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Documento

Doc. XXIII, N. 44

COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SUL FENOMENO DELLE MAFIE E SULLE ALTRE ASSOCIAZIONI CRIMINALI, ANCHE STRANIERE

(istituita con legge 19 luglio 2013, n. 87)

(composta dai deputati: Bindi, Presidente, Attaguile, Segretario, Bossa, Bruno Bossio, Carbone, Costantino, Dadone, Di Lello, Segretario, D'Uva, Garavini, Magorno, Manfredi, Mattiello, Naccarato, Nuti, Piccolo, Piepoli, Prestigiacomo, Sammarco, Sarti, Savino, Scopelliti, Taglialatela e Vecchio; e dai senatori: Albano, Buemi, Bulgarelli, Capacchione, Cardiello, Consiglio, De Cristofaro, Di Maggio, Esposito, Falanga, Gaetti, Vicepresidente, Giarrusso, Giovanardi, Lumia, Marinello, Mineo, Mirabelli, Molinari, Moscardelli, Pagano, Perrone, Ricchiuti, Tomaselli, Vaccari e Zizza).

IL FURTO DELLA NATIVITÀ DEL CARAVAGGIO

(Relatrice: on. Rosy Bindi)

Approvata dalla Commissione nella seduta del 21 febbraio 2018

Comunicata alle Presidenze il 22 febbraio 2018 ai sensi dell'articolo 1, comma 1, lett. o), della legge 19 luglio 2013, n. 87

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INDICE

1. Premessa  Pag. 7
2. Le indagini pregresse sul furto della Natività e le loro risultanze  » 8
3. L'inchiesta della Commissione parlamentare antimafia  » 12
3.1. Le dichiarazioni di Gaetano Grado: “’U Caravaggiu”  » 13
3.2. Le dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia: “Ho detto che il quadro è stato bruciato”  » 17
3.3. Il contributo degli altri collaboratori di giustizia   » 20
4. Le risultanze dell'inchiesta parlamentare: la svolta investigativa  » 20
5. Conclusioni: Una storia semplice » 23
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IL FURTO DELLA NATIVITÀ DEL CARAVAGGIO

1. Premessa.

  Alla vicenda del furto della Natività del Caravaggio, avvenuta a Palermo nel 1969, la Commissione ha inteso dedicare, nel corso dei propri lavori, una nuova e autonoma iniziativa di indagine per chiarire quali siano state le reali sorti del prezioso dipinto, capolavoro siciliano dell'artista lombardo, da sempre ritenuto oggetto di un “furto di mafia”.
  Le principali risultanze dell'inchiesta sono state illustrate nella Relazione conclusiva, approvata dalla Commissione nella seduta del 7 febbraio 2018(1).
  In occasione dell'esame di tale relazione, si è tuttavia convenuto sull'opportunità di dedicare alla vicenda – anche alla luce delle ultime acquisizioni investigative – un ulteriore approfondimento mediante una relazione ad hoc, approvata nella seduta conclusiva dei lavori della Commissione, allo scopo di offrire alla pubblica opinione tutte le informazioni ostensibili frutto delle indagini, a integrazione di quanto già pubblicato, qui integralmente richiamato(2).

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2. Le indagini pregresse sul furto della Natività e le loro risultanze.

  La Natività del Caravaggio, rubata nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969 all'interno dell'Oratorio di San Lorenzo a Palermo, resta senza dubbio l'opera d'arte più importante dal punto di vista storico artistico tra quelle mai trafugate in Italia e forse nel mondo.
  L'attività di polizia giudiziaria, di contro, si rivelò da subito frenetica e disomogenea.
 È probabile, infatti, che, all'epoca, non si fosse pienamente compresa la portata dell'evento e, in effetti, le successive analisi metteranno in luce sia la sostanziale “incoscienza” di chi realizzò il furto sia, parallelamente, l'assenza di una risposta investigativa concreta ed efficace.

