisco all'ONU, all'Unione europea, alla NATO, all'OSCE. Tutto l'insieme di Istituzioni su cui noi abbiamo per quasi sessant'anni incardinato le nostre politiche estere di sicurezza sta attraversando una fase di indebolimento molto forte. Le Istituzioni non sono eterne, possono decadere e possono addirittura diventare tutte irrilevanti.
In questo caso noi ci troveremmo in una situazione molto delicata, perché dobbiamo reinventare una politica che sia nazionale, ma anche capace di ricostruire equilibri collettivi. Tutti sappiamo che da soli non andiamo da nessuna parte o quasi, ma in questo momento siamo più soli. Pertanto, non possiamo più appoggiarci in automatico fuori, ma dobbiamo aiutare a ricostruire nuove reti, che sono in parte esistenti e in parte, invece, da reinterpretare. Questo è un compito, come abbiamo visto, difficile da interpretare negli ultimi vent'anni.
Il quadro dei rapporti bilaterali è ancora più fluido. Gli Stati Uniti hanno i problemi di cui vi ho già parlato, tra cui un disimpegno del Mediterraneo che non è di ieri. L'anemizzazione della Sesta Flotta viene praticamente subito dopo il Pag. 81991. Crescono le flotte nel Mar Rosso, crescono quelle nell'Indiano e nel Golfo, ma la Sesta Flotta, che prima era una strapotenza, diventa più debole.
Il Mare Mediterraneo, da un punto di vista strettamente di sicurezza, è un lago europeo, per inerzia. Dal punto di vista navale, c’è una sola marina, al di là di quelle del nord Mediterraneo, degna di qualche nome, ed è quella israeliana, ma non c’è una politica mediterranea comune. I fracassi che abbiamo visto recentemente sono ancora più ovvi, ma c’è soltanto, grazie a Dio, una cooperazione di marine attraverso decenni di esercitazioni congiunte, di NATO e di Unione europea. Il primo problema riguarda, dunque, il nostro alleato di riferimento, gli Stati Uniti.
Il secondo problema è il Regno Unito. Il Regno Unito soffre di una crisi da fine di relazione speciale. I nostri amici britannici – li conosco bene, ne ho tanti – si illudono ancora di avere questo rapporto che, in realtà, è morto di vecchiaia. Non c’è una relazione speciale tra il gigante e la bambina. Ci possono essere scambi di intelligence, ma gli scambi di intelligence non sostituiscono e non compensano l'enorme squilibrio di differenziale tra gli Stati Uniti e il Regno Unito.
La dimostrazione pratica è la guerra in Iraq. Forse qualcuno di voi si ricorderà una dichiarazione breve, ma estremamente onesta e brutale, di Rumsfeld – un politico che io rimpiango per la sua sincerità – quando, a un certo punto, gli fecero presente che c'erano anche i britannici con una divisione a Bassora. «Grazie» rispose «potevamo farne a meno». Questa è la certificazione della morte della relazione speciale e il «no» del Parlamento britannico all'intervento siriano ne è la logica conseguenza. È la prima volta che il Parlamento si accorge di un fatto che, in realtà, è strutturale da tantissimo tempo.
Con questo senso di crisi politico-psicologica c’è anche la tentazione isolazionista. È questo il gioco di Cameron. I leader europei hanno risposto in modo estremamente insoddisfacente a questo tipo di bluff. Avrebbero dovuto dire: «Fatelo adesso e andatevene, grazie», ma evidentemente non è stagione.
Tuttavia, neanche la Francia è un grande appoggio alla politica europea. La grande stagione della politica francese è praticamente terminata sia dal punto di vista della personalità, quanto da quello strutturale con Mitterrand. Dopodiché, è stato un tirare a campare più o meno brillante, ma con rendimenti decrescenti. Tra Chirac, Sarkozy e Hollande non siamo esattamente in una situazione in cui possiamo dire che la leadership francese aiuti in qualche senso. In effetti, il problema è che i francesi stanno tentando di sostituirsi in modo piuttosto evidente agli inglesi in una nuova relazione speciale, ma con tutte le ambiguità tipiche di questo ruolo. Ciò, naturalmente, ci complica la vita, perché una delle sponde che noi avevamo in modo piuttosto consolidato dal dopoguerra era Parigi.
Infine, c’è la Germania. La politica tedesca, a partire dal «no» in Iraq di Schröder, è diventata strutturalmente sempre più chiara con la Merkel. La Merkel ha un obiettivo chiaro: uscire indenne dalla battaglia dell'euro. Il «no» in Libia le è valso la tripla A, che invece i francesi hanno perso dopo l'intervento libico.
Da questo punto di vista, la sua strategia è di grande buonsenso. Il problema è che è miope. Noi italiani l'abbiamo già detto in tutti i toni dell'eptacordo, ma è miope anche per il resto dell'Europa. Questa non leadership tedesca è un fattore frenante, sia di consenso politico interno, sia – perdonatemi il termine, sono nato in Germania, mia madre era tedesca – di «mamma troni» psicologici post-seconda guerra mondiale, che andrebbero finalmente metabolizzati. Non è facile, ma, a un dato momento, una classe dirigente ha anche questo tipo di responsabilità. Comunque, per ora sono assenti.
La lastrina successiva parla proprio di euro. Quello che voi vedete è il risultato – vi posso fornire tranquillamente anche le fonti – di un'indagine fatta dall'Istituto federale tecnico svizzero e dalla Commissione Pag. 9europea sul grado di controllo azionario verticale nell'economia mondiale nelle grandi compagnie transnazionali.
Quella mostrata è la classifica dei primi cinquanta soggetti. Vi prego di notare che il cinquantesimo è un cinese, l'unico cinese e anche l'unico petroliere. Il resto è composto interamente da compagnie bancarie, finanziarie e assicurative. Quando si parla di controllo azionario, si intende proprio la capacità di piazzare i propri uomini nei Consigli d'amministrazione e, quindi, di assumere decisioni di notevole rilievo.
I nomi evidenziati in rosso sono quelli dei dieci grandi attori che monopolizzano il 95 per cento del mercato mondiale dei derivati.
Se voi tenete presente questi dieci, più tre agenzie di rating mondiali con gli stessi tipi di presenza sul mercato e quattro agenzie di audit mondiali che hanno esattamente le stesse percentuali di controllo sul mercato dell’audit finanziario, capite bene che l'espressione «libero mercato» appartiene al passato.
Al passato, ahimè, appartengono anche tutte le equazioni tra libero mercato e sistema politico, perché le due questioni sono collegate. Noi italiani, grazie a Dio, lo sappiamo, perché siamo più avanti rispetto agli altri Paesi in materia di sperimentazione politica, ma questo è un dato strategico che poi tocca anche le politiche di sicurezza, come vedremo molto rapidamente.
