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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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XVII Legislatura

Commissione parlamentare per le questioni regionali

Resoconto stenografico



Seduta n. 3 di Mercoledì 9 aprile 2014

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Balduzzi Renato , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE QUESTIONI CONNESSE AL REGIONALISMO AD AUTONOMIA DIFFERENZIATA

Audizione del professor Francesco Palermo e del presidente della regione Valle d'Aosta Augusto Rollandin.
Balduzzi Renato , Presidente ... 3 
Palermo Francesco , Professore associato di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi di Verona e direttore dell'Istituto per lo studio del regionalismo e del federalismo presso l'Accademia europea di Bolzano ... 3 
Balduzzi Renato , Presidente ... 8 
Rollandin Augusto , Presidente della regione Valle d'Aosta ... 8 
Balduzzi Renato , Presidente ... 10 
Dalla Zuanna Gianpiero  ... 10 
Kronbichler Florian (SEL)  ... 11 
Balduzzi Renato , Presidente ... 11 
Kronbichler Florian (SEL)  ... 11 
Plangger Albrecht (Misto-Min.Ling.)  ... 11 
Cotti Roberto  ... 11 
Laniece Albert  ... 12 
Balduzzi Renato , Presidente ... 12 
Palermo Francesco , Professore associato, di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi di Verona e direttore dell'Istituto per lo studio del regionalismo e del federalismo presso l'Accademia europea di Bolzano ... 12 
Balduzzi Renato , Presidente ... 14 
Rollandin Augusto , Presidente della regione Valle d'Aosta ... 14 
Balduzzi Renato , Presidente ... 15

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE RENATO BALDUZZI

  La seduta comincia alle 14.25.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
  (Così rimane stabilito).

Audizione del professor Francesco Palermo e del presidente della regione Valle d'Aosta Augusto Rollandin.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del senatore professor Francesco Palermo e del presidente della regione Valle d'Aosta Augusto Rollandin.
  Ringrazio i nostri ospiti e do la parola al professor Palermo per lo svolgimento della relazione.