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  Del resto, va riconosciuto che l'ambito criminale in cui avvenne il delitto, ricostruito decenni dopo, era difficile da esplorare per la sostanziale pervasività, in quel peculiare momento, dell'organizzazione mafiosa cosa nostra, peraltro nemmeno ancora giudiziariamente delineata nella sua forma organizzativa.
  Di conseguenza, è facilmente immaginabile che, in quello scenario, le indagini sul furto del Caravaggio furono scarne e poco incisive.
  Soltanto in epoca di molto successiva al furto, cioè verso la fine degli anni Novanta, venne finalmente realizzata un'articolata e massiccia attività investigativa coordinata dalla procura della Repubblica presso la pretura di Palermo.
  Infatti, attraverso l'audizione “a tappeto” di collaboratori di giustizia ma anche di “uomini d'onore” detenuti – questi ultimi sentiti al solo scopo di favorire le ricerche del dipinto anche in relazione all'avvenuta prescrizione dell'originario delitto – si riuscì a ricostruire per la prima volta, almeno per grandi linee, il contesto della vicenda che, come si comprese, vedeva pienamente coinvolta, se non necessariamente nella progettazione del furto, certamente nella successiva gestione della tela, l'associazione mafiosa.

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  Provando a sintetizzare l'esito di tali risultanze, pur senza fornire elementi di dettaglio che tuttora possono rilevarsi utili per la prosecuzione delle ricerche, può affermarsi che, in base alle dichiarazioni acquisite, era possibile accertare, innanzitutto, l'identità di alcuni dei componenti la batteria di ladri (dediti alla realizzazione “seriale” di furti di ogni natura, compresi quelli di opere d'arte), taluni dei quali, negli anni successivi, finiranno per far parte delle fila di cosa nostra.
  Si evidenziava, altresì, il coinvolgimento, in primis, del mandamento mafioso di Santa Maria del Gesù, all'epoca capeggiato da Stefano Bontade (ucciso nella seconda guerra di mafia, nell'aprile 1981), al quale appartenevano, tra gli altri, Francesco Marino Mannoia (poi divenuto collaboratore di giustizia), e i fratelli Vincenzo e Gaetano Grado (anche quest'ultimo collaboratore di giustizia); mandamento che, in base alle rivelazioni agli atti, ebbe un ruolo preminente nell'organizzazione del furto o, comunque, nella gestione della tela subito dopo la sua sottrazione.
  Tuttavia, in base ad alcune convergenti propalazioni, l'opera sarebbe stata presto volontariamente distrutta poiché invendibile a causa dei danni riportati in occasione del furto (secondo alcuni, si trattava dei tagli effettuati alla tela per distaccarla dalle pareti dell'Oratorio e, secondo altri, di quelli derivati dal suo rudimentale arrotolamento che provocò la perdita di diverse parti del dipinto).
  In tal senso, si espresse in particolare Francesco Marino Mannoia il quale, anzi, aveva confessato di essere stato l'autore della distruzione della Natività.
  A tali dichiarazioni, è stato da sempre riconosciuto un particolare valore nell'ambito delle ricerche del quadro che, pertanto, apparivano sostanzialmente vane.