Quella che possiamo vedere nella tredicesima lastrina è, in realtà, una guerra finanziaria mondiale, la prima della nostra storia di piccolo pianeta perduto nel nulla. Gli esiti non sono affatto scontati, perché il fronte europeo è quello più visibile oggi, ma quello del Pacifico si sta scaldando con quelle che, infatti, i brasiliani chiamano «guerre valutarie». C’è un problema, come voi sapete, di collegamento tra le svalutazioni del dollaro, quelle del renminbi, la moneta cinese, e le situazioni di tutti gli altri Paesi esportatori, i quali non sanno bene come esportare, quando la loro moneta cresce.
Questo per noi europei è assolutamente chiaro. È un po’ meno chiaro da altre parti, ma questo tipo di guerra sta ridefinendo in profondità alcuni assetti tanto nazionali, quanto internazionali e non è scontato chi vincerà, perché questa non è più una guerra condotta dagli Stati, ma dai privati.
Quando si è parlato del rapporto tra economia e politica, e in questo Paese se ne è parlato tantissimo, noi abbiamo visto su grande scala un fenomeno a cui non eravamo francamente abituati. Se aggiungete a questo tipo di situazione quello che si chiama high-frequency trading, la totale automatizzazione dei traffici di azioni e quella che viene chiamata la finanza ombra, lo scambio di pacchetti azionari o comunque flussi di denaro totalmente fuori dalle CONSOB mondiali, avrete un'idea del quadro di questa guerra, che si sta combattendo intorno ai millesimi di secondo.
In realtà, sono stati i militari ad aver creato queste situazioni. Il Tornado vola in automatico, il Vulcan spara in automatico. Ebbene, adesso ci sono gli scambi azionari in automatico. Se qualcuno pensa a Terminator e a Skynet, effettivamente ce l'abbiamo, ed è questo che vedete.
La lastrina seguente riguarda – permettetemi di dirvelo – una questione veramente solo italiana. In tutto il mondo non c’è una carta strategica della geomafiosità. Non esiste. Non ce l'ha l'FBI, non ce l'ha SVR russo, non ce l'ha nessuno. L'abbiamo noi italiani. È una carta privata, peraltro, non è di Stato. È la prima volta che vengono correlate le presenze delle grandi mafie mondiali, i rombi che vedete sui Paesi, insieme ai fattori complessivi di ascesa o di declino di un Paese – per esempio, il Venezuela è in declino, come la Russia, ma il Brasile è in ascesa – alle localizzazioni delle principali produzioni di droghe tanto vegetali, quanto sintetiche, ma, questione più interessante, ai primi dieci Paesi riciclatori del mondo.
Trovate questo dato sul volume Nomos & Khaos 2014. È molto interessante, perché, a questo punto, voi capite che il riciclaggio di denaro, che, in realtà, è la prima industria mafiosa mondiale, rischia di essere il sostituto di perdite di competitività Pag. 10economica sull'economia legale. Non so se questo sia l'elogio del sommerso, ma è un problema di policy estremamente importante, quando noi andiamo a intervenire in altre realtà internazionali o abbiamo alleati internazionali.
L'Italia, peraltro, è uno dei grandi Paesi riciclatori e, quindi, questo è un problema che ci tocca direttamente. I cerchi sugli oceani, nonché su parte del continente euroasiatico, sono i mercati dominati da un determinato tipo di droga. Nell'Atlantico viaggia la cocaina, la parte euroasiatica è la via della seta dell'oppio, mentre il mercato del Pacifico, che prima era piuttosto incerto, è un mercato ormai poliproduzione e policonsumo. In questo i messicani hanno un ruolo fondamentale.
Nel Messico è in corso da sei anni una guerra mondiale mafiosa. Quando ci sono dai 60 ai 70.000 morti, non è più un fenomeno di «Messico e nuvole». È un fenomeno che, peraltro, ci tocca direttamente, perché gli ’ndranghetisti sono collegati con le mafie messicane, come prima erano collegati con i colombiani. I messicani stanno sbarcando nella penisola iberica. Stiamo parlando di spazio Schengen che viene invaso da questa gente. Questi personaggi hanno grandi capacità di business transnazionali e globali e il loro prossimo passo sarà l'Australia. Hanno già provato a entrarci, hanno fallito, ma ci riproveranno.
Tutto ciò ha alcune implicazioni di sicurezza che spesso sfuggono, ma che, invece, sono essenziali. Se vengono importati anche in Europa i metodi di lotta messicani, lo ripeto, i corleonesi saranno da archiviare sotto la categoria «bravi ragazzi». I messicani sono estremamente più feroci. Vi prego di fare un giro sui siti di notizie messicani. Capirete che razza di avversari possiamo avere, anzi cominciamo già ad avere in casa.
Il Messico non è l'unico posto dove si fanno guerre di mafia. La Colombia è uno di questi, come l'Afghanistan, il Pakistan e l'Iran. Tutte queste guerre di mafia, in realtà, registrano la perdita da parte dello Stato nazionale che cerca di vincerle. Questo è un dato estremamente deprimente. Non importa il metodo usato o il mancato rispetto dei diritti umani, ma le realtà mafiose evidentemente non si combattono in quel modo.
Naturalmente le opzioni sono tante, ma noi siamo presenti in Afghanistan e sappiamo molto bene qual è la situazione. Gli inglesi sanno qual è l'implicazione, eppure la produzione di oppio in Afghanistan, nonostante sia più localizzata, è cresciuta. Questo è un dato che poi si riflette immediatamente su Londra o su Roma.
Passo adesso a trattare dei problemi dei programmi, un'altra delle tematiche che mi è stato chiesto di illustrarvi brevemente. Con il titolo «Logica europea e programmi» l'immagine allude a una questione che adesso vedremo un po’ più nel dettaglio. Useremo un case study come Forza NEC, visto che mi è stato chiesto di trattare questo tema.
L'origine di Forza NEC è molto lontana. I programmi di armamento, come voi capite bene già dalla vostra esperienza, non si comprendono se non facendo una ricostruzione del delitto a venti o trent'anni prima. Infatti, questo programma nasce dal CATRIN. Stiamo parlando delle leggi speciali interforze, in particolare della n. 456 del 1984, chiamate anche volgarmente «leggi promozionali», per cui, in mancanza di fondi regolari, alcuni programmi speciali, come l’AMX, il CATRIN e, se non vado errato, l'elicottero EH 101, furono finanziati con fondi addizionali.
Il CATRIN era un sistema di trasmissione di informazioni adatto alla battaglia di corpo d'armata sulla soglia di Gorizia. Eravamo nel 1984 e la Guerra Fredda non era ancora finita, anzi, sembrava essere eterna. Per un decennio questo programma va avanti, ma poi conosce una battuta d'arresto organizzativa. Mentre restano alcuni moduli come esperienza, il programma è stato terminato, perché è arrivato lungo rispetto alle esigenze che stavano rapidamente mutando. Nel 1994 il mondo era veramente molto cambiato.