  FRANCESCO PALERMO, Professore associato di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi di Verona e direttore dell'Istituto per lo studio del regionalismo e del federalismo presso l'Accademia europea di Bolzano. Nonostante vari concomitanti impegni, mi è stato chiesto di restare entro il quarto d'ora, come farò scrupolosamente, sperando che vi sia un minimo di interesse per un dibattito e una discussione.
  Mi concentrerò su pochi punti essenziali: una prima introduzione, che mi sembra necessaria per capire di cosa stiamo parlando; un secondo punto centrale sul concetto di specialità, soprattutto come declinato dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, evidentemente con particolare riferimento alle relazioni finanziarie; una breve conclusione su dove stiamo andando e dove si può andare.
  Partendo dal quadro generale di contesto, come dirò meglio dopo, a mio avviso siamo partiti male già dalla terminologia. In realtà, l'espressione «regioni speciali», che non è la terminologia costituzionale, indica una qualche forma di estraneità rispetto al sistema. Questa, come cercherò di sviluppare in seguito, è una tara genetica che il sistema si è portato dietro. «Speciale» significa da trattare separatamente ed anche che non fa parte, almeno non compiutamente, del disegno nazionale complessivo. Alla fine è venuta, purtroppo, al pettine una serie di nodi che ci siamo portati dietro per troppo tempo.
  Ancora più in generale, quando parliamo di autonomia bisogna essenzialmente intendersi, anzitutto e fondamentalmente su due punti. Come ha scritto recentemente anche Roberto Bin, ed in ciò mi trova totalmente d'accordo, autonomia significa differenziazione. Non può esserci, cioè, un'autonomia là dove le regole sono uguali per tutti. Sarebbe una contraddizione logica, prima ancora che giuridica. Uniformità non coincide con autonomia. Il federalismo o è almeno parzialmente asimmetrico o semplicemente non esiste.
  Il secondo significato di autonomia è quello di responsabilità. La conseguenza della possibilità di compiere delle scelte autonome è anche, evidentemente, la necessità di pagare gli effetti diretti di quelle scelte medesime. In una comunità di diritto è necessario poter individuare la responsabilità delle scelte. Quando si Pag. 4tratta di una responsabilità diluita sul piano nazionale, ciò diventa molto difficile.
  È evidente che queste scelte devono essere, per usare un termine alla moda, rendicontate. Io vengo dalla provincia autonoma di Bolzano, dove sono presenti, per restare ad un tema sicuramente caro al presidente Balduzzi, sette ospedali per 500 mila abitanti. Costano tanto ? Certo, costano tanto. Sono giustificati ? Dipende, non è una domanda cui si possa dare una risposta semplice.
  Il problema è che, naturalmente, le condizioni orografiche sono di un certo tipo, gli spostamenti sono molto diversi e via dicendo. Al di là, però, di tale questione specifica, la domanda di fondo è: chi deve decidere ? È Roma che, con criteri più o meno pseudomanageriali e drammaticamente uniformi e omogenei, può dettare regole valide per tutti, a prescindere dalle scelte autonome del territorio, o è il territorio che decide sovranamente di investire di più in sette ospedali, oggettivamente tanti rispetto alla popolazione complessiva, piuttosto che investire da un'altra parte ? Questa è la domanda che dobbiamo rivolgerci.
  Se non teniamo conto dei concetti di differenziazione e responsabilità, non si parla non soltanto di autonomia speciale, ma neanche di autonomia tout court. Questa tendenza all'appiattimento e all'uniformità delle regole è una costante che in Italia si sta verificando, a mio giudizio, in relazione ad una serie di profili che vanno ben oltre la questione dell'ordinamento regionale.
  Un esempio noto a noi tutti è la recentissima disposizione in materia di riforma delle province: riforma nobile e dalle buone intenzioni, attinente un problema che si trascina dalla legge del 1865, per cui è impensabile sostenere che non si dovesse mettere mano al tema. Il punto è che si è dettata dal centro una disciplina uniforme per tutti i territori e quindi – per dirla in senso plastico – della eliminazione delle province in Umbria o nel Molise magari non si accorge nessuno e così facendo si determina anche un favore immediato – le regioni, infatti, sono già di area vasta – ma in Lombardia quella medesima operazione ha un impatto molto diverso. La questione, ancora una volta, non è nel merito, ma è: chi deve decidere in questa materia ? Abbiamo o non abbiamo l'autonomia ?
  Il rischio che mi pare di scorgere è che la ricerca necessaria della semplificazione, all'interno di un sistema che va a mano a mano rendendosi sempre più complesso, finisca nella banalizzazione e questo, invece, rappresenta un problema molto grave. Proprio in quest'aula, dove si riunisce talvolta anche la Commissione parlamentare per la semplificazione, al termine di una lunga indagine conoscitiva è stato addirittura proposto, a fini di semplificazione, di sopprimere la competenza legislativa delle regioni: questo è il rischio al quale stiamo andando incontro, quando cerchiamo di fornire ad esigenze e problemi molto tangibili, concreti e reali risposte probabilmente peggiori del male.
  In proposito, sono state presentate alcune proposte di legge che non mi pare il caso di approfondire in questa sede, visto il poco tempo a disposizione. Oltretutto, vista l'urgenza delle tematiche oggetto di dibattito, mi sembra che dette proposte non avranno un seguito, per cui mi permetterei di passare oltre.
  Un altro punto cruciale concerne la specialità e, in particolare, la specialità finanziaria. Come dicevo all'inizio, scontiamo un problema storico e culturale che adesso forse è venuto il momento di chiarire. Come accennavo in precedenza, la specialità è vista come eccezionalità, come qualcosa di particolare, di estraneo, di avulso, di diverso. In realtà, stiamo parlando di un quinto delle regioni, di un quarto del territorio nazionale, del 15 per cento della popolazione, che mi sembrano eccezioni piuttosto corpose.
  Questa tendenza all'eccezionalità della specialità è stata, evidentemente, assecondata molto da alcune regioni, come quella da cui provengo, che è stata forse maestra nella cultura dell'eccezionalità, attraverso il ricorso a moltissime norme di attuazione meno visibili, negoziate in consessi non Pag. 5necessariamente trasparenti, con la ricerca di soluzioni ad hoc. È un pragmatismo che ha pagato sicuramente in termini di sviluppo dell'autonomia ma che, per altro verso, ha accentuato questa caratteristica dell'eccezionalità.
