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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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XVII Legislatura

XI Commissione

Resoconto stenografico



Seduta pomeridiana n. 4 di Mercoledì 26 giugno 2013

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Damiano Cesare , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE MISURE PER FRONTEGGIARE L'EMERGENZA OCCUPAZIONALE, CON PARTICOLARE RIGUARDO ALLA DISOCCUPAZIONE GIOVANILE

Audizione di esperti della materia.
Damiano Cesare , Presidente ... 3 
Sestito Paolo , Dirigente della Banca d'Italia, esperto di monitoraggio e valutazione del mercato del lavoro ... 3 
Martini Alberto , Professore associato di Statistica economica presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università del Piemonte orientale, direttore dell'Associazione per lo sviluppo della valutazione e l'analisi delle politiche pubbliche ... 6 
Cicciomessere Roberto , Ricercatore a contratto, esperto di valutazione dei centri per l'impiego ... 8 
Damiano Cesare , Presidente ... 12 
Piccolo Giorgio (PD)  ... 12 
Tinagli Irene (SCPI)  ... 12 
Miccoli Marco (PD)  ... 13 
Albanella Luisella (PD)  ... 13 
Martelli Giovanna (PD)  ... 13 
Damiano Cesare , Presidente ... 14 
Sestito Paolo , Dirigente della Banca d'Italia, esperto di monitoraggio e valutazione del mercato del lavoro ... 14 
Martini Alberto , Professore associato di statistica economica presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università del Piemonte orientale, direttore dell'associazione per lo sviluppo della valutazione e l'analisi delle politiche pubbliche ... 15 
Cicciomessere Roberto , Ricercatore a contratto, esperto di valutazione dei centri per l'impiego ... 15 
Damiano Cesare , Presidente ... 16 

ALLEGATO: Documentazione presentata dagli esperti ... 17

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Fratelli d'Italia: FdI;
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero: Misto-MAIE;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CESARE DAMIANO

  La seduta comincia alle 14,35.

  (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di esperti della materia.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle misure per fronteggiare l'emergenza occupazionale, con particolare riguardo alla disoccupazione giovanile, l'audizione di esperti della materia.
  Sono presenti Roberto Cicciomessere, ricercatore a contratto, esperto di valutazione dei centri per l'impiego, Alberto Martini, Professore associato di Statistica economica presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università del Piemonte orientale, direttore dell'Associazione per lo sviluppo della valutazione e l'analisi delle politiche pubbliche, Paolo Sestito, Dirigente della Banca d'Italia, esperto di monitoraggio e valutazione del mercato del lavoro.
  Avverto che è a disposizione della Commissione una documentazione di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato).
  Ringrazio ancora una volta i nostri ospiti, ricordando come questi interventi siano particolarmente importanti anche perché oggi comincia la discussione sul pacchetto lavoro annunciato dal Governo.
  Poiché dovremo concludere l'audizione entro le 16.00, raccomando a tutti di contenere i propri interventi. Do quindi la parola al dottor Paolo Sestito, Dirigente della Banca d'Italia, esperto di monitoraggio e valutazione del mercato del lavoro.