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  Ciò, in generale, sia per la caratura criminale di Marino Mannoia e della sua successiva collaborazione con la giustizia; sia, in particolare, per la sua appartenenza al mandamento che aveva gestito il furto e per la circostanza che il suo racconto concordava con altre dichiarazioni, quantomeno in merito all'individuazione degli autori del furto; sia ancora, più in particolare, perché anche il collaboratore Salvatore Cucuzza (poi deceduto) riferì, seppure de relato, che la tela era stata distrutta.
  Del resto, nelle successive indagini su cosa nostra, e specie quelle sulla vincente ala corleonese, non era mai emerso un qualsiasi riferimento al quadro, come se, effettivamente, fosse stato considerato inesistente. Anzi, dai racconti di altri collaboratori di giustizia, tra cui Giovanni Brusca, risultava, a proposito della cosiddetta trattativa tra Stato e mafia, che cosa nostra, pur avendo provato a instaurare un rapporto di scambio con le istituzioni avente a oggetto la restituzione di opere d'arte trafugate, non fece alcun accenno alla possibile restituzione della Natività.
  L'ipotesi della distruzione, tuttavia, per quanto confortata da diversi elementi, risultava in contrasto con altre risultanze investigative.
  Infatti, in primo luogo, la circostanza dell'irreversibile danneggiamento del quadro, che aveva causato la scelta di eliminarlo, non aveva mai convinto gli esperti e gli storici dell'arte, posto che la tela, pochi anni prima del furto, aveva subito un'importante opera di restauro che avrebbe dovuto in qualche misura preservarla da danni provocati da mani inesperte. Proprio tale circostanza fece ipotizzare agli investigatori che il racconto del Mannoia si riferisse, in realtà, a un'altra opera d'arte, di dimensioni paragonabili alla Natività, trafugata in quel medesimo periodo in una chiesa di Palermo.
  In secondo luogo, vi era infatti chi, nell'ambito dello stesso mandamento di Santa Maria del Gesù, parlava, invece, della possibile vendita della tela, da considerare dunque ancora esistente. Tra questi vi era Vincenzo Grado, il quale riferì di essere stato interpellato per occuparsi del trasporto del quadro a Milano e, da lì, in Svizzera, anche se poi non seppe più nulla di tale progetto.
  Vi era inoltre chi, nell'ambito di un altro mandamento mafioso, cioè quello di Porta Nuova all'epoca capeggiato da Pippo Calò, riferì che la tela era giunta nella disponibilità di Gerlando Alberti (capo della famiglia di Porta Nuova, ormai deceduto).
  In particolare, tra gli altri, Vincenzo La Piana, collaboratore di giustizia imparentato con Alberti, aveva raccontato che quest'ultimo aveva seppellito la Natività, riposta all'interno di una cassa di ferro, nel terreno della propria villa. Tuttavia, le consequenziali ricerche poi svolte dalla polizia giudiziaria non consentirono alcun rinvenimento.
  Le indagini, dunque, erano a un punto fermo, dibattendosi tra l'ipotesi della definitiva distruzione della tela e quella del possesso di essa da parte di soggetti del mandamento di Porta Nuova, dove però non si era trovata alcuna traccia né di detenzione né di eventuale successiva cessione.
  A tali ricostruzioni si aggiunsero, negli anni successivi, le dichiarazioni del collaboratore Gaspare Spatuzza, il quale parlò anche lui di distruzione della tela, seppure in un contesto diverso, avendo riferito che l'opera era stata depositata in una stalla dove era stata rovinata dai roditori.

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3. L'inchiesta della Commissione parlamentare antimafia.

  L'impatto nell'immaginario collettivo e il lungo tempo ormai trascorso dal furto hanno contribuito alla creazione di un alone di mistero e di inestricabilità circa le sorti del dipinto.