  Altre regioni, soprattutto le due isole naturalmente, hanno intrapreso la strada opposta, cercando di seguire solo la via politica e non quella istituzionale. Di fatto, sono entrate nelle logiche delle dinamiche nazionali e, di conseguenza, nella prassi sono uscite dall'alveo della specialità. La specialità è stata lasciata soltanto alle regioni alpine, in maniera tra l'altro diversa tra di loro. Andrebbe aperta una parentesi interessante sulla cultura autonomista, che non ha niente a che vedere con lo status di regioni ordinarie o speciali. Evidentemente, infatti, esistono culture autonomistiche molto sviluppate in territori di regioni a statuto ordinario e, viceversa, culture autonomistiche affatto sottosviluppate in altri territori.
  In ogni caso alcune regioni, come Sicilia e Sardegna, hanno annullato la specialità, altre l'hanno resa invisibile. In questo modo, si è formata nel tempo una doppia incomunicabilità tra Stato e regioni speciali: da un lato, per lo Stato quelle regioni sono, appunto, speciali; dall'altro le regioni speciali, quando lo fanno, si organizzano in maniera più o meno segreta e diplomatica.
  Che qualcosa non funzioni mi pare evidente anche da un dato normativo elementare: dopo il 2001, quando pure si era previsto all'articolo 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 che a regime vi fosse un adeguamento degli statuti speciali, tutti gli statuti ordinari, come sapete benissimo, sono stati adeguati, mentre nessuno statuto speciale lo è stato. È chiaro che qualcosa non funziona. Con la riforma che viene portata avanti, in base alla quale l'adeguamento non avviene in melius ma necessariamente avverrà in peius, il rischio molto plausibile è che nessuna regione speciale lo faccia mai più e che, se non si coglie adesso l'occasione dell'adeguamento, gli statuti resteranno congelati allo stato attuale con la conseguenza di diventare sempre più avulsi non soltanto rispetto al sistema nazionale ma anche, quel che forse è più grave, rispetto alla loro funzione di essere norme fondamentali per regolare la vita dei cittadini. Già oggi chi legge uno qualsiasi degli statuti speciali non capisce la realtà. Lo statuto si è già molto fortemente discostato. Il rischio è di andare ulteriormente in questa direzione.
  La Corte costituzionale ci dice una cosa che negli ultimi tempi è venuta anche in qualche modo superando. Secondo la sentenza n. 213 del 1998, straordinariamente importante per il significato giuridico delle norme di attuazione, la specialità significa bilateralità. Quello che caratterizza la regione speciale è avere un rapporto bilaterale con lo Stato, che si concretizza nella sua esperienza concreta, ossia nell'attuazione storico-concreta dell'autonomia, attraverso le norme di attuazione.
  Quello che dicevo prima si riscontra anche in termini numerici. Il Trentino-Alto Adige ha un numero di norme di attuazione trenta volte maggiore di quello della Sicilia, per cui l'attuazione storico-concreta è effettivamente molto diversa. Nel 1998, quindi, secondo la Corte il principio è pattizio, bilaterale.
  Arrivo alla sentenza della Corte costituzionale n. 23 del 2014, che porta a coronamento un percorso giurisprudenziale già abbastanza consolidato: in base ad essa, è possibile «discostarsi dal modello consensualistico». In precedenza il modello era definito pattizio, ma il senso è lo stesso. Di conseguenza, oggi secondo la Corte costituzionale la specialità è derogabile, a corrente alternata e, soprattutto, è di fatto decostituzionalizzata. Non c’è più nemmeno la garanzia dello statuto.
  Da un'analisi approfondita della giurisprudenza costituzionale, che sicuramente avrete già effettuato e che dunque non ripeterò in questa sede, si capisce un fatto molto semplice, nell'ottica non soltanto del professore ma direi dell'avvocato che deve difendere le regioni davanti alla Corte: le regioni speciali vincono le pochissime cause che riescono davanti alla Corte costituzionale Pag. 6soltanto in presenza, da parte dello Stato, di palesi violazioni procedurali al principio di leale collaborazione.
  In una serie di specifiche sentenze, lo Stato ha violato palesemente la leale collaborazione. Mi viene in mente la sentenza sulle calamità naturali, nella parte relativa alla nomina del commissario straordinario senza nemmeno l'intesa o il parere delle regioni interessate. Violazioni di questo tipo conducono a qualche vittoria processuale delle regioni, altrimenti ciò non accade.
  La conseguenza di tutto ciò, abbastanza preoccupante in una prospettiva futura di sistema, è che l'unica garanzia giuridica per le specialità, l'unico baluardo ad oggi ancora presente, considerata anche la marginalizzazione dello statuto e la possibilità di tagliarlo trasversalmente in via interpretativa, sono appunto le norme di attuazione. Non c’è stato ancora un caso di dichiarazione di incostituzionalità delle normative di attuazione. Perfino le disposizioni statutarie sul riparto di competenze e sui rapporti finanziari, come sapete, sono state ampiamente aggirate, non già dichiarate costituzionalmente illegittime, ma tagliate come il burro da norme trasversali, dagli accantonamenti, dal patto di stabilità, tutte questioni che la Corte costituzionale ha ritenuto ammissibili in quanto espressione del principio del potere concorrente, per chi non lo ricordi, del coordinamento della finanza pubblica.
  Di fatto oggi il filo sottilissimo che lega la specialità alla sua natura costituzionale, cioè la parte non decostituzionalizzata della specialità, è la capacità di elaborare norme di attuazione. Questo è rimasto l'unico elemento, purtroppo, di concretizzazione della specialità.
  Ma quali sono le alternative ? Quanto detto lo si vede ancora moltissimo nel campo dei rapporti finanziari. Si è, ad esempio, seguita la strada «meno soldi e più garanzie», ossia la strada successiva alla legge n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale, ma anche quelle disposizioni alla fine sono state derogate. Ulteriori alternative consisterebbero in «più soldi e meno garanzie», ma ciò evidentemente non è plausibile, o, ancora, in «meno soldi e meno garanzie», ma così cancelliamo del tutto l'autonomia. A questo punto, non abbiamo altra possibilità che ipotizzare, se la specialità ha un senso, il recupero dell'elemento pattizio, anche sul versante finanziario.
  Gli errori sono molti, commessi da tanti e non ha neanche molto senso piangere sul latte versato, ma certamente non sono addebitabili soltanto allo Stato, che forse in qualche modo fa il suo mestiere, soprattutto quando si tratta di raggranellare soldi.
  È un errore della categoria degli accademici. Non esiste, come ha scritto Sergio Bartole molto bene, una dottrina delle autonomie speciali, perché anche nell'elaborazione dottrinaria è stata sostenuta la tesi della specialità intesa come eccezionalità.