  PAOLO SESTITO, Dirigente della Banca d'Italia, esperto di monitoraggio e valutazione del mercato del lavoro. Ho preparato un breve documento, che scorrerò velocemente, in cui è contenuta la documentazione fattuale sull'andamento della crisi occupazionale e alle ripercussioni, in particolare per i giovani.
  Si ricorda la forte intensità della caduta dell'occupazione giovanile sia nel Mezzogiorno che nel centro nord, anche se ovviamente in tema di livello rimangono noti i differenziali tra le due aree. Questa caduta dell'occupazione si è accompagnata a un forte aumento della disoccupazione, con qualche particolarità, nel senso che nell'ultimo biennio la disoccupazione è aumentata (se mi si passa il termine) più di quanto non sia implicito nel calo dell'occupazione medesima.
  Vi sono anche evidenze sul fatto che, al di là del dato occupazionale, questo ha un impatto anche sui livelli delle retribuzioni, in particolare dei nuovi entranti, e che parte di questo impatto potrebbe avere natura permanente.
  Alcuni grafici comparano la situazione dell'Italia a quella degli altri Paesi. In sintesi estrema, si vede come in tutti i Pag. 4Paesi la situazione occupazionale dei giovani, anche in termini relativi, si sia deteriorata. Questo non è strano, perché in una situazione di crisi diminuiscono i flussi di ingresso nel nuovo impiego che per definizione riguardano i giovani, e molte delle cessazioni dell'impiego riguardano il mancato rinnovo di impieghi a termine, dove è concentrata l'occupazione giovanile.
  Per quanto riguarda le tendenze di più lungo periodo, nella documentazione tabellare grafica si ricorda come il deterioramento dei tassi di occupazione nel quinquennio in termini occupazionali abbia fatto venir meno i guadagni occupazionali del precedente periodo.
  In termini retributivi, però, la condizione dei giovani nel mercato del lavoro presentava anche prima una tendenza al deterioramento sia in termini di deterioramento della situazione relativa, sia, più in generale, perché in un Paese e in un'epoca in cui la produttività non cresce ovviamente i salari e anche i salari all'ingresso risentono immediatamente di queste tendenze.
  In questa mia breve memoria ho inserito alcune considerazioni su varie tematiche, che riassumerei in brevi flash. Primo punto: la situazione occupazionale dei giovani non si può migliorare se non si migliora la situazione complessiva del mercato del lavoro e dell'economia, nel senso che a lungo andare è difficile immaginare un miglioramento della condizione occupazionale dei giovani che non passi e non si sostanzi per un miglioramento delle condizioni di crescita dell'economia.
  Questo è vero per qualsiasi gruppo demografico, ma è particolarmente vero per i giovani, le cui condizioni nel mercato del lavoro dipendono strettamente da condizioni di crescita economica. Si tratta di favorire l'ingresso, che per definizione è legato a condizioni di crescita economica.
  Tra le tante considerazioni sulle prospettive della decrescita economica del nostro paese, due riguardano in particolare i giovani: il livello qualitativo, oltre che quantitativo, di istruzione, quindi l'investimento in capitale umano, e il funzionamento concorrenziale dei mercati dei prodotti, dei servizi e delle professioni, che riguarda in particolare i più giovani, perché si tratta di garantire condizioni di accesso.
  Si discute brevemente della questione degli incentivi a favore dell'occupazione giovanile. Segnalo e ricordo che incentivi a favore dell'occupazione di particolari categorie sono già ampiamente presenti nel sistema economico italiano. L'Italia spende in media poco meno di mezzo punto percentuale di PIL in sgravi contributivi e di altro tipo e vantaggi connessi con incrementi occupazionali. Questi sgravi sono concentrati per poco più di mezzo milione di soggetti nella grande famiglia dell'apprendistato, considerando anche gli sgravi per le successive trasformazioni da apprendistato in rapporti a tempo indeterminato.
  L'efficacia di questi strumenti rappresenta un quesito estremamente complesso. È opportuno ricordare che il condizionamento di questi sgravi, di questi vantaggi economici a un evento quale un'assunzione o un incremento dei livelli occupazionali a livello aziendale non è di per sé garanzia che questi fondi siano integralmente utilizzati a tale scopo, perché anche in un mercato del lavoro fiacco come quello attuale si rileva sempre un flusso di assunzioni.
  Ricordo brevemente delle stime recenti formulate dall'Ente Veneto Lavoro con riferimento a uno sgravio definito dalla legge n. 214 del dicembre 2011, che stima come l'incentivo in questione sia stato o sia efficace nel garantire un aumento anche molto consistente del flusso di assunzioni della specie. In realtà, sono anche stabilizzazioni, non solo assunzioni a tempo indeterminato, per particolari categorie di lavoratori, ma questo aumento anche consistente del flusso di assunzioni significa che in circa due terzi dei casi l'intervento è venuto a premiare eventi che si sarebbero comunque realizzati, indipendentemente dall'incentivo stesso.
  Questo viene tecnicamente definito «effetto peso morto» ed è ovviamente una situazione endemica da tenere in conto nel momento in cui si discute di incentivi. Gli incentivi possono quindi essere efficaci, Pag. 5ma attenzione a non sottovalutarne i potenziali costi. Vi è quindi necessità di definire sistemi di incentivi che abbiano una loro ratio intrinseca, una loro trasparenza e un funzionamento sufficientemente efficace.
  Ricordo infine come nel sistema italiano questi sgravi e incentivi che avvengono sostanzialmente con sovvenzioni attribuite in capo all'impresa siano molto diffusi e utilizzati, mentre sono poco utilizzati sgravi che specularmente intervengano a sovvenzionare fiscalmente il lavoratore che accetti condizioni lavorative e salariali non particolarmente elevate. Si tratta di sistemi di imposta negativa molto utilizzati in altri in Paesi, con il duplice scopo di incentivare l'offerta di lavoro e l'occupazione, e di ridurre i livelli di povertà familiare.
  Nella memoria ricordo quel poco che già si sa riguardo agli effetti della legge n. 92 del 2012 sulla contrattualistica, quindi sulla regolamentazione dei rapporti di lavoro. Le poche cose che si sanno sono spesso riferite al Veneto, perché in questa regione è stato fatto un monitoraggio che seguiva non solo l'andamento complessivo del singolo strumento contrattuale, ma anche i passaggi dei singoli lavoratori da uno strumento contrattuale all'altro.
  In termini molto sintetici e schematici, si sa che per quanto riguarda il lavoro intermittente vi è stato un forte passaggio dal lavoro intermittente, lavoro a chiamata, a rapporti di lavoro ordinari, in particolare a tempo determinato ma in minore misura anche a tempo indeterminato. Qualcosa di simile è avvenuto per le associazioni in partecipazione, e con minore precisione si sa anche che parte della riduzione del ricorso alle collaborazioni a progetto è collegata a passaggi di questo tipo.
  Le evidenze diventano meno precise per quanto riguarda una questione molto dibattuta, relativa al combinato disposto, in tema di contratti a tempo determinato, con il regime della causalità nel caso del primo rapporto e con il prolungamento del periodo di sospensione fra primi e secondi rapporti in capo alla stessa impresa, allo stesso datore di lavoro e allo stesso lavoratore.
  Si sa che sono aumentati i primi avviamenti a tempo determinato, e non solo in virtù dei fenomeni prima ricordati, cioè di passaggi da forme contrattuali che la legge ha tentato di ridurre a contratti a tempo determinato, ma anche più complessivamente considerato. Si sa che la distribuzione per durata dei rapporti di lavoro a termine non è cambiata in maniera significativa, e che si sono ridotti i secondi avviamenti in collegamento con il regime di sospensione.
  Una valutazione più complessiva dovrebbe considerare, come però al momento non è stato realizzato da nessun analista e in nessuna situazione specifica, la condizione globale del lavoratore a seguito di un eventuale primo rapporto di lavoro a termine. Questo non è noto, ma sappiamo che evidentemente il regime della sospensione non è facilmente azionabile ove si voglia «stringere» o «allargare» il grado di restrizione in capo alla utilizzabilità ripetuta dei contratti a termine.
  Poche informazioni sono anche riportate per quanto riguarda il rapporto di apprendistato. Oltre ad alcune informazioni estremamente schematiche, che evidenziano una scarsa capacità di orientamento del sistema educativo e formativo nel suo complesso, con riferimento al successivo passaggio al mondo del lavoro, in realtà vi è una scarsa capacità di orientamento anche all'interno dello stesso sistema educativo e formativo, ad esempio nel passaggio dal segmento scolastico a quello universitario.
  Con riferimento al rapporto di apprendistato, nella memoria brevemente ricordo come stia proseguendo la flessione del ricorso all'apprendistato e come questo in parte possa dipendere dal timore da parte delle imprese di ostacoli burocratici che la regolamentazione regionale possa comportare.
  Si considera brevemente anche come quello che in Italia viene definito sistema di apprendistato sia qualcosa di molto diverso dall'apprendistato tedesco, che è Pag. 6segmento importante del sistema di istruzione e formazione di quel Paese, non è un sistema universale, ma è un pezzo del sistema scolastico e universitario, che presuppone una forte interazione tra imprese e centri formativi.
  Questo è un processo per molti versi auspicabile, sulla base della stessa esperienza della Germania, ma non è facilmente costruibile, ed è cosa diversa da un sistema universale di ingresso nel mercato del lavoro, quale invece più volte è stato individuato come obiettivo dell'apprendistato nel sistema italiano.
  Nell'ultimo capoverso di questa breve memoria ricordo brevemente quale sia la situazione in termini comparativi delle politiche del lavoro in Italia e negli altri Paesi europei. L'Italia è un Paese che spende relativamente poco per politiche del lavoro, in quanto prima della crisi spendeva circa i due terzi della media europea.
  Questi importi sono cresciuti, in particolare per quanto concerne le politiche passive di sostegno al reddito in caso di disoccupazione, ma permane comunque un divario tra l'Italia e gli altri Paesi europei. In Italia è specificamente molto contenuta la spesa in servizi per l'impiego. Questo è un dato importante perché i servizi per l'impiego tradizionalmente in Italia sono rimasti sottosviluppati perché non hanno assolto a una grande funzione di gestione, controllo e monitoraggio nei confronti dei beneficiari di ammortizzatori sociali.
  Il nostro era un sistema in cui gli ammortizzatori sociali intervenivano prevalentemente in costanza di rapporto di lavoro, e non vi era quindi un grosso impegno da parte dei servizi per l'impiego. Se la strada intrapresa dal legislatore con la legge n. 92 del 2012 è quella di un potenziamento del pilastro universale degli ammortizzatori sociali con l'introduzione dell'ASPI, i servizi per l'impiego presumibilmente avranno da svolgere un ruolo particolarmente importante nella gestione, nel controllo, nella definizione di politiche di attivazione nei confronti dei beneficiari di questi ammortizzatori sociali.
  Questo potrà richiedere anche una rivisitazione dell'architettura istituzionale, perché questa è una funzione precipuamente nazionale, quindi potrà essere necessario ridefinire gli assetti istituzionali del sistema per tener conto della necessità di gestione di una politica nazionale, quindi anche di una garanzia di servizi omogenei sul territorio nazionale, nel contempo mantenendo l'inevitabile specificità regionale delle politiche per l'impiego.
  Se si considera la dimensione, la rilevanza, la non facilità di garantire questa transizione verso un maggior ruolo dei servizi per l'impiego, pure atteso che i servizi per l'impiego non necessariamente debbano basarsi esclusivamente su un soggetto pubblico, perché vi possono essere forme di integrazione tra un gestore pubblico che mantenga il ruolo di gestore di un certo sistema e il ruolo di provider privati ormai diffusi anche nel nostro Paese, è evidente che la dimensione dello sforzo necessario a garantire questa importante innovazione istituzionale nel nostro Paese rende difficilmente utilizzabili i servizi pubblici per l'impiego come pivot della cosiddetta Youth Guarantee, della quale si discute in questi giorni in Italia.
  Mi fermerei qui con questa rapida carrellata, rimandando al documento che ho lasciato agli atti della Commissione, ma rimanendo ovviamente a disposizione per qualsiasi chiarimento.