Successivamente, l'Esercito italiano riparte con due altri programmi che, invece, restano e sono essenziali, il SIACCON e il Pag. 11SICCONA. Il primo è un sistema automatizzato di comando e controllo dei primi anni Novanta, l'altro è un sistema per le piattaforme da combattimento terrestre. Stiamo parlando di blindati ruotati, cingolati, carri armati.
Se non si possiede questo tipo di piattaforma, non si può sapere con ragionevole certezza dove siano le piattaforme e, quindi, come poterle dirigere. È un problema vecchissimo. Tutte le guerre, a cominciare da quelle dei nostri ormai nonni della seconda guerra mondiale, avevano casi di unità che venivano perse. «Dov’è il terzo reggimento ?» si poteva chiedere. «Non lo so, abbiamo perso i collegamenti». Questa è la risposta tecnologica molti decenni dopo.
Nel novembre del 2003 nove nazioni NATO decidono di realizzare uno studio di fattibilità congiunto su quella che viene chiamata NATO Network Enabled Capability. Come voi avete capito per la vostra esperienza, il cambio di parole sottolinea un cambio di sostanza. Se guardiamo la diciannovesima lastrina, capiremo perché.
Gli Stati Uniti, che, da questo punto di vista, sono chiaramente all'avanguardia, avevano provato a lanciare il concetto della Network-centric Warfare, cioè della guerra condotta e incentrata intorno all'uso della rete di comunicazioni ed eventualmente di internet, comunque della capacità di messa in rete automatica e quasi istantanea delle informazioni necessarie per il campo di battaglia, dal singolo fante fino al generale a cinque stelle. Questo passaggio rapido è fallito perché è estremamente complesso, perfino per gli americani e, quindi, si è passati – questa è stata una creazione linguistica dei britannici – alla Network Enabled Capability. Non era più tutto incentrato sulla rete, ma sulla capacità di sfruttare la rete. C’è una diluizione del concetto, che, però, sottende il tentativo di raggiungere le stesse capacità.
Nel 2004 l'Esercito italiano continua a lavorare sul programma SIACCON. Sembrava che dovesse essere completato – credo che fosse nella fase di ricerca nel 2004 – ma nel 2011 questo programma vede ancora continuare il suo sviluppo. È comunque un programma esistente, non più una capacità teorica. È una metodica che viene già impiegata.
L'immagine nella lastrina in commento riassume molto bene i problemi di tutte queste attività di digitalizzazione del campo di battaglia. La parte emersa dell’iceberg è l'efficacia della missione. Tutto questo insieme di hardware, software e comunicazioni ha un solo scopo: avere una missione efficace. Se volete, lo traduco in un modo ancora più esplicito, ma dovrebbe essere chiaro.
Tutto quello che sta sotto è oggetto di un lavoro estremamente complesso di ingegneri, comitati, sperimentatori e industriali per far sì che questo programma si produca veramente, ma, come voi sapete utilizzando un normale programma di Office, una questione, tutto sommato, semplice, anche i programmi si piantano. Immaginatevi questo tipo di coordinamento: anche le reti cellulari si piantano e anche internet non funziona. Questo tipo di assunto ci accompagnerà per tutta la storia di questi programmi, ma è immanente alla loro complessità.
Io ho letto ovviamente con molta attenzione la documentazione che vi è stata passata per le schede di valutazione periodica dei programmi. Le date indicate nella lastrina numero 20 sono quelle che vi sono già state comunicate. Le spiegazioni sulle brigate e su quelli che vengono chiamati enabler vi arriveranno tra poco, perché andremo a vedere le scadenze un po’ più a lungo termine.
L'idea è che alla fine Forza NEC dovrebbe digitalizzare tre brigate medie. Nelle note della lastrina è riportata una definizione precisa di che cos’è una brigata media. La definizione colloquiale è quella di una brigata capace di fare quasi tutto, tranne la prossima guerra mondiale – si tratta di una definizione molto empirica – più una brigata da sbarco, che è la combinazione del reggimento San Marco e del reggimento Serenissima, più l'equivalente di una brigata nei supporti.Pag. 12
Questa magica parolina inglese, enabler, sembra un po’ il latinorum di Renzo, ma si riferisce all'aviazione leggera dell'Esercito, alla capacità di ricognizione tattica e di guerra elettronica, alla difesa antiaerea a breve raggio, alla difesa chimica, batteriologica, nucleare e radiologica e alle telecomunicazioni. Sono quei supporti che rendono abili, ossia permettono di fare la missione. Non sono supporti opzionali perché fanno la differenza tra il successo e il fallimento di una missione.
Nel 2025 bisognerebbe avere una forza integrata terrestre basata su brigate integrate terrestri digitalizzate, con una digitalizzazione che va dal singolo fante fino al comando di brigata. Non è banale. È come avere la rete cellulare per tutti noi, ma in condizioni molto più brutali. Nel 2031 l'Esercito italiano dovrebbe essere interamente digitalizzato. Come voi sapete, l'Esercito italiano sta ormai riducendo sempre più le sue brigate e ne ha due pesanti, capaci, in caso di prossima guerra mondiale, di essere schierate per davvero, quattro medie e cinque leggere.
Quando si parla di leggero, voi capite bene che si parla, in realtà, di unità molto polivalenti e capaci di essere schierate ovunque, dagli alpini ai paracadutisti, alla fanteria da sbarco. Leggero significa solo che non è corazzato, ma non significa affatto che sia trascurabile.
Nella lastrina numero 22 vediamo che cosa è successo in Europa. Come si direbbe con la RAI, è successo di tutto e di più. I tedeschi hanno il loro programma, l’Infanterist der Zukunft, ossia Gladius. I francesi hanno RITA e FELIN. Gli inglesi hanno FIST, J-TAS ed ELSA. Si passa da immagini molto pugnaci ad altre più apparentemente femminili.
In realtà, in un ventennio, per inerzia, noi, come europei, abbiamo mancato un'occasione. Tutti questi programmi, infatti, fanno esattamente la stessa cosa. Certo, ognuno se la cucina in un modo diverso. Vi diranno che le differenze sono importantissime. È vero, ma il requisito è lo stesso. I fanti che devono andare poi a litigare con il talebano di turno sono sempre quelli. Non si capisce, quindi, perché non debbano avere reti largamente compatibili.
La risposta dovrebbe essere che a questo pensa la NATO Network Enabled Capability. È quella che pone la coerenza degli standard e dei protocolli internet. Ci sono tante cose diverse, ma i protocolli sono comuni. Magari. In questo caso è più facile che funzioni il civile che il militare.
Questa è una delle domande che ci porremo alla fine. Adesso, però, una volta constatata, di nuovo, la mancata collaborazione su un tema tutto sommato alla portata di qualunque grande Paese, inclusa l'Italia, consideriamo quasi più di mezzo secolo di cooperazione europea in materia di armamenti. Lo sguardo storico permette, infatti, di avere profondità di campo.