  Molti sbagli sono stati commessi anche dalle regioni, che si sono mosse in ordine sparso, forse per la convenienza del momento. Oggi però non abbiamo la specialità, ma ben sette specialità diverse, cioè quelle delle quattro regioni e delle due province autonome di Trento e Bolzano e, per quel che vale, della regione Trentino-Alto Adige. Questa frammentazione della specialità, con conseguente eccezionalità, crea l'effetto dei capponi di Renzo. Tutte le regioni speciali cercano di salvare il salvabile, ma la tendenza è abbastanza negativa per tutti.
  L'errore spesso commesso, che nella provincia di Trento si riscontra più clamorosamente, è l'invocazione di ragioni storiche, minoranze e quant'altro, tutti elementi assolutamente fondamentali ma che dimostrano un'incapacità di costruzione della specialità guardando al futuro. In questo modo, ci si limita alla specialità della provincia di Bolzano e forse di una piccola parte della Valle d'Aosta, dopodiché è finita la questione. È questo il contesto nel quale muoversi ?
  In conclusione, dove andiamo e che cosa facciamo ? Se sarà approvato il testo di riforma costituzionale appena presentato in Parlamento dal Governo, mi pare che, rispetto a tutte le diverse opinioni che Pag. 7si possono avere, una cosa sia chiarissima: si andrà verso un drammatico accentramento della funzione, se non altro di quella legislativa. Le regioni ordinarie diventeranno essenzialmente enti locali, perdendo quasi interamente la competenza legislativa e, appunto, al massimo diventeranno organismi di natura amministrativa.
  La conseguenza che allora diventa forse più logica è quella di una rappresentanza nel Senato delle cosiddette autonomie di sindaci e presidenti di regione, che a questo punto sarebbero la stessa cosa. Per dirla con uno slogan, dopo aver avuto le regioni senza Camera avremo la Camera senza le regioni.
  Inoltre, questa proposta codifica quello che la giurisprudenza costituzionale onestamente ha già detto negli ultimi anni: accanto alle materie ci sono le funzioni, indicate expressis verbis in Costituzione. Inoltre, si rafforza la clausola di supremazia, che peraltro già esiste nell'articolo 120 della Costituzione stessa, per cui sarebbe una sostanziale ripetizione.
  Come sappiamo, la giurisprudenza costituzionale sempre più di frequente ha inventato espressioni come «materie trasversali», «materie-obiettivo», «materie-valore», «materie non materie», espressioni della Corte costituzionale, non mie: è cioè possibile entrare in qualunque momento.
  Il paradosso è che le uniche competenze garantite alle autonomie speciali rischieranno di essere quelle date dalle norme di attuazione. Se, infatti, lo Stato accentrerà in capo a sé tutte le competenze, potrà poi trasferirle con norma di attuazione, che va ben oltre lo statuto, con le conseguenze, anche in termini di stato di diritto, che si prevedono.
  Certo, si dirà che esiste la norma di salvaguardia. Quella precedente del 2001 ha creato un'eterogenesi dei fini perché sostanzialmente è stata il canale di entrata di una serie di attribuzioni statali all'interno della sfera autonomistica. Anziché come garanzia, ha cioè operato come limitazione, perché sono entrati tutti gli elementi trasversali contenuti nella riforma del Titolo V della Costituzione del 2001.
  Il punto conclusivo è che, a maggior ragione se questa riforma dovesse entrare a regime, le regioni speciali – perlomeno quelle che rimangono tali, dal momento che forse quelle insulari sono già finite – diventerebbero ancora più eccezionali, ancora più corpi estranei, di modo che potranno aumentare le tensioni, le invidie, le questioni sui confini e via discorrendo. Quanto più un ente è eccezionale, infatti, tanto più occorre dimostrare argomentativamente quest'eccezionalità.
  L'espressione «autonomia speciale» – che è una contraddizione in termini, perché l'autonomia o è autonomia, e allora è anche speciale, diversificata, o non è, perché è omogenea ed è allora molto meglio l'espressione «condizioni particolari» di cui all'articolo 116 della Costituzione – rischia in realtà di diventare vera, come una profezia che si autoavvera, nel senso che rischiano di diventare davvero speciali, cioè eccezionali, le autonomie che restano, a scapito anche dell'unitarietà, della coerenza, della sistematicità dell'ordinamento giuridico, con tutti i rischi connessi per la tenuta dell'ordinamento stesso, anche per lo Stato e non soltanto per le regioni. È fondamentale che se ne parli.
  È un peccato, poi, che alla fine a partecipare a questi incontri siano sempre quelli che vengono dalle regioni a statuto speciale, cioè che molto spesso si finisca per parlarsi addosso e che questo tema, proprio in quanto eccezionale, non interessi più di tanto. Questo rischia di aumentare il fossato di eccezionalità.
  La domanda su cui vi lascio e alla quale non spetta a me, almeno in questa veste, cercare di rispondere è questa: si può davvero pensare al di là della specialità specifica – scusate il gioco di parole – di gestire dal centro e solo dal centro un Paese complesso, diversificato, eterogeneo come l'Italia e, quel che è peggio dal mio punto di vista, con regole uniformi ?
  Tutti ricordiamo dai tempi della scuola, quando si faceva la lezione di chimica, che, versato in due liquidi diversi, entrambi Pag. 8trasparenti, uno stesso liquido dava, rispettivamente, la provetta blu e quella rossa. Oggi le leggi uniformi in Italia funzionano esattamente così: noi ci illudiamo che ci sia un'uniformità su tutto il territorio, ma calata nei diversi contesti essa si declina in maniera radicalmente diversa.
  Vogliamo continuare con questa idea dell'uniformità ? Vogliamo cercare di ricondurre a sistema l'eccezione rendendo più speciali gli ordinari, parlando di autonomia tout court, o vogliamo cercare di difendere il poco di difendibile che rimane in una logica rivendicativa delle autonomie speciali, di cui non beneficia né lo Stato né le autonomie speciali ?
  Resto a disposizione per ulteriori chiarimenti.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il professor Palermo, che ha parlato soprattutto da professore, ma senza dimenticare l'altra giacca. Vorrei tranquillizzare circa la composizione dell'uditorio: esiste un resoconto stenografico, quindi nulla va perduto, e le condizioni della vita parlamentare, che per la veste di senatore il professor Palermo conosce bene, sono tali per cui non posso che dirmi contento della partecipazione ai lavori di oggi. Tra l'altro, le Commissioni bicamerali vivono una vita difficile, strette tra l'Assemblea e le Commissioni dei due rami del Parlamento.
  Nel ringraziare il professor e senatore Palermo, do la parola al presidente Rollandin.