  Nonostante la diffusa convinzione sull'impossibilità di ritrovare il quadro e sulla sostanziale inutilità di ulteriori indagini, la Commissione parlamentare antimafia ha inteso assumere una autonoma iniziativa volta a dare un nuovo impulso per la ricostruzione dei fatti e, da qui, eventualmente, per la ripresa delle ricerche di un'opera di elevato valore simbolico anche per la lotta alla mafia, in un contesto di raccordo e stretta collaborazione con i principali soggetti istituzionali coinvolti, e cioè il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (MIBACT), i Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale (TPC) e la procura della Repubblica presso il tribunale di Palermo.
  Si è ritenuto, infatti, in primo luogo, che gli elementi raccolti nelle inchieste giudiziarie non consentissero né di affermare con certezza che la Natività fosse stata definitivamente distrutta né di escludere, con altrettanta certezza, che la notizia della distruzione dell'opera potesse essere stata artatamente diffusa per il perseguimento di diverse finalità (come quella, ad esempio, di spartire i ricavati della possibile vendita all'interno soltanto di una ristretta cerchia di uomini di cosa nostra).
  In secondo luogo, si è considerato che il filone investigativo, secondo cui la tela era stata trasferita a uomini del mandamento di Porta Nuova, andasse comunque ulteriormente approfondito sotto diversi aspetti rimasti poco chiari, specialmente con riferimento all'effettiva identificazione proprio con la Natività del Caravaggio della tela oggetto di tali dichiarazioni.
  Pertanto, dopo l'acquisizione e l'analisi degli atti pregressi accumulati in quasi cinquant'anni di indagini e la formulazione di possibili ipotesi, nel 2017, in seno all'inchiesta parlamentare si avviavano, con la preziosa collaborazione dei Carabinieri del Comando TPC, mirate indagini ed esami consistenti, principalmente, nell'interrogatorio di alcuni collaboratori e nell'acquisizione di elementi nuovi che potessero confortare o smentire le dichiarazioni man mano acquisite.
  In particolare, dopo un attento e complesso esame della mole delle precedenti risultanze giudiziarie, la Commissione, dovendo adottare precise scelte investigative coerenti anche con i tempi a disposizione, ha ritenuto opportuno indirizzare le proprie ricerche ripartendo dalle poche acquisizioni alle quali poteva attribuirsi una certa verosimiglianza.
  Al netto dei filoni investigativi che si rivelavano decontestualizzati o che avevano lasciato ipotizzare gli scenari più svariati, talvolta incredibili e fuorvianti, nonché dei numerosi e spesso disarticolati tentativi per giungere al recupero della tela, si sono tenuti in considerazione alcuni punti cardine tratti dalle indagini svolte dalla procura di Palermo e dai carabinieri sul finire degli anni Novanta, tra cui sia l'individuazione di alcuni degli autori del furto, sia la circostanza che tale delitto aveva certamente interessato, almeno nella fase iniziale dell'impossessamento della tela, il mandamento di Santa Maria del Gesù-Villagrazia.Pag. 13
  La Commissione, pertanto, autonomamente ha individuato alcuni collaboratori da sentire o da risentire, selezionandoli in base a puntuali analisi che facessero apparire probabile la possibilità di ottenere un nuovo o ulteriore contributo.
  In effetti, il nuovo indirizzo impresso alle indagini si è rivelato, poco più tardi, assolutamente determinante non solo per il tentativo, a distanza di quasi cinquant'anni, di una ricostruzione storica del furto della Natività ma, soprattutto, per affermare, oggi, che il recupero della tela è ancora possibile.