Negli anni Cinquanta l'industria mondiale degli armamenti, inclusa quella sovietica, è stata fertilizzata dalla tecnologia tedesca. La tecnologia del Terzo Reich sconfitto è andata a irrigare tutti i sistemi industriali, da quello americano a quello moscovita, tranne quello italiano, purtroppo, perché, come voi sapete, noi ci siamo trovati in una situazione peculiare.
È da questo momento che nascono le vie separate francesi e britanniche in materia di industria di armamenti. In realtà, nascono da prima, le industrie di armamenti francesi e britanniche hanno tradizioni praticamente dall'Ottocento, ma sicuramente dalla prima guerra mondiale nasce la differenza di concezioni, calibri e armamenti. Questa via separata viene riconfermata nonostante i francesi e i britannici abbiano perso la seconda guerra mondiale. Figurano tra i vincitori non pro forma, ma la verità è che l'hanno vinta soltanto i sovietici e gli americani.
Questo si vede anche nello sviluppo delle cooperazioni. Molte cooperazioni negli anni Sessanta e Settanta hanno successo perché sono produzioni su licenza. Tutti noi ci ricordiamo ancora l’F-104 Starfighter, che noi abbiamo mantenuto con brillanti operazioni di modernariato, e soprattutto il nostro italianissimo FIAT G-91, poi diventato Alenia. Si tratta di un Pag. 13programma NATO, che aveva vinto un concorso NATO, ma che poi non è stato adottato da tutti i Paesi NATO, a cominciare dagli americani. I problemi della capacità di cooperare e standardizzare degli armamenti anche in caso di procedure consolidate tra alleati sono assai vecchi.
Dopo questi due decenni si può vedere il riconsolidamento delle industrie dei Paesi che più o meno avevano perso la seconda guerra mondiale, cioè l'Italia, la Germania e poi la Spagna, dopo la morte di Franco. Fino a Franco l'industria spagnola era, infatti, assolutamente tributaria di acquisti e di licenze, ma nulla di più.
Il primo passaggio di crescita tecnologica viene simboleggiato dal Tornado, ma non è soltanto il Tornado. Il Tornado, però, ha alcuni apporti critici di tecnologia americana. Il radar altimetro era Texas Instruments ed è il cuore di questo sistema. Il salto quasi paneuropeo avviene negli anni Novanta con il Typhoon, ma sullo sfondo di un patchwork, ossia di una sorta di tela di Arlecchino molto incoerente.
Che cosa interrompe la collaborazione europea in modo significativo ? Innanzitutto ci sono due mannaie finanziarie. Una è la fine della Guerra fredda, Deo gratias. Nel 1991 la bonanza della spesa automatica perché si era in guerra cade e, infatti, mentre il Tornado, che è costato tantissimo, passa senza problemi, l’EFA, oggi Typhoon, passa soltanto perché, dopo litigi furibondi, si decide di tagliare del 30 per cento il costo. Questo è un tipo di precedente che vi prego di tenere a mente quando si parla di F-35. Sono i denari il nerbo della guerra. Quando ci sono problemi finanziari, prima o poi ci sono problemi di approvvigionamento. L’EFA ce la fa per un pelo a passare.
La seconda mannaia finanziaria è la crisi che inizia nel 2006 con i subprime e che poi si estende a tutto il mondo, ma che è, in realtà, una crisi di eccessiva produzione di derivati. È in questo contesto che avviene la virata di una serie di Paesi europei verso l’F-35, una virata politica e tecnologica ma soprattutto, vorrei sottolinearlo, politica. Il senso vero di quel programma, che è stato deciso quando la crisi finanziaria non c'era, era la capacità di rinsaldare un legame transatlantico.
Si tratta di una scelta politica assolutamente comprensibile, ma che avviene, ancora una volta, in mezzo a persistenti resistenze nazionali e a tagli lineari a livello nazionale, un altro grande problema che stiamo vivendo. Per questo motivo la spesa militare europea, che pure in aggregato non è affatto disprezzabile, ha costi e attriti – noi a Roma li chiameremmo «sfridi» – esagerati. Non è sostenibile in questo modo.
Passo ora alla lastrina intitolata «Facciamoci alcune domande». Parliamo ovviamente di Forza NEC. Una prima questione che ho notato tra le fonti ufficiali del 2009 e le altre del 2012, è una discrepanza di tempi. Forse è il caso di capire a che cosa sia dovuta: alla ricalibrazione del programma, al cambiamento degli obiettivi ? Un programma tanto importante merita di avere l'attenzione giusta.
La seconda domanda assomiglia a quella della massaia: che effetto hanno poi tutte queste misure ? È possibile quantificarlo ? Ci sono simulazioni che lo possono indicare ?
Perché ci poniamo questa domanda ? Perché, da un punto di vista intuitivo, è chiaro che, se io ho una messa in rete, una condivisione di informazioni del campo di battaglia, tutto è più facile. Questo è il ragionamento che ognuno di noi fa. Tuttavia, forse è bene sostanziarlo. Un militare sa benissimo come farlo. In un dato tipo di spazio di battaglia le probabilità di eliminare l'avversario salgono da un x per cento a un y per cento.
Ci sono alcuni studi ? È bene saperlo. Un conto è la capacità di acquisizioni tecnologiche in modo da irrobustire il nostro retroterra tecnologico nazionale – nulla quaestio – un altro è la traduzione sul campo di battaglia. Infatti, tutto questo alla fine mi deve servire quando un cecchino talebano mi spara e io non lo vedo. A questo serve, altrimenti non serve.Pag. 14
Questa è una domanda, dunque, assolutamente pertinente in un Paese come l'Italia, perché noi italiani in campo civile abbiamo fatto la rivoluzione dei telefonini. Prima dell'Italia il telefonino era una faccenda da top manager o da decisore politico. Sono state le donne italiane che l'hanno trasformato in un fatto democratico. Perché ? Perché avevano bisogno di una funzione di comando e controllo per gestire una famiglia dispersa nel tempo e nello spazio. Questo è il vero motivo, non perché abbiamo le amanti, non per le cabine telefoniche, non per lo status symbol e non perché siamo chiacchieroni. Questo Paese, nella vita civile, ha già la mentalità delle comunicazioni in rete. Pertanto, chiedersi come funziona Forza NEC non è una questione peregrina, è proprio una questione della nostra cultura tecnologica materiale quotidiana e mi pare che sia utile.
L'altra domanda è sempre di buonsenso e in merito attendiamo le risposte, immagino, da parte del Governo. Qual è la reale situazione dell'interconnettività con i sistemi dei partner NATO e UE ? Io ho Forza NEC. Quanto dialoga con il RITA francese ? Si sta lavorando, funziona, abbiamo alcune esperienze ? È bene saperlo. Magari si risponderà: «Sì, fino a un certo punto». È utile saperlo. Quanto costa arrivare oltre quel certo punto ? Anche questa è una domanda del tutto logica.