  ALBERTO MARTINI, Professore associato di Statistica economica presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università del Piemonte orientale, direttore dell'Associazione per lo sviluppo della valutazione e l'analisi delle politiche pubbliche. Buongiorno a tutti, vi ringrazio per questo invito. Ieri ho notato che la mia affiliazione era molto meno nobile di quella dei colleghi, che sono rispettivamente della Banca d'Italia e di Italia Lavoro.
  A parte che Italia Lavoro sta diventando un ossimoro, io non avevo «Italia», allora mi qualifico come arrivato con il treno Italo, così ho anch'io la definizione «Italo» nel titolo (lo consiglio a chi viene da Torino).
  Gli incentivi alle imprese di cui stiamo parlando appartengono a una tipologia di Pag. 7interventi molto più vasta, una famiglia di interventi, in cui rientrano cose come il bonus bebé, le borse di studio universitarie, la rottamazione, gli incentivi alla ristrutturazione e l'emersione del sommerso, gli incentivi alle imprese di vario tipo, per fare progetti di investimento in capitale fisico e, last but not least, per stabilizzare i precari o assumere disoccupati.
  Il problema comune a tutti gli incentivi è la difficoltà di distinguere tra coloro che la cosa incentivata l'avrebbero fatta comunque, e quindi ricevono un premio per aver fatto una cosa buona e giusta, e quelli che effettivamente sono spronati a fare la cosa buona e giusta dall'aver ricevuto l'incentivo. Quindi, il grande dilemma è premiati o spronati.
  Tecnicamente si parla di addizionalità o del suo contrario, che in inglese si dice dead weight, in italiano si può dire con una traduzione curiosa «peso morto», ma a casa mia si chiamano soldi sprecati. Non è un'immagine in bianco e nero, non è che i soldi sono o tutti sprecati o tutti ben usati: dipende dalla situazione, quindi puoi avere un'addizionalità del 100 per cento e la cosa giusta costa quanto un incentivo, o puoi avere situazioni estreme, dove il 10-20 per cento è addizionale, quindi ottenere quella cosa buona e giusta costa 4-5 volte l'incentivo disegnato dal legislatore.
  Non si può ignorare una cosa del genere, ma c’è chi la vede diversamente, come dimostra la citazione di un personaggio importante al Ministero del lavoro e delle politiche sociali che sostiene: «chi istituisce questo tipo di strumenti è per lo più consapevole che una parte rilevantissima della spesa sia peso morto, e tuttavia anche questa componente, abbassando selettivamente il costo del lavoro, abbia una sua funzione economica, di premio rispetto a taluni comportamenti giudicati virtuosi».
  Ma il contribuente è d'accordo con il fatto che una parte rilevantissima della spesa sia a peso morto ? Prendete il caso della rottamazione: se si provasse che gli incentivi alla rottamazione non provocano alcuna vendita addizionale di automobili, ci chiederemmo perché sovvenzionare quelli che avrebbero cambiato lo stesso l'automobile.
  Non si può quindi in generale accettare il ragionamento secondo cui la spesa a peso morto va quasi bene come la spesa efficace. Bisogna però misurarla, ed è difficile da misurare. Vi propongo un metodo innovativo per l'Italia per misurare questa cosa.
  In Piemonte, ci abbiamo provato nel 2007, era tutto un altro milieu economico. Un assessore tutto «falce e martello» ha proposto questi incentivi per la stabilizzazione dei precari. Noi abbiamo dimostrato che l'addizionalità era al massimo del 10 per cento, quindi stabilizzare un precario costava realmente 50.000 euro rispetto ai 5.000 stanziati dall'assessore.
  Il decreto Salva Italia prevedeva questi 12.000 euro, Veneto Lavoro calcola che l'addizionalità è tale per cui ogni stabilizzato costa 40.000 euro.
  Questi risultati, però, sono poco affidabili, sono molto soggetti a interpretazione da assunti non testabili. In qualche caso si può applicare un metodo molto più semplice e credibile: sorteggiare. Questa è una parola che in Italia suscita orrore. Talvolta quando dico «randomizzare» ottengo reazioni simili a quelle che provocherei dicendo «sodomizzare», ma non si capisce il motivo di questa avversione.
  Il metodo che io vi propongo consiste nel sorteggiare quelli a cui viene dato l'incentivo, e bisogna fare in questo modo: si smette con la pratica tutta italiana del click day, dove tutti cliccano dalle 9.00 del mattino e chi primo arriva prende il sussidio, perché questa pratica va contro le esigenze della valutazione. Si fa un click month e si lasciano cliccare per tutto il mese, ovviamente le domande saranno largamente superiori agli incentivi disponibili. Nel caso del decreto Salva Italia erano 44.000 domande contro 24.000 incentivi disponibili.
  A quel punto, si sorteggiano le persone a cui viene assegnato, che sono intitolate ad essere assunte con un sussidio. Si sorteggiano, non c’è niente di terribile: in caso di razionamento, il sorteggio è legalmente, Pag. 8giuridicamente, moralmente accettabile come forma di allocazione delle risorse scarse. Si creano quindi due gruppi identici nella loro composizione: uno ha titolo ad essere assunto con sussidio, uno no.
  La percentuale di incentivati che verranno assunti nel primo gruppo sarà inferiore al 100 per cento, perché qualcuno cambierà idea. Se si fermasse all'80, tutti direbbero che l'efficacia è dell'80 per cento.
  Vediamo però cosa succede nell'altro gruppo sorteggiato a non ricevere il sussidio. È altamente probabile o comunque possibile che una larga percentuale di quel gruppo assuma comunque la persona che ha avuto la sfortuna di non essere sorteggiata, quindi la differenza fra quelle due percentuali non è la percentuale di incentivi assegnati, ma è la percentuale di incentivi assegnati meno la percentuale di incentivi non assegnati che hanno dato comunque luogo a un'assunzione.
  Le alternative al sorteggio correntemente praticate sono due grandi alzate d'ingegno giuridiche. Una è l'ordine di arrivo delle domande, che però è un sorteggio fatto male, fatto con criteri farlocchi. Il fatto che la segretaria del capo fosse più veloce a presentare la domanda e l'Ufficio del personale fosse più efficiente non mi dice nulla sull'individuo, quindi è come se lo assegnassi casualmente, però chiudendo le iscrizioni fatte dopo, quando sono esaurite le risorse, non ho il gruppo di controllo neanche in quel caso, non posso neanche sfruttare l'ordine di arrivo delle domande.
  L'altra alternativa è la graduatoria, a cui tutti siamo abituati. Ci sono risorse scarse, ci sono i più meritevoli e i meno meritevoli, i più bisognosi e i meno bisognosi: mettiamoli in graduatoria e poi tagliamo a un certo punto. In realtà, le graduatorie sono condensati di ipocrisie. Si ordina sul merito e sul bisogno, ma non si ha nessuna nozione di che relazione vi sia tra l'effetto dell'incentivo e la posizione in graduatoria.
  In questo cito un altro assessore provinciale di Torino, che disse una cosa molto acuta: va bene la graduatoria, ma una volta fatta la graduatoria comincio dal fondo o dall'inizio ? Questo evidenzia come la graduatoria non sia interpretabile in maniera intelligibile, ma sia una congerie di criteri che rispondono a sollecitazioni diverse, ma poi uno non sa se cominciare dal fondo o dall'inizio della graduatoria.
  Questo Governo ha un'occasione storica, visto che ha pochissime risorse, per provare a mettere in moto meccanismi di allocazione mediante sorteggio, che producono risultati molto più leggibili e credibili di qualsiasi alchimia econometrica o di qualsiasi graduatoria. Se non ora, quando, visto che le risorse sono così scarse ?
  Quello che conta non è quanti disoccupati collochiamo rispetto al totale del mercato del lavoro, ma, se agiamo su una fettina, l'importante è garantire che su questa fettina siamo efficaci, perché se neanche su quella saremo efficaci, si sommeranno due shortcomings: avere poche risorse e sprecarle.
  Cerchiamo quindi di provare, mediante randomizzazione o sorteggio, l'efficacia delle piccole politiche che facciamo. Avremo il vantaggio di apprendere qualcosa, perché la base conoscitiva su cui si fanno oggi le politiche del lavoro in Italia è estremamente scarsa.