3.1. Le dichiarazioni di Gaetano Grado: “’U Caravaggiu”.

  Nel corso dell'impegnativo e preliminare lavoro di selezione dei collaboratori di giustizia, la Commissione ha individuato, innanzitutto, Gaetano Grado e, pertanto, ha avviato, proprio con l'interrogatorio di questi, la fase operativa dell'inchiesta.
  Il nominativo del Grado, infatti, era già stato indicato in via confidenziale, proprio da uno dei sospettati del furto, come soggetto che, astrattamente, potesse essere venuto a conoscenza dei fatti.
  Inoltre, siccome suo fratello Vincenzo fu coinvolto nelle indagini (seppure soltanto come possibile trasportatore della tela), a maggiore ragione si poteva ipotizzare che Gaetano, di maggiore spessore criminale nell'ambito del citato mandamento di Santa Maria del Gesù-Villagrazia, avesse potuto sapere qualcosa.
  Del resto, Gaetano Grado era stato l'unico collaboratore di quella consorteria mafiosa a non essere mai stato interrogato sulla Natività.
  In effetti, sentito in data 11 maggio 2017 dai delegati della Commissione, egli ha fornito per la prima volta, dopo quasi mezzo secolo dal furto, una ricostruzione precisa e dettagliata dei fatti, vissuti in prima persona, che potrebbe aprire nuovi e straordinari scenari e che, come si dirà in altro paragrafo, appare altamente verosimile.
  In particolare, secondo il suo stesso racconto, Grado, pur essendo latitante all'epoca del furto, era stato incaricato da Stefano Bontade a sovrintendere il territorio della famiglia mafiosa di Palermo-centro che, nel frattempo, era stata sciolta per la guerra di mafia:
  «Ricordo bene i fatti [...]. Nel ’69, quando è successo che a San Lorenzo hanno rubato questo quadro della Natività di Caravaggio [...], io avevo una mansione nel palermitano. Siccome avevamo deciso che nel centro di Palermo – dopo tutto quello che avevamo fatto e dopo che avevamo sterminato tutti – non ci dovevano essere più famiglie mafiose, io allora avevo il compito di tenere ordine nella città di Palermo, e da latitante io giravo tranquillamente come tutti i latitanti, non c'era problema. Io avevo il compito di scendere tutte le mattine nel mercato della Vucciria, per avere notizie di sopravvissuti della città, delle famiglie mafiose di Palermo. Tutte le mattine loro avevano il compito di venire da me a rapportarmi tutto quello che succedeva: dalla piccola cosa, dal ladro, al rapinatore o altri fatti di sangue, per riferirmi tutto».
  Due giorni dopo il furto, Gaetano Badalamenti avendo appreso dalla stampa della perpetrazione del furto, gli chiese di interessarsi per recuperare il dipinto. Pag. 14
  «Una mattina stavo leggendo il giornale [...], dopo due giorni che era scomparso il Caravaggio. Ero in una mia proprietà di Santa Maria di Gesù. Passa Gaetano Badalamenti da questa mia proprietà, sapendo che ero lì, e – poverino, non aveva tanta scuola anche se era una persona molto furba e intelligente – mi fa: “Tanino, tu che scendi a Palermo vedi di interessarti... – lui lo chiamava “’U Caravaggiu” – dice che hanno rubato ’sto quadro che ho sentito che ha un valore inestimabile”.
  Io stavo vedendo sul giornale. Mi dice: “Vedi tu che sei addetto a tenere ordine nel centro di Palermo, conosci tutti i ladri, conosci i rapinatori, le disgrazie e le carcerazioni...”.
  Io conoscevo quasi tutto e mi rispettavano tutti quando io chiedevo qualcosa; se succedeva qualcosa, me lo facevano sapere. Ho detto: “Va bene Tanì, ora te lo faccio sapere”».
  Gaetano Grado, pertanto, si rivolse a un soggetto, del quale qui si omette il nome, con il ruolo di “consigliere” del rappresentante della famiglia mafiosa di Brancaccio che, ai tempi, era Giuseppe Di Maggio:
  «Scendo giù a Palermo e incontro alla Vucciria un certo [...], consigliere della famiglia mafiosa di Giuseppe Di Maggio di Brancaccio, che mi aspettava. Lo vedo, ci salutiamo, andiamo a prendere il caffè e dico: “Senti, è successo questo fatto del quadro. È passato Tanino Badalamenti dalla mia proprietà, mi interessa sapere chi sia stato, chi sono questi ladri che hanno rubato questo quadro a San Lorenzo”».
  Tale “consigliere” contattò subito un ragazzo (del quale pure si omette il nome), per chiedergli di interessarsi su chi avesse realizzato il furto.
  Il giovane, però, alla presenza di Grado, confermò di essere stato lui stesso uno degli autori del furto e acconsentì immediatamente a recapitare il dipinto al “consigliere”, chiedendo in cambio una piccola regalia, cosa che poi avvenne:
  «Lui chiama un ragazzo [...], che a volte loro se lo portavano a scaricare le sigarette di contrabbando, di nome [...]. Chiama ’sto ragazzo e gli dice: “Senti, hanno fatto un furto... così così... a San Lorenzo, in una chiesa. Si son portati un quadro. Vedi di sapere, tu che conosci tutti i ladri della zona, vedi se si può sapere qualcosa” [...].