L'ultima è una domanda più di completezza di informazione e consiste nel capire se per noi europei, che stiamo dentro la NATO, l'esperienza israeliana del Digital Army Program possa offrire alcune suggestioni. Parlo giustamente di suggestioni e non di altro, perché questi programmi sono ormai incardinati. Gli israeliani ce l'hanno già, sono in genere un Paese costretto a sperimentare in condizioni reali quello che usa. Forse è interessante capire se possiamo ancora «rubare» qualche pezzo di esperienza.
A questo punto andiamo verso la fine di questa mia esposizione, che spero non sia stata pesante, per puntare al bersaglio più vicino: il vertice UE. Non vi riassumerò i vari punti perché li conoscete già abbastanza. Il problema è che questo papiro, di cui si spera vivamente venga affidata poi la maggiore elaborazione alla presidenza italiana – credo che sia un'ottima occasione, non solo per noi italiani, ma anche per l'Europa – non ha una visione. È pieno di tante questioni, ma sono tutte la continuazione della puntata precedente. Francamente, di questo passo, i progressi saranno pochissimi.
Io sono stato personalmente impegnato nei negoziati sull'EDA (European Defence Agency) quando Di Paola era Direttore nazionale degli armamenti, e vi posso assicurare che il draft italiano voleva un'agenzia forte. Gli unici che l'hanno diluito non sono i cattivi americani, ma i nostri cari amici tedeschi, francesi e britannici. Questi sono gli ostacoli principali all'integrazione europea tout-court. Noi europei siamo masochisti. Ci riusciamo benissimo. Se andiamo avanti con questi passi piccolini di realismo, combiniamo poco. L'unico accenno che forse è interessante di questo documento sono le piccole e medie imprese, ma anche su queste ci sarebbe molto da discutere.
Passo ora alla lastrina intitolata «quali proposte ?». La prima cosa da fare è una mappatura nazionale dei settori veramente essenziali, ossia quelli che hanno un potenziale futuro e quelli che è meglio vendere. Certamente si possono creare comitati che durano tre anni, ma tra gli specialisti del settore questa faccenda si risolve in cinque minuti. Non siamo gli Stati Uniti. Sono pochi i settori in cui veramente la nostra industria degli armamenti ha un futuro. Per altri non è tanto brillante.
La seconda necessità – la cito anche perché noi stiamo negoziando il Trattato transatlantico di libero commercio – è avere una politica europea di protezione della proprietà intellettuale e delle regole di ingaggio societario. Noi abbiamo un grande partner, che sono gli Stati Uniti, ma io credo che sia il momento di chiudere una stagione di two-way street in cui, da un lato, c’è l'autostrada e, dall'altro, la stradina scozzese monocorsia. Questo significa avere almeno due corsie decenti Pag. 15per noi europei. Si può fare e gli americani lo capiscono benissimo, perché hanno un lato business estremamente pratico, ma, se non cominciamo, passatemi il termine, a «quagliare» tra noi europei, non ci arriveremo mai.
Inoltre, in termini di visione strategica, il prossimo Strategy Paper dell'Unione europea dovrebbe lasciare una vecchia visione un po’ burocratica di rischi e minacce e partire, invece, da quello che deve essere il ruolo che l'Europa vuole svolgere alle porte di casa propria. Non ci vuole chissà quale cesariana ambizione di conquista mondiale.
Anche su questo tra specialisti non ci vuole molto. È giusto che il dibattito politico sia ampio e trasparente, ma l'Europa serve o non serve ? Che vuole fare ? Non aggiungo più «da grande», perché è già vecchia.
«Defence matters» è lo slogan che vedrete uscire da questo vertice. La difesa conta. Benissimo. Se la difesa conta, allora bisogna uscire dalle logiche delle spending review. Le spending review sono un problema non solo per la difesa, ma anche per la spesa pubblica tout-court, la quale, francamente, è l'unica spina dorsale della strutturazione dei Paesi atlantici. Anche i nostri amici americani sanno benissimo che il Pentagono è il più grosso datore di lavoro del Paese.
Da questo punto di vista, credo che bisogna uscire da alcuni vecchi dibattiti che di liberistico non hanno nulla e che, invece, depauperano la competitività nazionale ed europea. Senza una buona spesa pubblica, che non significa una spesa ridotta al lumicino, non c’è competitività. C’è, invece, la conquista di Paesi che hanno perfettamente chiaro qual è il senso della nervatura statale dell'Europa con un gioco di occupazione di piccole quote societarie quanto basta per paralizzarci.
Come ultima questione, io, come voi, credo, ho sentito tante volte ancora ai tempi della Guerra Fredda dire che standardizzare gli armamenti europei non va bene, oppure che è meglio farlo, perché in questo modo vi è una differenza di armamenti che confronta i sovietici e la loro pianificazione d'attacco diventa più difficile.
Diciamocelo pure: sono amabili fole. Bisogna cominciare a standardizzare e la standardizzazione che vi propongo è quella che si fa dal basso. Poiché noi spediamo in giro per il mondo i fanti, è bene che alcuni equipaggiamenti, quelli proprio stupidi, siano unici. Mi sfugge il motivo per cui dobbiamo avere una molteplicità di fucili d'assalto, di granate, di elmetti e di giubbotti antiproiettile. Non c’è più nessuna buona ragione. Aggiungo che l'industria italiana da questo punto di vista ha buone ragioni da vendere. Non siamo nemmeno sulla difensiva.
Questo, naturalmente, vale anche per gli equipaggiamenti più pesanti, ma da qualche parte bisogna cominciare. Se qualcuno si oppone e mi chiede perché standardizzare, adducendo particolari esigenze, gli faccio notare che due fucili d'assalto simbolo della standardizzazione come l’M16 americano e il kalashnikov hanno, ahimè, spopolato nel mondo – è il caso di dirlo – senza grandi problemi. Non vedo perché noi europei dobbiamo continuare su questa strada assolutamente suicida per l'efficacia dei nostri soldati e delle nostre finanze.
L'ultima lastrina è dedicata all'Alleanza atlantica. Come direttore della NATO Defence College Foundation, ritengo che occorra avere la capacità di pensare oltre il vecchio schema Nord Atlantico. L'Alleanza ha fatto tutto il possibile per adattarsi, dalla fine della Guerra fredda a oggi. Io credo che meriti, se noi pensiamo che, da un punto di vista non solo ideale, ma anche pratico, questa organizzazione sia ancora utile e abbia un futuro, un ripensamento. Questo, però, non può interessare l'intero oceano.
Come lo facciamo ? Con alcune partnership e anche rivedendo il Trattato. Lo so, tutti i diplomatici, davanti a questo tipo di proposte, si fanno rizzare i capelli, ma i trattati sono figli dei tempi. Questo è stato stipulato nel 1949. Noi italiani abbiamo adeguato la nostra Costituzione a Pag. 16rotta di collo. A me pare che sia più difficile adeguare una Costituzione che un trattato internazionale.