  ROBERTO CICCIOMESSERE, Ricercatore a contratto, esperto di valutazione dei centri per l'impiego. Ho preparato una nota sul programma Garanzia per i giovani, perché mi sembra che sia l'unico che allo stato abbia una dotazione finanziaria aggiuntiva della comunità. Secondo le nostre stime si tratta di 540 milioni, quindi si può aggiungere una quota pari a questa per arrivare a più di un miliardo.
  Non mi sembra che in questo periodo ci siano altre risorse aggiuntive per finanziare, se non quelle che derivano dai fondi comunitari, i 30 milioni residuali non impegnati e i 55 che saranno disponibili nella programmazione 2014-2020.
  A questo proposito, signor presidente, vorrei evidenziare che questa necessità ha conseguenze politiche di un certo tipo. Si tagliano fondi che non sono a immediata Pag. 9disposizione, ma sono di competenza regionale, sono destinati in via privilegiata alle quattro regioni convergenza. Sbloccare questi soldi significa un lungo negoziato con la Conferenza Stato Regioni, quindi le cose non sono semplici.
  Garanzia per i giovani ha un obiettivo molto preciso e anche molto impegnativo: garantire che tutti i giovani di età inferiore ai 25 anni ricevano un'offerta qualitativamente valida, come il proseguimento degli studi, l'apprendistato, il tirocinio entro un periodo di quattro mesi dall'inizio della disoccupazione e dall'uscita dal sistema di istruzione.
  Stiamo parlando non soltanto dei disoccupati, ma anche dei NEET, disoccupati o inattivi che non studiano, non sono in formazione e ovviamente non lavorano, che sono 1,3 milioni in Italia. Questa è la dimensione, quindi la problematica che cerco di esaminare nel documento.
  Il nostro sistema di servizi pubblici e privati per il lavoro è in grado oggi di affrontare questo compito ? Le risposte non sono positive, ma sarebbe opportuno affrontare una serie di questioni preliminari perché il problema della disoccupazione giovanile, almeno nella fascia di età 15-25 anni, così come stabilito dalla Youth Garantee, presenta alcune anomalie per quanto riguarda la situazione italiana, perché è un numero relativamente contenuto rispetto alla popolazione, ma ha un alto tasso di disoccupazione.
  I numeri sono noti a tutti: in Italia i disoccupati 15-64 sono 611.000, in Francia 668.000, in Spagna 945.000, nel Regno Unito quasi 1 milione. In Italia, quindi, i disoccupati in rapporto alla popolazione non hanno una dimensione spropositata.
  Ovviamente in Germania abbiamo un numero molto basso, 370.000, e forse sarebbe utile riflettere su questa situazione positiva della Germania e ricordarci un fatto senza il quale forse non riusciremmo a capire quanto sta succedendo adesso: nel 2005, in Germania i disoccupati erano 5 milioni, i giovani disoccupati 745.000, più dei nostri che erano circa 500.000.
  La Germania, con la Riforma Hartz e tutto quello che ne consegue, come ad esempio la diffusione dei mini-jobs (7 milioni di persone), nonostante la crisi ha ridotto progressivamente la sua quota di disoccupati. Una prima considerazione è che si può, non è impossibile farlo. Certo, non è soltanto un problema di organizzazione del mercato del lavoro, come già evidenziato da Paolo Sestito, ma è un problema di domanda, quindi in Germania abbiamo contemporaneamente una crescita del sistema produttivo molto robusta, stimolata dalle esportazioni.
  Credo che questo spieghi anche la diffidenza e la rigidità della Germania nei confronti di altri Paesi che non vogliono seguire lo stesso percorso, perché forse non tutti ricordano l'impatto che ebbe la riforma Hartz in Germania in termini di tagli di welfare e di sussidi, di riduzione delle coperture assicurative. Noi abbiamo ammortizzatori che sociali che coprono anche l'80 per cento dell'ultima retribuzione, mentre in Germania le quote sono molto più modeste.
  Questo problema ha una certa importanza, perché i disoccupati sono il 10 per cento della popolazione italiana, sostanzialmente allineati alla media europea pari al 9,7 per cento, perfino inferiori alla quota di disoccupati del Regno Unito, pari al 12,4 per cento (non parliamo della Spagna perché è meglio lasciar perdere).
  Questa caratteristica è determinata dal fatto che nel nostro Paese l'aspetto più grave per i giovani non è tanto la quota dei disoccupati, quanto il fatto che sono pochi gli occupati e sono moltissimi gli inattivi. Se dividiamo l'intera popolazione giovanile 15-24 anni nelle tre condizioni professionali, occupati, disoccupati e inattivi, constatiamo come in Italia il 18,6 per cento sia occupato, il 10 per cento disoccupato e il 71 per cento inattivo.
  Nel Regno Unito, invece, il 46,9 per cento dei giovani di questa età lavora, il 12,4 per cento è disoccupato e solo il 4,7 è inattivo. Il problema italiano è quindi un problema di bassa occupazione delle fasce giovanili, alto tasso di inattività. Se andiamo a verificare questo i motivi dell'inattività Pag. 10di questo 71,3 per cento, constatiamo come il 90 per cento di questi 4,3 milioni di giovani stia studiando, nel senso che spesso è parcheggiato in attività scolastiche o formative che sono di grande utilità per i formatori, ma di scarsa utilità per i formati.
  Se guardiamo il flusso degli occupati per classi di età nella fascia fino a 39 anni, vediamo che c’è proprio un ritardo nell'entrata nel mercato del lavoro, ma questa entrata nel mercato del lavoro è molto differenziata, e qui veniamo a un altro fattore che non si può non considerare nel momento in cui ci preme trovare soluzioni al problema dell'occupazione femminile. Sia i giovani del centro nord, sia i giovani del Mezzogiorno hanno un ritardo rispetto al resto dell'Europa in cui anche nella fascia 15-19 anni il 15 per cento lavora, mentre da noi solo il 3,7 per cento.
  Man mano che aumenta l'età, mentre i giovani del centro nord, si allineano sostanzialmente con la media dell'Europa, quelli del Mezzogiorno invece si allontanano. Se completiamo la valutazione per tutto il ciclo di vita si evince che in Italia il problema dell'occupazione coincide con la questione meridionale. Se non diciamo questo, rischiamo di girare a vuoto.
  Il tasso di occupazione del centro nord è allineato alla media e in certi momenti è superiore, il tasso di occupazione del Mezzogiorno ha un divario irrecuperabile, perché aumenta ulteriormente. Quando parliamo di disoccupazione giovanile o di disoccupazione, quindi, bisogna parlarne prevalentemente del Mezzogiorno, perché nel nord, pur con le situazioni di crisi che conosciamo, la situazione è molto diversa.
  Ritornando al problema dei giovani, questi non lavorano quando studiano. Se dividiamo la popolazione fra quelli che studiano e lavorano, quelli che studiano e non lavorano, quelli che non studiano più e lavorano e quelli che non studiano e non lavorano (i NEET di cui dobbiamo occuparci), vediamo che la situazione in Italia è assolutamente anomala rispetto al resto dell'Europa.