  Questo ragazzo mi conosceva, mi guarda e mi fa: “Signor Tanino, guardi che l'ho fatto io questo furto”.
 Ah, l'hai fatto tu ? – gli dico – allora fai una cosa... Dov’è questo quadro ?
 E dice: “È conservato in un quartiere malfamato di Palermo, in una casa diroccata”.
 Fai una cosa, piglia il quadro e glielo dai a [...], perché lui sa quello che deve fare.
 “Ma Tano siamo usciti stanotte per rubare... stiamo morendo di fame”.
 Non ti preoccupare – gli dico io – qualche cosa te la faremo avere.
 So che poi [...], ai tempi, non ricordo esattamente quanto gli hanno dato, ma hanno pigliato 4 o 5 milioni per questo quadro».
  Alla domanda se il furto fosse stato commissionato da cosa nostra, Grado ha risposto negativamente, riferendo che si trattò di una operazione autonoma della batteria di ladri:Pag. 15
  «Non è stato un furto su commissione... Fu d'iniziativa, sapevano che c'erano in questa chiesa dei quadri importanti, di valore, loro forse pensavano che poi li vendevano. Pensavano che magari rubando questi quadri li vendevano ai ricettatori, non si rendevano conto, secondo me».
  A questo punto, secondo le “competenze territoriali” dell'associazione mafiosa palermitana e le gerarchie di cosa nostra, il quadro subiva alcuni passaggi. Il dipinto, cioè, inizialmente, fu portato dal “consigliere” al “rappresentante” Giuseppe Di Maggio, il quale lo affidò temporaneamente, per la custodia, a Francesco Mafara, suo nipote, il quale, a sua volta, nascose la Natività in una grotta di San Ciro Maredolce presso una cava, in attesa di farla recapitare al richiedente:
  «Mi fa: “Quando mi dà il quadro che devo fare ?”
 Ho detto: “Portalo dal tuo rappresentante, che poi si presenterà qualcuno da lui.
 “Va bene”.
 Lui lo piglia, lo porta a Giuseppe Di Maggio, che era il suo rappresentante.
 Giuseppe Di Maggio – mi ricordo che c'ero io che aspettavo – riceve questo quadro. C'era un suo nipote, un certo Franco Mafara, che è scomparso nella guerra di mafia.
 Questo se lo piglia, dice: “Zio, me lo porto”.
 E se lo porta in una cava, in una grotta di San Ciro Maredolce; loro avevano una cava lì e ci porta il quadro».
  Secondo gli accordi, il dipinto venne poi consegnato a Stefano Bontade il quale, a sua volta, lo mise a disposizione di Gaetano Badalamenti che, infine, prese in consegna la Natività portandosela nelle sue proprietà di Cinisi:
  «Questo quadro poi la buonanima di Stefano Bontade (o Bontà) se lo fa portare in una sua proprietà, Magliocco. Dopo interviene Gaetano Badalamenti. Gaetano Badalamenti ai tempi era rappresentante di tutte le famiglie mafiose siciliane e Stefano Bontà era il sottocapo.
 Viene così Gaetano Badalamenti con dei ragazzi suoi, subito, a breve distanza dal furto, questione di giorni [...].
 Badalamenti lo pretendeva perché lui era il rappresentante della Sicilia.
 Stefano gli dice: “Pòrtatelo”. Ma dice anche: “Guarda che è invendibile perché ha un valore inestimabile, non è facile venderlo”.
 Gaetano Badalamenti viene l'indomani con due ragazzi suoi, di cui non so precisare i nomi, e se lo porta. Se lo porta a Cinisi».
  Quale fosse l'interesse del Badalamenti emergeva subito dopo. Infatti, secondo Grado, il capomafia era collegato a un trafficante di opere d'arte di origini svizzere al quale intendeva rivendere la tela.
  Non si sa se l'iniziativa fu assunta da Badalamenti che aveva fiutato l'affare o dallo stesso svizzero venuto a conoscenza, tramite la stampa, del furto dell'importante dipinto. Grado, comunque, apprese poi da Badalamenti che lo svizzero si era effettivamente recato dal boss di Cinisi per visionare la Natività decidendo di acquistarla. Tuttavia, da subito, il trafficante aveva rappresentato che l'opera, per essere venduta con maggiore facilità, sarebbe stata tagliata in più parti.Pag. 16
  In effetti, tempo dopo, il Badalamenti confermò a Grado che la tela, a dire dello svizzero, era stata divisa in più parti:
  «Dopo tempo, io sento che loro, tramite Gaetano Badalamenti e le sue amicizie – Badalamenti aveva grandi amicizie – chiamano un ricettatore, una persona svizzera, un uomo molto anziano che io ho visto e che ricettava quadri [...].
 L'hanno fatto venire appositamente. Difatti Gaetano Badalamenti, poi, mi raccontò dei particolari.
 Questi, quando ha visto il quadro, si è seduto, e ha detto: “Per favore, fatemelo guardare”.
 Si è seduto. Non faceva altro che guardare il quadro, e piangere.
 E Gaetano Badalamenti lo sfotteva. [...] Piangeva, piangeva... Gaetano Badalamenti l'ha preso per stupido».