Questo significa stringere anche accordi economici trasparenti e sostenibili. Io avrei un grosso problema se il Trattato di libero commercio transatlantico creasse zone differenziate con il Trattato di libero commercio pacifico. Avrei problemi come alleato e come libertà di business. Avrei un gran numero di problemi molto concreti e anche molto politici.
Vi ringrazio per la pazienza e sono a vostra disposizione.
PRESIDENTE. Siamo noi che La ringraziamo, professore, per la Sua relazione e anche per la presentazione che ci ha illustrato e di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico dell'audizione odierna (vedi allegato). Do, ora, la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
ROSA MARIA VILLECCO CALIPARI. Ringrazio moltissimo il professor Politi. Lo ringrazio perché, ogni volta che partecipo a una sua audizione, mi chiedo sempre perché questa non sia la prima dell'indagine conoscitiva. Il quadro complessivo e completo che ci traccia ci aiuterebbe infatti prima a inquadrare i problemi e poi a trovare le soluzioni. Lo ringrazio, quindi, come sempre.
Le mie domande sono poche. Vorrei svolgere piuttosto qualche riflessione. Io credo che inserire l'indagine conoscitiva che questa Commissione sta conducendo in relazione ai sistemi d'arma in un quadro geopolitico di strategie e di cambi di forze a livello mondiale sia opportuno. Peraltro, l'affermazione che Lei ha fatto sul doppio vuoto che esiste in questo momento è anche una forte percezione che tutti noi abbiamo. C’è, però, anche una forte sensazione che a questo sia i governi dei Paesi occidentali, sia le organizzazioni internazionali – Lei ha fatto cenno ad alcune tra le maggiori organizzazioni di cui noi facciamo parte ai sensi del secondo comma dell'articolo 11 della Costituzione – si stiano adeguando con molta lentezza. Sembra che ci sia un aspetto culturale di resistenza sulle vecchie alleanze e non si capisca che il mondo stia cambiando e che partner importanti si stiano affacciando sulla scena non solo politica, ma anche economica mondiale. Forse vanno rivisitate le nostre stesse alleanze.
Questo significa definire anche che tipo di potenza può essere la nostra, o meglio che tipo di strategia questo Paese possa offrire nella sua alleanza sia con l'Unione europea, sia, eventualmente, con i suoi alleati transatlantici. Se io devo definire quali siano i sistemi d'arma che le mie Forze armate devono avere, devo capire prima chi voglio essere. Per tale ragione lo scenario che Lei ha disegnato mi porta a dire che l'Italia in questo quadro può avere un ruolo. È bellissima la sua lastrina sul Cindoterraneo, che mi ricorda tempi passati.
Arrivo, dunque, alla domanda: in questa logica Lei vede una possibilità per l'Italia di svolgere un ruolo da potenza media all'interno del Mediterraneo in relazione all'area prospiciente, ossia a quell'area che ha disegnato nella lastrina ?
Quanto a Forza NEC, su cui Lei ci ha posto una serie di domande, è uno dei programmi più costosi. Dopo Forza NEC c’è solo l’F-35 sul piano dell'impegno di risorse. In questa indagine conoscitiva a noi serve capire effettivamente se alcuni programmi, in termini complessivi, possano essere utili a nostro Paese, oppure se servano interventi magari di minore entità dal punto di vista dell'impegno economico, ma di maggiore efficacia rispetto alle forze che mettiamo in campo.
Questa seconda domanda è strettamente connessa alla prima. Vorrei sapere se questo è un Paese di forza strategica media e, quindi, se Forza NEC è un impegno che possiamo assumere o meno, in relazione anche alla prima risposta.
Lei ha affermato che la spesa europea non è disprezzabile nel suo complesso, ma qual è il complesso della spesa europea ? Confesso che non lo conosco, perché si parla sempre di una spesa in armamenti, Pag. 17e comunque nella difesa, bassa rispetto a quanto investito da Paesi come gli Stati Uniti, ma non ne conosco il complesso. Conosco soltanto le spese dei diversi Paesi nazionali.
MASSIMO ARTINI. Grazie, professore, per la Sua esposizione veramente robusta.
Io Le volevo chiedere di esplicitare una parte che era in una delle lastrine, ma che poi non ha trattato. Vi è stata posta l'attenzione ora. Mi riferisco alla parte di sicurezza informatica. Questa problematica, guardando in una visione a lungo termine, è per me decisamente critica. Volevo innanzitutto avere un'idea di quali sono, secondo Lei, i rischi reali a lungo termine, non solo nella parte – penso al Datagate – del controllo dell'informazione, ma anche in quella proprio della capacità di azzerare le potenzialità di un Paese solamente dal punto di vista informatico, neanche da un punto di vista elettronico.
La seconda domanda è più una curiosità e riguarda le nostre velleità nei confronti di Gibuti e la costruzione di un avamposto italiano in tale Paese. Dato che il Ministero della difesa per ora è un po’ restio a fornirci informazioni, Le chiedo se ci offre una valutazione dettagliata.
Grazie.
DOMENICO ROSSI. Quando Lei ha parlato di rischio di guerra mondiale, o quando parlava del perché, io ho sentito molta assonanza con Von Clausewitz.
A parte questo, c’è una lastrina che mi incuriosisce di più e che dice: «Un punto d'arrivo: l'area di responsabilità primaria». Io non so se sarebbe più giusto dire «un punto di partenza», anziché «un punto di arrivo».
Le pongo questa domanda perché onestamente, quando Lei è arrivato a questa lastrina, pensavo a uno sviluppo della Sua esposizione che per alcuni versi potesse spiegarcela meglio. Se questa è l'area di responsabilità primaria nell'ambito di una sicurezza europea, se noi facessimo una sommatoria di tutto quello che hanno oggi, in termini di difesa europea, le nazioni che contribuiscono, potremmo affermare di avere uno strumento ridondante in termini complessivi ? Possiamo affermare di avere uno strumento ridondante in termini parziali, settoriali, ovvero di forze armate ? Io penso che questo probabilmente potrebbe aiutarci a capire anche, tenuto conto della collocazione italiana nel contesto della sicurezza europea, gli orientamenti che dovremmo seguire.
Secondo me, questa differenza fra punto di arrivo e punto di partenza è molto importante. Anche in vista del Consiglio europeo e di quello che seguirà dopo prendere questa lastrina come base di qualsiasi tipo di ragionamento, a mio avviso, è assolutamente importante. Le volevo chiedere, dunque, se la possiamo attribuire al professor Politi della NATO Defense College Foundation, oppure se si tratta di una lastrina già diffusa in ambito europeo.
LUCA FRUSONE. Sarò velocissimo. Lei ha parlato di tripla A e di guerra in Libia. Tenendo conto di ciò che Lei ha detto un paio di anni fa con riferimento ad alcune società finanziarie che volevano far fallire l'euro, considerando lo scarso apporto degli Stati Uniti nella guerra in Libia e l'attuale situazione in tale Paese che sta degenerando non essendo stato risolto nulla, nonché il fatto che il rating degli europei che hanno partecipato a quella missione ha subìto alcune conseguenze, Le vorrei porre la seguente domanda.