  In Italia, il 2,8 per cento degli studenti lavora, mentre in Germania un quarto dei giovani tra i 15 e i 24 anni lavora. Qui entra in gioco il problema dell'apprendistato, signor presidente, perché sono d'accordo con Paolo Sestito nel ritenere che il fatto che l'apprendistato dovrebbe essere il contratto d'ingresso nel mondo del lavoro dei giovani non mi convince: non capisco perché un diplomato con alta qualificazione tecnica piuttosto che un laureato, dovrebbe accettare un contratto di lavoro meno retribuito della durata di tre anni, la cui quota formativa è assolutamente insignificante !
  Dall'ultimo Rapporto ISFOL sull'apprendistato emerge che il 26 per cento degli apprendisti in Italia riceve una formazione regionale. È un modo per pagare meno i lavoratori, mentre l'apprendistato funziona nel momento in cui è inserito in un percorso di formazione e di istruzione, altrimenti non funziona.
  Ma veniamo al problema posto inizialmente, ovvero se i servizi per l'impiego pubblici e privati italiani siano in grado di gestire Youth Guarantee, cioè di offrire a 1,3 milioni di giovani NEET un lavoro anche qualificato, un tirocinio. La risposta è semplice: se noi analizziamo i canali utilizzati dagli occupati quindici-ventiquattrenni per trovare lavoro, rileviamo che solo l'1,6 per cento ha trovato lavoro attraverso un centro pubblico per l'impiego.
  Questo discorso taglia qualsiasi altra considerazione. Tenga conto, presidente, che Jobcentre Plus nel Regno Unito intermedia circa un terzo delle assunzioni, e lo stesso vale per Pole emploi in Francia. I nostri servizi non funzionano. Anche la quota delle agenzie non è particolarmente esaltante, il 4,6 per cento.
  Non mi trovo però d'accordo con Paolo Sestito sulle cause: la spesa per le politiche del lavoro in Italia è l'1 per cento del PIL, mentre la media europea è il 2 per cento. Non credo che questo sia il problema, soprattutto se consideriamo che il Regno Unito spende lo 0,7 per cento contro il nostro 1,8 per cento. Se andiamo ai milioni e ai miliardi ci chiariamo meglio, vediamo il peso e valutiamo soprattutto come sono allocati, perché dall'allocazione delle spese delle diverse tipologie delle Pag. 11politiche del lavoro si capisce quali scelte abbiamo fatto, quali non abbiamo fatto e quali risultano vincenti.
  Confronto solo due Paesi in modo che la cosa sia più veloce: l'Italia spende 27 miliardi per le politiche del lavoro, il Regno Unito 11 miliardi, quindi 16 miliardi meno dell'Italia. Possiamo però dividere le politiche per il lavoro in politiche per l'inserimento nel mercato del lavoro, sostanzialmente i servizi per l'impiego, le politiche attive che comprendono sia formazione che incentivi all'occupazione, i sostegni al reddito, cioè gli ammortizzatori sociali, i pensionamenti anticipati, che sono poca cosa.
  L'Italia spende per sostenere i servizi per l'impiego (quelli che abbiamo visto intermediano l'1,6 per cento degli occupati) 517 milioni, il Regno Unito spende 5 miliardi e 420 milioni. Il regno Unito quindi spende il 50 per cento del suo stanziamento per le politiche del lavoro per i servizi dell'inserimento nel lavoro e l'altro per il sostegno al reddito, e non spende assolutamente nulla per le politiche attive (incentivi alle imprese).
  Noi spendiamo 5 miliardi in parte per la formazione, in parte per gli incentivi alle imprese (grande parte per l'apprendistato, l'altra di incentivi alle imprese), il Regno Unito 635 milioni.
  Condivido tutte le considerazioni espresse all'inizio della seduta in merito all'assoluta inutilità degli incentivi. Alcune distorsioni si possono anche accettare, come la distorsione di sostituzione per cui assegno l'incentivo per l'assunzione delle donne penalizzando i maschi, ma, se sappiamo che assumere le donne significa avere una maggiore qualità del lavoro perché sono più istruite e soprattutto si portano dietro altro lavoro, perché ogni donna che lavora si porta una quota di ore di lavoro retribuito, possiamo accettare questa distorsione, così come accettare che siano assunte persone svantaggiate piuttosto che quelle avvantaggiate, perché questo può essere utile per ridurre la povertà. Il problema è quindi effettuare una scelta.
  Per quanto riguarda il quadro dei nostri servizi, il personale dei servizi dell'impiego costituisce una notizia segreta e riservata perché non si può sapere, non c’è una pubblicazione in merito. Sei anni fa ho scritto un libro e tutti continuano a citare quel numero, che intanto evidentemente è cambiato, ma non c’è nessuno che ci indichi un rapporto, nonostante un istituto dovrebbe farlo periodicamente.
  In Italia comunque sono 7.500 gli addetti ai centri per l'impiego pubblici, in Germania sono 115.000, in Francia sono 49.000, nel Regno Unito sono 77.000. È una scelta, ed è la scelta di investire sulla capacità del centro per l'impiego, sicuramente non di fare occupazione aggiuntiva ma di ridurre la disoccupazione frizionale, sicuramente ridurre lo skill mismatch, in quanto anche in periodo di crisi ci sono posti vacanti, la famosa curva di Beveridge.
  Arrivo alle conclusioni. Noi consideriamo sempre i centri per l'impiego pubblici, ma non ci sono soltanto questi. La Riforma Biagi e le successive modificazioni hanno attribuito a una serie di altri soggetti di servizi competenti il compito di fare intermediazione: le agenzie del lavoro, i consulenti del lavoro, che sono un numero rilevante, le scuole secondarie di secondo grado, le università e tutta una serie di altri soggetti.
  Come abbiamo visto, i risultati sono modesti, però nei dati che prima citavo c’è un aspetto interessante: nel tempo aumenta notevolmente, soprattutto per i livelli alti di istruzione, la quota di giovani che trova lavoro attraverso tirocini e stage e la quota di giovani che viene intermediata dalle università che, ope legis, possono fare attività di intermediazione.
  Il problema è che dovremmo adottare un modello di servizi per far fronte innanzitutto al problema del sottodimensionamento, laddove è impensabile che i servizi pubblici possano accogliere 1,3 milioni di giovani. Dobbiamo individuare un modello, e in Europa ci sono tre modelli: il modello prevalente, basato soltanto sul pubblico, il modello olandese concorrenziale, che mette in concorrenza servizi privati e appalta al migliore i servizi per il lavoro, uno misto.
  Tenendo conto del grande numero di soggetti e servizi competenti, dovremmo Pag. 12adeguare il personale dei CPI, identificare un'autorità e quindi un'agenzia federale che coordini, affidando in outsourcing una parte di questi servizi ai soggetti pubblici attraverso tutti i meccanismi di accreditamento già sperimentati dalle Regioni.
  Anche il sistema olandese che dà in outsourcing tutto ha un numero di addetti superiore al nostro, perché per dare in outsourcing evitando un effetto screening per cui le agenzie selezionino soltanto i disoccupati da occupare con facilità occorre una grossa struttura che sia in grado di controllare.

  PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano porre domande o formulare osservazioni.

  GIORGIO PICCOLO. Premesso che la questione eclatante in questo Paese è la disoccupazione, in particolare quella giovanile, quando parliamo di questi numeri qualsiasi strumento è idoneo perché in qualche modo alleggerisce il problema.
  Dissento però su un punto. I miei coetanei sanno che in passato abbiamo condotto battaglie per le riforme, la pubblicizzazione e i criteri, ma su questo aspetto siamo andati indietro dal punto di vista della possibilità dei servizi pubblici che sono diventati privati; questi, vista la scarsa rilevanza di intermediazione, nei fatti non svolgono nemmeno un servizio, in quanto spesso si limitano a rispondere alle richieste delle aziende.
  Dovremmo quindi orientarci su un servizio pubblico, perché in questo Paese il lavoro deve essere un diritto e non può essere affidato al nepotismo o al clientelismo. Capisco che non possiamo andare alla riffa, al sorteggio come una sorta di premio, aberrazione che è stata richiamata rispetto a questo tema. È chiaro che quando le graduatorie non si basano su meriti e bisogni ma sono meri elenchi si possono leggere da sopra o da sotto, ma, se invece individuiamo criteri rispetto ai bisogni, alla durata della disoccupazione, ai titoli di studio, dovremmo puntare sulla trasparenza, perché la platea è grande.
  Forse la questione del sorteggio risolverebbe: ho preso il premio e quindi lavoro. Da questo punto di vista il sistema è oggettivo, per cui lo preferirei certamente al clientelismo, però non credo che possiamo immaginare il lavoro come una vincita alla lotteria.
  Credo che dovremmo insistere sui centri per l'impiego pubblici e garantire la massima trasparenza rispetto a bisogni sui quali nessuno può giocare.

  IRENE TINAGLI. Capisco bene la questione del sorteggio, laddove si tratta di dare per sorteggio non il lavoro, ma gli incentivi, perché è l'azienda che decide il merito, quindi non c'entra con le graduatorie.
  Lei citava i dati sul Veneto e io avevo chiesto al ministro di poter avere i dati, che poi sono stati resi pubblici, sugli effetti degli incentivi del decreto Salva Italia per fare un'analisi. Purtroppo i dati erano molto aggregati, quindi trovo interessante che in Veneto abbiamo dati più dettagliati, però in altre regioni l'impatto potrebbe essere stato molto diverso.
  Una cosa interessante del decreto Salva Italia è che è vero che non c'era randomizzazione, però comunque non c'era il click day, quindi abbiamo 20.000 domande non accettate che approssimativamente potrebbero funzionare come gruppo di controllo. Capisco che così non è, perché lei sta già scuotendo la testa. In quel caso avrei chiesto se ci fosse modo di avere dati di questo genere per fare un'analisi più approfondita.
  Credo che sarebbe interessante anche fare un'analisi (non so se in Veneto sia stata fatta) per settori, per tipologie di aziende, per valutare se ci siano dati diversi per tipi di settori e tipi di aziende, dove magari possiamo registrare un'efficacia diversa di questi incentivi per farli un po’ meno indiscriminati e un pochino più mirati.
  L'altra domanda è se lei veda delle alternative. Anch'io mi sono posta queste domande, però poi vedendo investire 3 miliardi in piccole opere e pensare di creare 30.000 posti lavoro che costano 100.000 euro l'uno, assumendo un tasso di addizionalità del cento per cento per fare Pag. 13rotonde, mi chiedo se a questo punto i 10.000-20.000 euro per un'assunzione non siano il minore dei mali. Se però esistono alternative migliori anche guardando ad altri Paesi, sarebbe molto interessante conoscerle.
  Apprezzo molto l'ipotesi tax credit avanzata da Paolo Sestito, strumento che effettivamente da noi non si usa. Vorrei sapere se ci sia uno schema che potrebbe essere applicato, se abbia del materiale o dei suggerimenti.
  Sul tema dell'apprendistato mi chiedevo se qualche studio dimostri come in Italia sia stato spesso proposto e usato come un metodo più di assunzione a basso costo che non di vera formazione, se poi alla fine non sia stato anche spiazzato dall'esistenza di altri e migliori sistemi di assunzioni a basso costo che continuiamo a foraggiare, quindi l'apprendistato si è ritrovato stuck in the middle e non ha funzionato.