  Secondo Grado il quadro era integro, anche se “era un po’ sfilacciato nei lati perché gli avevano tolto la cornice, era senza cornice. Era sfilacciato, se non sbaglio dicevano che lo avevano tagliato con una lametta, con qualcosa del genere”.

  Su questo lo svizzero non fece alcun commento e concluse l'affare.
  «In pratica questo vecchio – di cui non so precisare il nome ma che era molto anziano, sui settant'anni e più – gli dice: “Lo compro io, però sappiate che non si può vendere perché è di un valore inestimabile”.
 Gaetano Badalamenti dice: “E che te ne fai ?”
 “Lo divido”.
 “Ma come lo dividi ?”
 “Lo taglio. Dipende da quanti acquirenti trovo”.
 Poi ho saputo, sempre tramite Gaetano Badalamenti, che questo quadro è stato tagliato in quattro parti e venduto».
  Il Caravaggio parte quindi da Cinisi intero, mentre la divisione in quattro parti (altre ipotesi dicono sei/otto, anche in relazione al numero delle figure) sarebbe avvenuta in Svizzera:
  «Non so come gli hanno fatto avere questo quadro in Svizzera. Era molto voluminoso. So che è stato trasportato con un camion, non so precisare quale, ma era un camion grande con la copertura, di quelli per la frutta.
  Glielo hanno spedito intero. Gaetano Badalamenti – eravamo molto amici – mi dice poi che in Svizzera questo quadro è stato diviso, è stato venduto...
   Loro lì hanno dei collezionisti [...], persone che hanno dei musei privati e che se lo sono divisi in quattro, in pratica, per la megalomania di dire – e Gaetano Badalamenti non si capacitava – io ho un pezzo del Caravaggio».

  L'operazione si svolse nel giro di pochi mesi. Grado ha poi riferito che, dopo un certo periodo, verosimilmente sempre nel 1970, lo svizzero era ritornato a Palermo per pagare il relativo prezzo, occasione questa in cui il collaboratore ebbe modo di conoscere il trafficante:
  «Non è che mi interessavo io del Caravaggio né di questo signore.
 Arrivai da Badalamenti il giorno che sapevo che doveva scendere questo vecchio signore. L'ho visto in casa di Badalamenti, ma nemmeno Pag. 17ci ho parlato, l'ho visto così, l'ho guardato e sono andato via. [...] Badalamenti mi disse che questo svizzero era uno dei più grandi commercianti di opere d'arte rubate».
  Più tardi, il Badalamenti consegnò a Grado 50 mila franchi svizzeri a titolo di ricompensa per il servizio prestato, sintomo evidente della lucrosa e definitiva conclusione dell'affare:
  «Un giorno – io ero sempre in questa mia proprietà – passa Gaetano Badalamenti. Ricordo in particolare che aveva una busta, perché questo vecchio era sceso a portare non so quanti milioni di franchi svizzeri.
 Badalamenti mi dà questa busta, e mi fa: “Tanino tieni qua. Ora che ci sono tempi di ristrettezze, ho avuto un pensiero per te”.
  Piglia 50 mila franchi, 50 mila franchi svizzeri, e dice: “Tieni, mettiteli in tasca”.