Se qualcuno iniziasse a pensare, di fronte a tutto questo e anche allo stop sull'intervento in Siria, come se qualcosa fosse stato fiutato, che alcuni interventi dettati dalle organizzazioni sovranazionali vengono usati per smuovere un po’ l'economia bellica, ma anche come esca per chi ha mire espansionistiche, ma, che, data l'avversità dei mercati, non può permettersi di esprimerle, sbaglierebbe ? Forse per scarsa lungimiranza di chi deve decidere vengono prese queste decisioni, che poi finiscono, in un certo senso, in trappole mangiasoldi.
Arriviamo anche, per esempio, alla questione dell'Afghanistan. Si dice sempre che a pensar male si fa peccato, ma, a Pag. 18questo punto, anche il non cessare mai di questa missione in Afghanistan, nonostante i nomi che vengono attribuiti ai vari interventi, questo protrarsi assurdo con costi esagerati, possono essere una manovra per destabilizzare l'economia di alcuni Paesi e, quindi, favorire un'economia speculativa ?
Grazie.
PRESIDENTE. Come ha visto, professore, le domande dei colleghi hanno manifestato l'interesse suscitato dalla Sua relazione, andando a volte anche un po’ oltre l'oggetto della nostra indagine conoscitiva. L'inviterei comunque a rispondere.
ALESSANDRO POLITI, Direttore della NATO Defense College Foundation. Grazie. Cercherò di essere nei tempi. Comincio dall'ultima domanda, perché è un invito a nozze, ma anche perché voglio cercare di essere rapido.
Noi abbiamo una storia di interventi, come italiani e come europei, estremamente difficile, contorta e anche dolorosa. Si tratta di una storia di interventi e di non interventi. Sono rimasti indimenticabili nella mia memoria personale di analista, ma anche proprio di persona coinvolta in modo più o meno tangenziale nei processi decisionali, gli interventi nella ex-Jugoslavia e in Ruanda.
In Jugoslavia siamo stati a perdere quattro preziosi anni facendoci prendere per il naso da tre condottieri etnici, tutti i padri assai rispettati in ciascuna delle piccole patrie post-jugoslave, quando, in realtà, se fossimo intervenuti in modo decisivo, avremmo forse fermato parecchi massacri.
Sicuramente, però, il caso del Ruanda grida vendetta e chiede giustizia. In quel contesto noi saremmo potuti intervenire, avremmo potuto fermare il massacro. Purtroppo, però, non si sarebbe fermato con una trattativa. Sono molto preoccupato quando lo devo dire, ma temo che fosse un dato di fatto. Questo non si è fatto e, ovviamente, tale decisione ha avuto chiare conseguenze politiche su tutto lo scacchiere dei laghi centrali del Congo, con interessi politici ed economici completamente tracciabili.
Ogni volta che si interviene non lo si fa mai per una ragione singola. Senz'altro intervenire è costoso, ma non credo che gli interventi siano il modo migliore per destabilizzare l'economia di un Paese concorrente. Si tratta di un'immobilizzazione di energie e di capitali per un fine politico, che poi ha conseguenze economiche. In realtà, è molto più semplice agire su altre leve, quelle dei cosiddetti mercati, per creare problemi. Questo sistema funziona felicemente dagli anni Ottanta. Alcune situazioni che noi stiamo sperimentando in Europa sono già state sperimentate nel Sud-Est asiatico dalla crisi delle Piccole Tigri, inclusi i disarmi per tagli lineari. Credo che il quadro sia più sfumato, da questo punto di vista.
Passo alla questione dell'area di responsabilità. Magari circolasse già in ambito UE. Io credo che, nell'ambito dell'Unione europea, questo tipo di visione sia considerato molto avveniristico. In realtà, se il realismo mi fa dire che è un punto di arrivo, la necessità di immaginare una strategia europea mi permette di usarlo come punto di partenza. Naturalmente, con i partner europei tale questione si discute a ventotto, ma soprattutto a quattro, cinque o sei. Se non c’è il consenso di quei cinque o sei, non si va da nessuna parte. In merito abbiamo ostacoli estremamente forti.
Da un punto di vista operativo, quest'area è piuttosto tranquilla e anche relativamente alla portata dei Paesi europei, a condizione, però, che si abbiano le strutture logistiche dietro. Anche quando siamo intervenuti in Libia la prima linea da combattimento era tutta molto bella, ma, se gli americani non ci avessero aiutato, rifornendoci di munizioni guidate, che erano finite prestissimo, avremmo fatto la figura della Regia aeronautica di Mussolini, molto bella da vedere, ma poi, al dunque, un po’ fragile.
Questo viene da parte dei due Paesi che per decenni a noi italiani hanno detto: «Vedete quanto spendiamo noi, quanto siamo bravi, quanto siamo buoni ?» Per Pag. 19favore, smettiamola e andiamo al sodo. Il sodo è che questi due Paesi hanno linee logistiche fragili quanto quelle italiane, perché senza mamma America non avrebbero concluso una campagna già fatta al risparmio. Quella libica non è affatto una campagna «gloriosa».
Che cosa possiamo andare a fare a Gibuti ? Gibuti è uno di quei posti dimenticati dall'opinione pubblica, ma molto presente per tutti i pianificatori militari. Il cambio di qualità di Gibuti è avvenuto proprio con la guerra al terrore, dopo lo strappo franco-americano ed europeo sull'Iraq. Il presidente Chirac, sotto traccia, ha dato come uno dei suoi pegni per rimettere in sesto i rapporti quello di aprire una base assolutamente strategica sul Mar Rosso e sul continente africano agli americani. Metà di quella base è di fatto americana. Naturalmente, gli americani sono ben contenti di avere questo punto d'appoggio, anziché la sola perdutissima Diego Garcia, che si trova molto più a sud dell'Oceano Indiano e che tuttavia costituisce un perno logistico indispensabile per tutti gli interventi nel Golfo: «No Diego Garcia, no party», praticamente.
Gibuti permette di manovrare con più presenza in quest'area piuttosto delicata che è il Corno d'Africa, da cui noi siamo stati politicamente espulsi con la crisi del Checkpoint Pasta. È bene ricordarcelo, altrimenti non sappiamo bene se abbiamo interessi, se li vogliamo avere e come li vogliamo realizzare.
Io penso che la presenza a Gibuti sia per ora solo operativa, ma è chiaro che, se volessimo ricordarci che un tempo avevamo l'obelisco di Axum davanti alla FAO, e forse faremmo bene almeno a metterne una copia, come per il Marco Aurelio, per ricordarci le nostre responsabilità africane non coloniali, avremmo un problema con la Somalia, che è ancora frammentata, con l'Etiopia, che è in fase di ripresa dopo un lungo periodo di dittatura e con l'Eritrea, che conosce una dittatura assolutamente pesante per i suoi abitanti. Peraltro, noi abbiamo anche problemi perché alcuni cittadini con doppio passaporto, eritreo e italiano, non sono stati seguiti fino in fondo nelle loro traversie giudiziarie interne, per essere molto diplomatici.