  MARCO MICCOLI. Vorrei porre una domanda sulla vicenda dei centri per l'impiego. Il dottor Cicciomessere ha toccato il tema relativo a una buona percentuale di ricollocazioni nel Regno Unito, che è corrispondente a un investimento molto elevato in termini di percentuale di PIL rispetto a quanto spende l'Italia, che è tra gli ultimi Paesi. Credo infatti che solo Grecia ed Estonia spendano meno, mentre noi spendiamo quanto Cipro e Lussemburgo.
  Vedo che anche altri Paesi europei investono molto più di noi sui centri per l'impiego. Vorrei sapere se il dato del Regno Unito corrisponda anche a quello di Paesi come Olanda, Francia e Germania, che spendono molto di più di noi in percentuale di Prodotto interno lordo, e se questa spesa sia inerente al fatto che invece qui da noi l'utilizzo degli ammortizzatori sociali è totalmente scollegato dai centri per l'impiego, non c’è alcun collegamento con chi mette in cassa integrazione o in mobilità i lavoratori presso il Ministero del lavoro e delle previdenza sociale o la Regione.
  Vorrei sapere quindi se vi sia un'attinenza con la ricollocazione e la gestione del tema della domanda e dell'offerta che anche in tempo di crisi riuscirebbe comunque a dare risposte, se il mercato del lavoro sapesse quali sono i fabbisogni o le disponibilità messe sul mercato dalla crisi stessa. Abbiamo assistito alla crisi di aziende con lavoratori altamente qualificati che ritornavano sul mercato del lavoro senza che le imprese sapessero che quelle professionalità erano disponibili sul mercato del lavoro, perché manca un collegamento.
  Vorrei sapere se la maggiore spesa in questi Paesi riguardi anche l'utilizzo di questo collegamento tra chi mette in cassa integrazione o in mobilità, quindi getta i lavoratori negli ammortizzatori sociali, e chi invece fa un'offerta di mercato. Se ho capito bene, nel Regno Unito questo viene utilizzato come un investimento che tiene conto di questo fattore.

  LUISELLA ALBANELLA. Sempre in riferimento ai centri per l'impiego, vorrei porre una domanda a tutti i nostri auditi. Vorrei sapere infatti se rendere i centri per l'impiego di nuovo pubblici possa migliorare la qualità del servizio offerto ai lavoratori. Non dimentichiamo che in questo momento i centri per l'impiego hanno al loro interno una quantità enorme di lavoratori a loro volta precari, anzi possiamo dire che la maggioranza dei giovani che operano all'interno dei centri per l'impiego sono precari.
  Mi chiedo quindi se rendendo di nuovo pubblici i centri per l'impiego la gestione possa migliorare sia in merito alla possibilità di creare occupazione, sia rispetto ai servizi offerti ai lavoratori.

  GIOVANNA MARTELLI. Poiché il centro per l'impiego nel confronto odierno assume un ruolo centrale sia per il tema delle politiche attive che per il tema di tutte le fasi di orientamento che riguardano soprattutto i giovani, e visto che le Province italiane hanno un ruolo fondamentale nella gestione dei centri per l'impiego, chiederei se sia possibile audire Pag. 14l'Unione delle Province italiane per fare un'approfondita analisi della situazione della rete nazionale dei centri e capire quali possano essere le prospettive.

  PRESIDENTE. Prima di lasciare la parola ai nostri ospiti per la replica, desidero fare solo una piccola osservazione fuori programma. Oggi dalle audizioni è emerso un quesito cruciale: dove mettere i soldi e con quale obiettivo ?
  Voi ci avete spiegato che la differenza di fondo è tra incentivare l'impresa per assumere con lo sconto un lavoratore o incentivare l'incontro domanda/offerta per inserire un lavoratore. Mi pare che anche la proposta ultima del Governo sia sul fronte dell'incentivo all'impresa per assumere un lavoratore con lo sconto.
  Lo dico come nota di carattere politico, non ho nessuna pretesa di entrare nel merito adesso, e del resto non parteggio per nessuna delle soluzioni, ma ho sempre spinto per gli incentivi alle imprese per avere uno sconto sul costo del lavoro, ma capisco che oggi abbiamo introdotto un argomento che ci fa rilevare la differenza di impostazione fra l'Italia e altri Paesi ad alto tasso di occupazione, come ad esempio la Germania. Era solo una nota, di cui avremo modo di discutere.
  Do la parola ai nostri ospiti per la replica.

  PAOLO SESTITO, Dirigente della Banca d'Italia, esperto di monitoraggio e valutazione del mercato del lavoro. Parto da questa sua affermazione per fare solo una battuta. Ovviamente anche incentivare l'incontro tra domanda e offerta ha anch'esso i suoi problemi dal punto di vista dell'efficacia dell'eventuale incentivo, e attenzione anche a tener conto del fatto che incentivare l'incontro tra domanda e offerta, più che incentivare, significa creare un meccanismo. La creazione di un meccanismo non è cosa che si possa improvvisare dalla sera alla mattina.
  È evidente che come leva di immediato intervento gli incentivi alle imprese hanno dalla loro parte un potenziale di immediata, maggiore efficacia. Questo indipendentemente dal disegno di più lungo termine del sistema, che ovviamente è questione da affrontare.
  Aggiungerei che questa considerazione è vera anche rispetto al confronto tra incentivi che viaggino dal lato delle imprese, che sono la maggioranza, e incentivi che invece viaggino dal lato del mutamento delle convenienze fiscali nell'offerta di lavoro per i lavoratori. Questi secondi hanno una serie di vantaggi, innanzitutto quello di poter coniugare contrasto della povertà familiare e sostegno dell'occupazione, ma lo fanno proprio perché cambiano poco alla volta, passando per la percezione di milioni di persone, le convenienze relative ai comportamenti del mercato del lavoro. Sono comunque strumenti che meno bene si prestano come interventi congiunturali.
  Ritornando sulla questione delle imposte negative e del sostegno all'offerta di lavoro, nella memoria cito un paio di lavori, uno già pubblico, l'altro in via di pubblicazione, che mostrano esemplificativamente delle stime riferite all'Italia.
  Oggi, in Italia, l'apprendistato è prevalentemente uno strumento di assunzione a basso costo e in quanto tale spesso è spiazzato da altre cose. È un contratto che offre molti vantaggi alle imprese dal punto di vista contributivo, ma spesso le imprese hanno una sorta di remora a servirsi di questo strumento perché temono le potenziali ricadute burocratiche degli obblighi formativi. Spesso, quindi, il legislatore è intervenuto a volte aumentando, altre allentando queste remore.
  È una complicazione del quadro istituzionale il fatto che molti dei dettagli concreti di queste componenti formative siano in realtà prerogativa delle Regioni, quindi anche con una differenziazione della situazione e complicanze burocratiche ad esempio per un'impresa che, avendo più sedi, in una regione debba fare una cosa e altrove un'altra.
  Più in generale, al di là delle complicanze burocratiche, penso che ci sia da parte delle imprese il timore di andare incontro a complicanze legate a questa componente formativa.Pag. 15
  La considerazione che facevo è se abbia senso chiamare «apprendistato» cose eterogenee, nel senso che ci sono degli elementi che sarebbe auspicabile sviluppare lungo la via dell'apprendistato, imitando il sistema tedesco, in cui l'apprendistato non è l'ingresso di tutti i giovani, ma è un pezzo di sistema formativo per una frazione della popolazione giovanile e ha una forte componente formativa, ovviamente con problemi perché niente è perfetto e di questo elemento in Germania si discute.
  In Germania però ha questa funzione, laddove da noi l'apprendistato nei tre quarti dei casi, prendendo il 26 per cento che Cicciomessere citava come percentuale degli apprendisti che abbiano davvero svolto attività formative, è un contratto di inserimento al lavoro, per cui gli sgravi potrebbero essere anche meno sostanziosi e si potrebbe riconsiderare la finzione (perché alla fine questo diventa) di alcuni obblighi formativi specialmente esterni.
  Intervengo telegraficamente sui centri per l'impiego. I dati sulle spese sono nella tabella in coda all'intervento, la prima colonna della quale riguarda le spese per i centri per l'impiego, da cui si evince come l'Italia spenda poco. Non credo però che il problema sia esclusivamente di spesa: c’è un problema di organizzazione, di missione. La spesa per i servizi per l'impiego in un Paese come l'Olanda è una spesa pubblica che viene però canalizzata in maniera trasparente con meccanismi concorrenziali, in cui questa spesa viene posta a bando con criteri concorrenziali tra diversi soggetti privati.
  C’è un soggetto pubblico, che ha la funzione di gatekeeper, che assegna i clienti a diversi soggetti privati che forniscono il miglior servizio al minor costo.