  AUGUSTO ROLLANDIN, Presidente della regione Valle d'Aosta. Ringrazio anch'io per l'opportunità che ci viene offerta di esprimere alcune valutazioni. Per quanto mi riguarda, naturalmente non sarò così dotto e ampio come il professor Palermo sull'insieme della valutazione che è stata fatta, e che condivido, sulle specialità. Mi riferirò, invece, più specificatamente alle caratteristiche della Valle d'Aosta, portando comunque un contributo a quella che è in qualche modo la valutazione sulle difficoltà che le regioni speciali incontrano in questo momento.
  Le varie ipotesi di soppressione delle regioni a statuto speciale e di un loro accorpamento in forme sempre più fantasiose ad altri enti regionali sono oggi argomento ricorrente all'interno del Parlamento. Senza entrare nel merito delle singole proposte avanzate in sede parlamentare nel corso di questa legislatura, mi limiterò ad alcune osservazioni di carattere generale sui temi dell'indagine conoscitiva e sulle questioni connesse al regionalismo ad autonomia differenziata che la Commissione parlamentare per le questioni regionali ha avviato e a cui ho aderito per portare questo piccolo contributo.
  Vi è, innanzitutto, alla base di questi interrogativi una scarsa conoscenza, se non in qualche caso un voluto fraintendimento, circa la reale situazione strutturale della regione da me presieduta e di altre regioni a statuto speciale. Il modello politico-amministrativo costruito nel corso di quasi settanta anni di esistenza della regione Valle d'Aosta può ben essere guardato nel suo complesso e sulla base di molteplici indicatori come un esempio riuscito di autonomia politica, di decentramento territoriale interno, di convivenza interculturale, di partecipazione civica, di integrazione sociale, di welfare e di protezione dell'ambiente naturale.
  Sotto ciascuno di questi profili, il confronto con le altre regioni italiane ci vede collocati in posizione di tutto riguardo, e lo stesso vale anche per altre regioni a statuto speciale. Le opinioni espresse da più parti circa condizioni di presunto, eccessivo favore nel nostro regime finanziario si reggono, come dimostrato da autorevoli recenti studi, su argomenti fondati su statistiche oggettivamente e gravemente falsate da un certo numero di fattori rilevantissimi del calcolo della spesa pubblica pro capite di cui non si tiene volutamente conto: le ridotte dimensioni e le particolarità geomorfologiche della regione, l'accorpamento fin dal 1945 dell'ente provinciale con la regione, il finanziamento da parte della regione stessa di moltissimi servizi, altrove erogati e finanziati dallo Stato, quali istruzione, Pag. 9sanità, protezione civile, vigili del fuoco ed una finanza locale interamente gravante sulle casse regionali, per non citare che alcuni dei principali esempi.
  Per quanto riguarda, oltretutto, il concorso al risanamento finanziario del Paese e la lotta agli sprechi, vorrei ricordare che la regione Valle d'Aosta è stata estremamente sollecita nel discutere e concordare con lo Stato nel 2011, in forza della legge n. 42 del 2009 richiamata dal professore Palermo, la ridefinizione del nostro regime finanziario.
  La nostra regione sta, peraltro, attraversando una fase economica particolarmente difficile, oltre che per il cospicuo ridimensionamento della sua finanza in conseguenza di tale accordo, anche per effetto di una legislazione di emergenza che ha penalizzato fortemente, unilateralmente e incostituzionalmente l'equilibrio finanziario regionale.
  L'affermazione, poi, che la specialità dell'ordinamento regionale sia da ricondursi esclusivamente a motivazioni culturali e linguistiche, in riferimento alle quali la regione si fa peraltro carico finanziando integralmente il proprio sistema culturale, scolastico e universitario, conduce a erronee conclusioni.
  La situazione di bilinguismo proprio della Valle d'Aosta è sicuramente stata, infatti, una delle cause principali, come ha ricordato il professor Palermo, ma non l'unica dell'attribuzione di un regime di autonomia differenziata. Anche altri caratteri propri della Valle d'Aosta, di natura storica, geomorfologica, economica e sociale vi concorrono fortemente.
  La nostra consuetudine plurisecolare all'autogoverno, che portò già dal 1945 alla richiesta, da parte di una quota importante della popolazione, di un referendum istituzionale o plebiscito sulla permanenza o meno nel quadro della sovranità statale italiana, determinò le condizioni di un serrato negoziato, sfociato poi nel decreto del 7 settembre 1945 e nel raggiungimento di un pactum costituzionale tra la Valle d'Aosta e il resto del Paese che non potrebbe nella sua sostanza essere oggi rimesso in discussione senza provocare gravissime conseguenze.
  Quanto all'idea di una presunta antistoricità dei regimi speciali, mi limito a rilevare come questo pensiero abbia una matrice molto singolare e sia del tutto privo di fondamento. In Europa, come nel resto del mondo, le forme di federalismo e di regionalismo asimmetrico e il consolidamento dei regimi di autonomia speciale sono in costante crescita.
  Grazie al fatto di assecondare il naturale desiderio di responsabilità, che è già stato citato, e autonomia delle popolazioni che la rivendicano e di adeguare gli ordinamenti alle particolarità culturali ed economiche dei diversi territori, esse si rivelano ovunque un antidoto prezioso a tutte quelle forme di centralismo, di omologazione forzata e di oppressione che generano risentimenti e conflitti. Credo che le questioni degli ultimi giorni lo dimostrino.
  La maggior parte dei sistemi federali e regionali del mondo presenta caratteri di asimmetria per molti versi simili al nostro. Ciononostante, si è registrato negli ultimi anni un crescente clima di ostilità nei confronti di tutto il sistema delle regioni e degli enti locali, spesso provocato e alimentato ad arte, quasi fossero loro imputabili in via esclusiva o comunque prevalente le ragioni delle attuali difficoltà economiche e del malfunzionamento dei servizi pubblici.
  È nostra convinzione che gli sprechi, le inefficienze, i comportamenti illegali vadano combattuti e contrastati nel modo più radicale, ma senza cadere in populismi antiistituzionali ai danni proprio delle istituzioni più prossime ai cittadini che, come nel caso dell'intero sistema delle autonomie valdostane, hanno dimostrato di saper operare in modo responsabile e in sintonia con le aspettative della comunità.
  Purtroppo dobbiamo lamentare che una sana cultura regionalistica, fondata sul rispetto delle differenze e della consapevole e reciproca solidarietà, continua ad avere difficoltà a radicarsi in Italia, ciò oltretutto in una cornice istituzionale generale che ancora non vede le regioni Pag. 10partecipi, come in ogni serio e compiuto sistema federale, delle decisioni fondamentali adottate a livello parlamentare.
  Vorrei ancora aggiungere che senza un sistema autonomistico efficace e robusto nell'arco alpino sarebbero le stesse politiche di coesione territoriale europea a essere gravemente pregiudicate, con gravissimo danno per l'intero Paese e per il suo riavvicinamento ai sistemi locali più prossimi, contraddistinti da robuste autonomie politiche e amministrative.
  Anche per questo, mentre esprimiamo forte interesse al consolidamento di strumenti di cooperazione interregionale europea, come quella cui ha concorso la nostra macroregione alpina, rigettiamo ipotesi di accorpamenti forzosi di regioni fondati su ragioni di miope economicismo.
  La discussione dovrebbe, invece, a nostro modo di vedere concentrarsi urgentemente sulle strategie per migliorare il funzionamento delle istituzioni, le loro relazioni reciproche, il radicamento di condizioni di democrazia partecipata e responsabile, nel rispetto e non nella cancellazione delle identità storiche, nel rafforzamento e non nell'eliminazione di sensibilità comunitarie plurisecolari ed aperte.
  Per queste ragioni, mi rammarico che ci si trovi ancora a discutere in Italia, dopo settanta anni, dell'opportunità o meno di mantenere in vita le regioni a statuto speciale, rimettendo per l'ennesima volta in discussione ragioni consolidate che hanno portato non solo a superare le gravissime conflittualità e le prevaricazioni del periodo prebellico, ma a creare negli anni un clima di positiva e benefica convivenza sociale e istituzionale. L'Italia ha bisogno di autonomie forti e articolate, non di cullarsi nell'illusione dei benefìci di un antistorico neocentralismo.
  Con questo spirito, nel ringraziare ancora per l'opportunità che mi è stata offerta di esporre queste poche considerazioni, auspico un positivo lavoro e l'approfondimento dell'indagine da parte della Commissione parlamentare per le questioni regionali.
  Vorrei ancora aggiungere che, per quanto riguarda le valutazioni sulle norme di attuazione, lamentiamo il fatto che, purtroppo, su questo c’è una notoria disattenzione. Per quanto ci riguarda, da diciassette mesi non abbiamo la Commissione paritetica funzionante. Conoscendo il ruolo essenziale di queste norme, come già ricordato dal professore Palermo, che vanno a integrare il sistema giuridico delle regioni, vogliamo sottolineare nuovamente che questo è un dato essenziale per garantire la capacità di raccordo tra le istituzioni nazionali e regionali.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il presidente Rollandin, che ci ha anche lasciato il testo scritto. Disporremo quindi in anticipo, almeno per la maggior parte del suo intervento, del resoconto stenografico. Ringrazio ancora il professor Palermo, che ci ha lasciato un testo ulteriore e, prima di passare la parola ai colleghi, aprirei la discussione ponendo alcune questioni.
  La prima domanda riguarda una valutazione sulla formula della legislazione concorrente all'italiana, sia in generale sia nella sua applicazione da parte degli statuti di autonomia speciale.
  Inoltre, vorrei chiedere a entrambi i nostri ospiti se considerano il meccanismo, il modello introdotto dall'articolo 11 della legge costituzionale del 2001, quello che avrebbe permesso, attraverso i regolamenti parlamentari, l'integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali con rappresentanti di regioni e autonomie locali – abbiamo avuto modo in più occasioni di ritornare su questo aspetto del nostro ordinamento costituzionale, rimasto ancora in attesa di attuazione – ancora praticabile, almeno sperimentalmente, proprio per dare un minimo di base a ulteriori cambiamenti della fisionomia costituzionale della seconda Camera.
  Do ora la parola agli onorevoli colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  GIANPIERO DALLA ZUANNA. Ringrazio molto per i due interventi, che vanno Pag. 11a sommarsi ad altre cose molto interessanti, almeno per me che sono un neofita del tema, che sono state dette dagli altri soggetti auditi nel corso di questa indagine conoscitiva.
  Vorrei formulare una domanda generale ad entrambi i nostri ospiti, in quanto, oltre a essere esperti del tema, provengono anche da realtà consolidate di autonomie regionali e provinciali. In questo periodo, la mia regione, il Veneto, è scossa da venti di tipo indipendentista e si sente dire tutto e il contrario di tutto. C’è chi evoca il discorso dell'autonomia, chi quello dell'importanza di un centralismo, chi sostiene che la regione se la sia voluta di essere ridotta in questo stato. È anche difficile capire bene quale possa essere una barra, una direzione.
  Penso che abbiamo un'occasione abbastanza unica in Senato in questi due mesi, e dopo in Parlamento, di mettere le mani su questi temi, pertanto sgomenta vedere l'impostazione centralistica data all'idea di riforma del Titolo V della Costituzione.
  Tra l'altro, l'impressione è che l'enfasi, come dicevamo anche prima, data sulla composizione del Senato in un certo senso nasconda forse la vera modifica importante proposta, tanto è vero che, se la modifica va in quella direzione di cui si è detto parlando del Titolo V, si capisce anche come mai si pensa a un Senato composto non da senatori, per certi versi, bensì da persone che hanno un altro lavoro e che vi parteciperebbero ogni tanto, non si capisce bene per fare cosa. Se si deve essere il sindaco o il presidente della Valle d'Aosta o il presidente della provincia di Bolzano, dubito che si abbia poi tempo di leggere le leggi approvate dalla Camera per esprimere su di esse un parere o altro.
  È pensabile, invece, cercare di invertire un po’ la direzione, che è forse quello che stiamo provando anche a fare con queste audizioni ? Si potrebbe riguardare a ciò che è accaduto in settanta anni di storia delle autonomie speciali per verificare se l'Italia, impostandosi, andando in quella direzione, non possa cercare di diventare proprio un'unione di autonomie, dove per autonomia, nella definizione del professor Bin che si ricordava prima, si intende un'unione di diversi, ex pluribus unus. Diversamente, cosa stiamo facendo ?