Passando alla cybersecurity, bisogna distinguere tra la moda e la sostanza. La sostanza è che noi abbiamo alcune vulnerabilità che sono state messe in rilievo molto chiaramente con Stuxnet. Parlo proprio di attacco virale mirato. Queste sono le vulnerabilità che vanno coperte. Da qui a immaginare una guerra mondiale cibernetica che automaticamente ci paralizzi il passo è un po’ più lungo, anche perché i sistemi in rete interconnessi hanno effetti collaterali difficilmente prevedibili. Senz'altro, però, la questione della sicurezza cibernetica ci accompagnerà.
Magari la minaccia fosse di alcuni Stati. In genere sono i privati a essere all'avanguardia nello sviluppo delle tecniche di attacco più sofisticate. Fanno parte di un mondo parallelo, di cui spesso il pubblico si serve, quello russo, per esempio, un po’ come dei contractor, ma in modo molto più liquido di un Blackwater di cui si sa dove è presente una sede societaria.
Abbiamo senz'altro un capitolo di sicurezza da esplorare, anche togliendo di mezzo scenari apocalittici. Certamente l'uso delle armi cibernetiche è un mezzo di accompagno di un attacco di sorpresa. Da questo punto di vista credo che ormai sia chiaro come ogni stato maggiore attrezzato preveda l'uso di queste armi per paralizzare una serie di sistemi critici avversari. Credo che questo sia sicuramente parte della pianificazione israeliana nel caso di un attacco all'Iran. Lo posso assicurare senza molti problemi.
Quanto a Forza NEC – se è utile e se ci sono minori o più urgenti interventi – la prima domanda che aveva bisogno di una risposta è a quanto ammonta la spesa europea. Nel 2001 era di 251 miliardi di euro. Dieci anni dopo, nel 2010, era di 194 miliardi. Grossomodo è la metà di quella americana, ma con due problemi. Gli americani, dalla fine della Guerra fredda, stanno facendo una corsa agli armamenti contro se stessi. Se si dovesse guardare in modo più obiettivo la spesa militare americana, Pag. 20si dovrebbe dire che è ridondante. L'aveva già detto Eisenhower, che è stato uno dei grandi fondatori del NATO Defence College, da cui poi è filiata la mia fondazione. Si chiama complesso militare industriale.
Ciò detto, questa spesa, che deve tenere conto degli imperativi finanziari – i nostri amici americani stanno solo cominciando ad afferrare l'idea con il loro shutdown – può essere resa più efficace. Devo dire che dalla fine della Guerra fredda a oggi gli europei, nonostante infiniti handicap, hanno fatto progressi che hanno del miracoloso. Sembrano progressi all'italiana, ossia non dovrebbero funzionare, ma noi siamo riusciti ad aumentare la capacità delle forze schierabili a grande distanza dall'Europa in modo impressionante, fino quasi a raddoppiarla.
È chiaro, però, che questo sistema non è semplicemente sostenibile. Senza volontà politica tutte le architetture istituzionali che vogliamo inventarci non ce la fanno. La prova è che abbiamo già da un molto tempo parlato di Battlegroup, gruppi da combattimento, da schierare, che non sono mai stati impiegati. La prossima rifrittura di questo documento sarà che vanno modularizzati, così forse si schierano. Suvvia, è una questione politica.
Passo ora al ruolo che vuole avere l'Italia. Il ruolo sicuramente ce lo dobbiamo dare noi. Se noi partiamo da un antico complesso di inferiorità, francamente immeritato, che ci siamo coltivati con cura dopo l'8 settembre, per cui l'Italia è uguale all’«Italietta», possiamo fare poco e niente. In realtà, questo complesso di inferiorità è un mito. Con l'8 settembre il nostro è stato l'unico Paese dell'Asse che ha smontato la sua dittatura e non ha avuto un processo di Norimberga. Non mi pare poco. È l'unico Paese dell'Asse che si è liberato un bel po’ di città e di territori con le sue proprie mani. I francesi non l'hanno fatto e di questo ce ne dimentichiamo. Abbiamo avuto, quindi, alcune basi nazionali, sia pure in un momento terribile come l'armistizio, che non sono affatto disprezzabili.
Inoltre, non mi pare che i nostri soldati siano conosciuti in giro per il mondo per essere quelli del carro armato con la retromarcia pronti a scappare. Questa è un'altra barzelletta della seconda guerra mondiale che di tanto in tanto con masochismo ripetiamo. Questi sono i fatti. Per non parlare dei carabinieri, che vengono osannati da tutte le parti, ma questo è un dettaglio.
Per quello che spendiamo come Paese, per quello che produciamo, per quello che abbiamo come tradizione politica e culturale, abbiamo senz'altro, se lo vogliamo, un ruolo da investire, che è a portata di mano. Tuttavia, questo ruolo richiede un'organizzazione della decisione politica completamente differente. Se a ogni piano che faccio, devo tener conto della corsa a ostacoli, non ce la faccio. Lo fanno anche le altre democrazie, le decisioni negli Stati Uniti e in Germania non sono più semplici, ma da noi sono un po’ più laboriose.
Io credo che questo tipo di laboriosità si possa superare, anche approfondendo il dibattito politico. La politica estera italiana è stata particolarmente efficace quando c'erano grossi partiti ideologizzati, un fatto che si dimentica. Questo è importante, perché è un sistema di riferimento per stabilire quali sono le decisioni di vita o di morte che si vogliono prendere quando si interviene. Di questo si tratta.
Come viene definito il ruolo dell'Italia, di media potenza o piccola, sono definizioni nominalistiche. Io penso che l'Italia abbia ancora molto da dare all'Europa, in termini di guida, non di ricevere passivamente, aspettando che si alzi il grande partner di turno. Peraltro, francamente, in quest'ultimo decennio i grandi partner sono stati molto deludenti, come qualità di pensiero politico dell'integrazione europea. Da questo punto di vista, noi italiani non solo abbiamo tradizione, ma abbiamo sicuramente anche teste da far lavorare.
In uno scenario in cui i Governi nazionali faticano a fare i conti con la realtà la prima missione dell'Italia, secondo me, è quella, invece, di fare i conti con la realtà per prima e di far vedere come si fa agli altri. Non è la prima volta che noi Pag. 21lo facciamo. Siamo noi che abbiamo mostrato ai nostri alleati inglesi come ci si ritira dall'Iraq in modo ordinato, pulito e senza problemi. Abbiamo già questa capacità di mostrare come si fa. Io penso che questa sia la missione immediata da un punto di vista di riflessione politica. Da questo poi discendono una serie di capacità di tirare le conseguenze dalla realtà.
Grazie.
PRESIDENTE. Grazie a Lei, professore.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 10.35.
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