  ALBERTO MARTINI, Professore associato di statistica economica presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università del Piemonte orientale, direttore dell'associazione per lo sviluppo della valutazione e l'analisi delle politiche pubbliche. Posso provare a fare arrabbiare tutti ? La fortuna eterna che hanno e avranno i sussidi per l'assunzione è il fatto che sono la cosa migliore che un politico possa fare per creare consenso, perché sono mirati, concreti, vanno al cuore del problema, possono essere completamente inutili ma questo non lo misuriamo, per cui i vari assessori di destra o di sinistra (li ho incontrati di tutti gli orientamenti) amano i sussidi all'occupazione perché creano consenso.
  Se si facesse veramente un'analisi dell'efficacia di questi strumenti, probabilmente si scoprirebbe che sono inefficaci, ma temo che questo non si farà mai. Lancio la sfida al Governo: provate per la prima volta a fare sussidi attaccandoci una valutazione sperimentale che è possibile fare in quel contesto, e vediamo che cosa succede. Fateli ancora una volta, magari sarà l'ultima. Non credo che questo mio appello verrà ascoltato.
  Le tecnicalità e Veneto Lavoro: si può fare in tutte le regioni perché i dati sono gli stessi, sono i dati delle Comunicazioni Obbligatorie (COB). Veneto Lavoro ha fatto più in fretta perché sono molto veloci, ma si può fare in tutte le regioni, è un calcolo molto semplice. Il limite è che si guarda la serie storica e si vede se sia perturbata in coincidenza con l'emissione dei sussidi.
  Quello è un approccio molto debole, perché tante ragioni possono perturbarla. Potrebbero essere i sussidi, potrebbe essere altro, quindi mostrano la corda, mentre un approccio sperimentale è molto più robusto.

  ROBERTO CICCIOMESSERE, Ricercatore a contratto, esperto di valutazione dei centri per l'impiego. Signor presidente, un aspetto appare prioritario nelle considerazioni che sono state fatte, ed è il problema del monitoraggio e della valutazione.
  Finché il nostro Paese non si darà gli strumenti per monitorare le politiche, non solo quelle del lavoro, gireremo intorno ai discorsi, perché tecniche specifiche di tipo controfattuale consentono di dire se una politica sia stata efficace o meno, tenendo conto che deve essere dichiarato ex antePag. 16l'obiettivo, perché, se l'obiettivo del politico è proprio quello di avvantaggiare un gruppo sociale, lo ha raggiunto.
  Il monitoraggio e la valutazione oggi si possono fare con strumenti amministrativi potentissimi come le Comunicazioni Obbligatorie, ma ci sono altri archivi amministrativi, da quelli dell'INPS a quelli che dovrebbero avere gli stessi centri per l'impiego, i SIL, senza i quali si discute a vuoto.
  Vengo al problema sollevato dall'onorevole Miccoli. Nell'investimento per un centro per l'impiego non basta mettere dei soldi, ma, se non ci sono i soldi, non ci sono i dipendenti e non si fa nulla, ed è questa la situazione italiana, ma l'elemento di maggiore criticità del centro per l'impiego è la mancata conoscenza della domanda.
  Il centro per l'impiego ha un solo cliente: il disoccupato. Il Jobcentre Plus ha per il 50 per cento il disoccupato e per il 50 per cento l'impresa che ha bisogno di essere aiutata per coprire i posti vacanti. Se non si hanno questi due clienti, non si può incrociare domanda e offerta. I centri per l'impiego del Piemonte sono i migliori e fanno persino attività di scouting sulle imprese, per non parlare di Pordenone e dell'Emilia-Romagna, situazioni in cui stiamo parlando di altro, anche se con risorse modeste.
  Se però manca la conoscenza della domanda, cosa che in Italia è molto frequente, si fa occupabilità e non occupazione, cioè si fa formazione in modo che teoricamente il giovane sia occupato.
  In Francia c’è una quota del 33 per cento di professionalità per il lavoro sulle imprese, ovvero per aiutare le imprese a coprire i posti vacanti, nel Regno Unito è il 51,1 per cento. Si tratta di un'attività forte, che non può essere fatta solo a livello provinciale o sulla base di indirizzi regionali: ci deve essere un'agenzia nazionale che stabilisce standard e indirizzi per i centri per l'impiego.
  Rispetto alla sua domanda la mia risposta è univoca, nel senso che non è un caso che molti Paesi spendano moltissimo per politiche attive del lavoro che possono anche funzionare se si è molto bravi.
  Tutti hanno i centri per l'impiego per tanti motivi, uno dei quali è stato ricordato: consente di risparmiare sui sussidi di disoccupazione. Solo se uno ha una struttura in grado di controllare, di aiutare, di essere sopra il rapporto 1 a 19 disoccupati nel Regno Unito e 1 a 200 in Italia, ti consente di stare sulla persona.
  Uno dei princìpi basilari nei centri per l'impiego di tutto il mondo è che ogni utente disoccupato deve essere seguito da un solo operatore, che conosca tutta la sua storia, i bisogni professionali, soprattutto in Italia dove la norma prevede che un disoccupato che non accetti un'offerta di lavoro o di formazione decada dal beneficio. Mi chiedo però quale centro per l'impiego sia in grado di fare un'offerta di lavoro (al limite, forse un'offerta di formazione).
  Tutte queste questioni pongono problemi complessi, ma risolvibili, perché i modelli ci sono, ci sono le esperienze, molte Regioni li hanno realizzati anche in termini di valutazione ex post ed ex ante del controllo.
  Chiudo con una battuta. C’è un'ultima distorsione che appare in una pubblicazione della Banca d'Italia di giugno di Barone e Narciso: l'effetto mafia. Barone e Narciso hanno condotto una ricerca da cui risulta che gli incentivi alle imprese si concentrano nelle regioni dove c’è il massimo tasso di criminalità organizzata.

  PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15,55.

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