  FLORIAN KRONBICHLER. Vorrei rivolgermi al collega, senatore, compatriota Palermo.

  PRESIDENTE. Nel senso che siete entrambi italiani.

  FLORIAN KRONBICHLER. Esatto. Abbiamo il difetto, quando si parla di autonomia, di considerare soprattutto noi stessi. Abbiamo, però, anche una certa tradizione non sempre bella di gridare al lupo, cioè di dichiarare l'autonomia in difficoltà.
  Lei, che ha un rapporto un po’ da professore, da costituzionalista, distaccato nell'analizzare i fenomeni, come misura il grado di difficoltà o di pericolo per l'autonomia rispetto alle tante crisi che le autonomie hanno vissuto fino adesso ? È davvero grave o questa è una delle periodiche difficoltà ? Vorrei capire se la situazione è più grave adesso o se ci troviamo in un'altra difficoltà ancora.

  ALBRECHT PLANGGER. Presidente Rollandin, noi adesso abbiamo certe competenze nelle nostre regioni. Abbiamo lavorato con responsabilità e fatto anche per bene alcune cose: perché adesso i grandi governatori Maroni e Zaia non chiedono queste competenze ? Si lasciano portar via tutto. A me sembra che, alla fine dei conti, sia stato portato via tutto. Si sono fatti portare via le province come per una certa concorrenza interna: qualche presidente di provincia se n’è andato e loro così rimangono da soli, un po’ più grandi, ma sulle competenze non vedo quello che ci si sarebbe aspettato.

  ROBERTO COTTI. Vorrei rivolgere una domanda relativa alla nuova ipotesi di ordinamento che prevede l'eliminazione delle materie concorrenti e della legislazione concorrente. Vorrei capire cosa succederebbe nelle regioni autonome a statuto Pag. 12speciale se passasse questo disegno: se, ad esempio, dal novero delle competenze concorrenti viene sottratto l'ambiente, che ne sarà dei parchi regionali ? Immagino non si possano più fare. Che ne sarà del Corpo forestale regionale che abbiamo in Sardegna, ma che penso abbiate anche in altre regioni a statuto speciale ?
  La Sardegna, da cui provengo, ha probabilmente un'autonomia fortemente ridotta rispetto ad altre regioni a statuto speciale e rispetto anche alle aspettative della popolazione, ma comunque per alcuni ambiti di competenza adesso ci governiamo da soli. Sono preoccupato e vorrei capire cosa succederebbe.

  ALBERT LANIECE. Naturalmente non entro nel merito delle due relazioni, concordando pienamente su quello che è stato detto. Purtroppo la volta scorsa non ho potuto essere presente perché impegnato nelle votazioni in corso presso un'altra Commissione.
  Vorrei semplicemente e brevemente rivolgermi agli onorevoli senatori e deputati presenti – che ringrazio – i quali non sono rappresentanti di autonomie speciali. Per me è infatti importante la presenza di rappresentanti dei partiti nazionali ed esprimo soddisfazione per il fatto che sia stata deliberata quest'indagine conoscitiva.
  Molto spesso abbiamo bisogno di un approccio non per frasi fatte o per sentito dire, soprattutto nel periodo attuale, in cui si parla di riforma del Titolo V della Costituzione: bisogna piuttosto capire che, quando avanziamo delle rivendicazioni su aspetti particolari di talune norme, dietro vi sono delle motivazioni ben particolari. La mia richiesta è proprio quella di un approccio non banale, volto a comprendere quali sono esattamente le nostre ragioni.
  Avrei voluto dire questo già all'inizio della presente indagine conoscitiva, che a mio avviso ha avuto luogo nel momento più opportuno, mentre è in gioco il futuro stesso delle nostre realtà.

  PRESIDENTE Ringrazio i colleghi intervenuti. Non essendoci altri interventi, do la parola agli auditi per una replica di un tempo massimo di dieci minuti a testa.

  FRANCESCO PALERMO, Professore associato, di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi di Verona e direttore dell'Istituto per lo studio del regionalismo e del federalismo presso l'Accademia europea di Bolzano. Vi ringrazio per gli spunti, che sono di estremo interesse, e cercherò di essere sintetico nelle risposte.
  Comincerei dalle domande del presidente, professor Balduzzi, peraltro in qualche modo collegabili anche a quanto diceva il senatore Cotti rispetto alle competenze concorrenti. Questo è il tema forse più difficile. L'eliminazione della competenza concorrente per quanto riguarda le regioni a statuto ordinario, come prevista nel disegno di legge governativo, mirerebbe teoricamente alla riduzione del conflitto. È chiaro che, se guardiamo all'andamento del numero dei conflitti giunti davanti alla Corte costituzionale, osserviamo un'impennata molto forte nella prima fase successiva all'introduzione del nuovo Titolo V della Costituzione.
  I conflitti Stato-regioni partivano da circa un 10 per cento del contenzioso costituzionale – vado a memoria – prima del 2001 e sono arrivati a quasi il 40 per cento nei primissimi anni, per poi decrescere in maniera abbastanza sostanziosa. Se il problema è l'eliminazione del contenzioso allora si arriva tardi, visto che il contenzioso si è consolidato nel corso della giurisprudenza costituzionale.
  Allo stato attuale del testo l'abolizione delle materie concorrenti peraltro non riguarderebbe, come sappiamo, le autonomie speciali, ma queste potrebbero essere, in una certa logica, una fonte straordinaria di conflitti: non ci sono infatti soltanto le competenze concorrenti a essere disciplinate come tali negli statuti.
  Ho fatto una volta il conto per la provincia di Bolzano – ma eliminando un livello, ciò vale anche per le altre regioni a statuto speciale – e ho contato ben nove cataloghi di competenze, escludendo la competenza legislativa dell'Unione europea. Ci sono la competenza statale esclusiva, Pag. 13la competenza concorrente dello Stato, che adesso verrebbe meno, la competenza residuale delle regioni e quella residuale delle province autonome, la competenza esclusiva della regione e quella esclusiva delle province, la competenza delegata, pure teoricamente possibile. Senza contare le importantissime norme europee e le norme di attuazione, abbiamo già nove cataloghi. Per la Sardegna, sarebbero sette, ma la situazione diventa comunque estremamente articolata e complessa. I contenziosi, quindi, potrebbero prodursi, anche in numero assai elevato.
  Finora, come dicevamo, la trasversalità delle materie, che adesso sarebbe codificata anche con riferimento alle competenze primarie esclusive dello Stato, renderebbe le leggi delle regioni speciali incostituzionali o inutili. Fondamentalmente, c’è il solito dilemma.
  Ripeto che le regioni portano anche un po’ della colpa di questa conflittualità. All'inizio non hanno espresso una capacità di governo sufficiente per dare corpo alla grande apertura successiva alla riforma del 2001, e quindi sono state molto spesso varate leggi ad alta valenza simbolica, che servivano in qualche modo anche ad irritare lo Stato e la Corte costituzionale. Tendenzialmente, si è seguìta questa strada.
  Nel concreto, la regione Sardegna manterrebbe, ad esempio, la competenza legislativa concorrente in materia ambientale e i parchi regionali, dove esistenti, sarebbero disciplinati con legge regionale fino al momento in cui la Corte costituzionale non dicesse che, in ogni caso, la normativa trasversale e le esigenze di unitarietà dell'ordinamento determinano nella sostanza la compressione anche della competenza concorrente statutariamente prevista.
  Quello che varrebbe anche per le altre regioni è la competenza amministrativa e in questa logica le regioni sarebbero trasformate in enti non politici, ma amministrativi, al pari dei comuni, per cui avrebbero, ad esempio, la gestione delle guardie forestali fino al momento in cui, come è del resto già possibile nella situazione attuale, una normativa collegata al coordinamento della finanza pubblica e alla spending review imponesse alle regioni di ridurre di una certa soglia il numero delle guardie forestali.
  Non è successo in questo caso particolare, ma per tutta una serie di altre questioni, quali le retribuzioni dei consiglieri regionali e i consorzi di bonifica, su cui c’è una sterminata giurisprudenza, la Corte ha sostanzialmente affermato che le regioni devono adeguarsi, speciali o meno che siano. Questa è la tendenza.
  Quanto all'integrazione di questa Commissione con i rappresentanti delle regioni, sarebbe stata, all'epoca, una sperimentazione estremamente interessante per introdurre le regioni nel circuito legislativo parlamentare in maniera graduale. Il fatto che non si sia realizzata da subito ha reso automaticamente quella previsione fin dall'inizio e poi non più praticabile. La domanda che ci dovremmo fare a questo punto e per cui temo che il disegno di legge governativo abbia già una risposta implicita è: che tipo di rappresentanza si vuole, territoriale o politica ?
  Se la rappresentanza deve essere politica, come era nel disegno originario dei costituenti, da cui discendeva l'elettività del Senato, pur con base regionale, evidentemente dove c’è la politicità ci deve essere l'elettività, come è abbastanza ovvio. Nel momento in cui, invece, la scelta è per la rappresentanza territoriale, direi che l'elettività è quasi dannosa, altrimenti si introduce un sistema di legittimazione analogo a quello di una Camera politica per attribuirle delle funzioni non politiche o non squisitamente politiche.
  Per l'appunto, però, non mi pare che ci sia una scelta consapevole ma, piuttosto, una scelta inconsapevole, consistente essenzialmente nella previsione di un solo livello di governo, che diventerebbe lo Stato, e di due livelli amministrativi, che diventerebbero le regioni e i comuni. Su questo aspetto, forse, una riflessione maggiore c’è.
  Per quanto riguarda il Veneto, cui accennava il senatore Dalla Zuanna, la questione evidentemente è il Titolo V della Pag. 14Costituzione, non c’è bisogno che ce lo ripetiamo. Quella è la vera questione, mentre la questione del Senato è non soltanto una conseguenza, ma addirittura uno specchietto per le allodole per far cadere l'attenzione su un elemento che logicamente viene dopo rispetto alla domanda di fondo di quale struttura dello Stato vogliamo.
  Il punto è che il centralismo è un problema culturale, rappresenta un'impostazione culturale di questo Paese. Queste manifestazioni dell'indipendentismo, folcloristiche e pittoresche finché si vuole, sono comunque segnali di un malessere che si produce con il tipico effetto diga. Se si costruisce una diga, l'acqua non smette di scorrere e cerca altri canali; se questi non sono disciplinati, procedimentalizzati, incanalati, prima o poi succede qualcosa. Può essere una manifestazione magari un po’ pittoresca, ma non è detto che si limiti a questo. Quest'atteggiamento dell'uniformità della disciplina rischia di essere la causa e non l'effetto di questi fenomeni.
  Quanto alle autonomie più o meno gravemente in pericolo che in passato, la questione a mio avviso è che, a differenza del passato, c’è un approccio culturale diverso. È passato il messaggio e sappiamo che, purtroppo, la politica non è proattiva ma reattiva rispetto agli elementi mediatici, alle pressioni esistenti. Si è inserito un discorso pubblico che tende a sostenere che le regioni sono fonti di spesa, di complicazione, di burocrazia nonché, eventualmente, di sprechi e malaffare.
  Così si è messo in moto tutto un clima ed un discorso politico, che prima non c'era. In questo senso, l'autonomia è più in pericolo che in passato. Allo stesso tempo, però, enfatizzare il pericolo è estremamente pericoloso, se mi si passa il gioco di parole. Soprattutto in certi contesti, come quello della provincia di Bolzano, si è stati abituati all'autonomia come a una strada a senso unico, una necessaria irreversibile tendenza verso un aumento costante di competenze, di dotazioni finanziarie e di autogoverno che avrebbe portato nella sostanza a una statualità senza lo Stato.
  Quello che non si è tenuto in conto e che potrebbe produrre degli effetti pericolosi è che, invece, come in tutte le vicende umane, e non solo in quelle esclusivamente giuridiche, esistono dei passaggi e dei momenti diversi, compresi quelli in cui questo percorso si rallenta e può anche tornare un po’ indietro.
  Nel territorio manca completamente una visione d'insieme – nel caso della provincia di Bolzano è evidente – sul piano dello Stato: ci sentiamo infatti dire, come sudtirolesi, che i nostri balconi sono belli, con i gerani fioriti, dal momento che essendo tedeschi amministriamo bene. Questo è il livello del dibattito culturale. È chiaro, allora, che in questo modo si alimenta quella doppia eccezionalità di cui parlavo e che porta ad essere pericolosissima la situazione per quanto riguarda sia lo Stato sia il territorio. Per cui l'autonomia è in pericolo anche un po’ per colpa delle autonomie.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Palermo e do la parola al presidente Rollandin.

  AUGUSTO ROLLANDIN, Presidente della regione Valle d'Aosta. Per quanto riguarda l'applicazione dell'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, col quale purtroppo, come è stato detto, si è persa un'occasione, ci sono stati però diversi tentativi da parte delle regioni di mettere in piedi questa Commissione, che di fatto non ha poi mai preso il via. Sicuramente, se ci fosse stato questo strumento, molte delle problematiche avrebbero potuto essere studiate per tempo. Quello che oggi stiamo dicendo poteva essere esaminato già in quella sede.
  Per quanto riguarda il discorso delle competenze, cioè del fatto che alcune regioni oggi guardino ad un allargamento o ad avere situazioni di altra natura geografica, piuttosto si potrebbe pensare a come l'organizzazione esistente potrebbe portare avanti un grado di autonomismo. Sovente, si è descritto le regioni speciali come quelle che non vogliono che le altre regioni diventino un po’ meno ordinarie e Pag. 15un po’ più speciali, condividendo il fatto che l'espressione «speciale» forse è fuorviante.
  Oggi quel discorso sta scemando perché la discussione sta assumendo volti diversi, dall'accorpamento al discorso dell'allargamento delle regioni. Nelle regioni a statuto speciale, invece, le competenze che esse hanno avuto, esercitate nel modo giusto nel campo dei servizi, rappresentano le eccellenze, come dicevo, e credo abbiano un significato.
  Le stesse regioni speciali accettano ben volentieri il discorso dei costi ottimali e dei costi standard. Facciamo dei paragoni, confrontiamo pure le situazioni. Credo che voi l'abbiate fatto, come l'abbiamo fatto noi, e sappiamo cosa significa erogare un servizio sociale o sanitario in zone di montagna – ma nelle regioni speciali non è diverso, le zone di montagna valgono per la regione speciale come per quella ordinaria – ma ragioniamoci, dopodiché sviluppiamo questi concetti piuttosto che dire che non hanno funzionato.
  Sicuramente, dobbiamo anche riconoscere che gli scandali degli ultimi tempi hanno penalizzato le regioni. Tutto ormai è visto portando fuori dal Parlamento e attribuendo alle regioni e ai comuni il disastro economico. Dobbiamo prendere atto di situazioni mal gestite, ma ciò non vuol dire che il sistema regionale debba essere bocciato.
  Negli ultimi anni, della legge n. 42 del 2009 non si è più parlato, il discorso sul federalismo è morto. Tutti gli incontri e il discorso bilaterale che avrebbe dovuto avere luogo con le regioni non hanno mai preso quota. Prendiamo la discussione sul patto di stabilità: come lo si definisce ? Ancora adesso abbiamo contenziosi in atto. Lì il discorso è più economico, ma credo che quello che vale – condivido quanto sottolineava il professor Palermo – sia l'impronta culturale, cioè come affrontiamo la differenza che esiste nella responsabilità e nella voglia di amministrare. Se partiremo da quello, troveremo le soluzioni.
  Sicuramente condivido il fatto che le regioni, al di là del discorso di non enfatizzare, siano in pericolo, le regioni speciali più ancora delle altre. Il Titolo V della Costituzione è il vero cavallo di Troia, dopodiché chiaramente non ci sarà più bisogno di discutere del Senato, non essendoci più le regioni. Il discorso che ci siano dei rappresentanti non eletti è un'altra logica conseguenza del fatto che si distrugge il sistema, si accentra, dopodiché non ha più alcun tipo di fondamento il fatto che ci siano ulteriori elementi eletti. Non c’è più sostanza, nulla da venire a dire, quindi credo che il discorso sul Titolo V rappresenti oggettivamente un pericolo forte.
  Soprattutto con riferimento alla legislazione concorrente, il problema vero, specialmente in alcune materie, come l'ambiente o i lavori pubblici, è che, come dimostrato, senza una leale collaborazione tra Stato e regioni non si può amministrare. L'eliminazione delle materie concorrenti, solo per poter dire che abbiamo risolto il problema, è quindi una semplificazione che pagheremo cara.

  PRESIDENTE. Ringrazio i nostri auditi, che ci hanno consentito di compiere sicuramente un passo avanti nella comprensione di questa partita dell'autonomismo differenziato.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.25.