 Non ho chiesto, però io ho capito che naturalmente venivano dal quadro.
 Era una cifra importante, perché loro sapevano che io, innanzitutto, non avevo bisogno della loro elemosina, perché non accettavo mai soldi. Ma loro mi dicono: “No, questi te li devi pigliare per la soddisfazione che abbiamo venduto questo quadro” [...]. 50 mila franchi svizzeri ai tempi era una cifra. Ricordo bene, erano banconote di grosso taglio messe a fascette».
  Secondo Grado, lo svizzero che acquistò il dipinto era probabilmente di Lugano, come desumeva da un altro racconto del capomafia:
  «Gaetano Badalamenti è andato poi a Lugano. Mi ha detto in seguito: “Sono stato da quel vecchio, mi ha detto che vuole altri quadri che ci sono giù in Sicilia ma gli ho detto di no”.
 Gaetano Badalamenti, ripeto, era senza scuola, però era molto intelligente. Dice: “Si è creato troppo scalpore, troppa confusione s’è fatta”, perché c'era stato un grande interessamento di tutti, dalla magistratura alla polizia.
 Non so dire se Gaetano Badalamenti lo frequentava spesso questo vecchio. È sicuramente andato lì a Lugano, perché mi ha detto che aveva una barca di soldi. Per dire Gaetano Badalamenti “una barca di soldi”, chissà quanti soldi aveva e quanti milioni aveva pigliato lui».
  Il collaboratore ha fornito anche i nominativi dei giovani che costituivano la batteria dedita ai furti, indicando una serie di nomi, qui omessi, tra cui anche quello, noto, di Francesco Marino Mannoia:
  «Poi se non sbaglio c'era pure Marino Mannoia, imparentato con Vernengo. Non ho la certezza, ma la batteria dei ladri era quella».
  Al fine di identificare lo svizzero, la Commissione ha svolto una successiva analisi volta a individuare, secondo le informazioni disponibili, quali fossero i soggetti che, in Svizzera, si occupavano, all'epoca, di opere d'arte di rilievo.
  In base alle indicazioni dell'Organo parlamentare, i Carabinieri hanno formato un album fotografico che, successivamente, è stato sottoposto in visione a Grado.
  Il collaboratore, in effetti, ha riconosciuto nelle foto un trafficante d'arte del tutto rispondente per età, provenienza e affari, alla persona descritta nel precedente verbale, di cui si omette di indicare le generalità in questa sede a tutela delle successive indagini.Pag. 18
  Secondo Grado, il trafficante che fece da mediatore era probabilmente un conoscitore, una persona di alta levatura culturale in grado di cogliere il valore artistico, prima ancora che economico, del dipinto, capace di commuoversi davanti alla straordinaria opera d'arte:
  «Era un esperto d'arte. Perché poi Gaetano Badalamenti mi ha fatto ridere, dice: “’Stu scimunito... – detto in siciliano – guardava il Caravaggio... Mi ha chiesto il permesso se poteva restare un po’ di più a guardarlo. Gli abbiamo dato una sedia. Gli sono spuntate le lacrime. Era appassionato proprio...».

3.2. Le dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia: “Ho detto che il quadro è stato bruciato”.

  Nell'ambito delle indagini disposte dalla Commissione, si è ritenuto necessario ascoltare anche il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia, in quanto figura determinante, come già detto, nelle pregresse indagini giudiziarie.
  Era importante, infatti, stabilire con certezza se il quadro che lui diceva di aver bruciato fosse effettivamente la Natività.
  Il collaboratore, sentito dalla Commissione, innanzitutto, ha insistito sull'esatta identificazione della tela oggetto delle sue precedenti dichiarazioni con l'opera del Caravaggio.
  Ha poi riferito dell'organizzazione del furto commesso dalla batteria di ladri a cui lui stesso apparteneva (dichiarazioni queste, coincidenti sul punto con quelle di Grado) anche se, pur partecipando all'organizzazione del delitto e alle sue fasi successive, non si occupò della materiale sottrazione della Natività:
  «Io nel ’69, prima di entrare ufficialmente in cosa nostra, facevo, insieme a Pino Greco “Scarpuzzedda” e ad altri, delle rapine a rappresentanti di gioielli... Insomma ero un ragazzaccio. In quel periodo stavo insieme, diciamo, a mio cugino [...] pure per commettere situazioni delittuose – ma in quel momento anche non di particolare importanza – che si riferivano a cosa nostra; ma come malavita organizzata, nel senso delinquenziale, per trarne profitto, di lucro.
 Il furto è avvenuto come ben sapete nell'Oratorio di San Lorenzo alla Magione, alle spalle della Kalsa. Questo quadro è stato rubato, però io quella sera non partecipai al furto perché ero con una ragazza, ma in precedenza ne avevamo parlato. Avevo visto il quadro all'Oratorio. Ero andato dentro a curiosare un giorno con [...], così, tanto per vedere com'era la situazione logistica.
 Quindi, quando il quadro è stato rubato fu caricato su un Fiat 642, un camion... Un autocarro dell'epoca, di proprietà di [...].
 Quando è stato trafugato il quadro è stato caricato su un 642 e portato alla fabbrica di ghiaccio in disuso... dove c’è il Ponte Ammiraglio».
  Marino Mannoia partecipò, insieme agli altri complici, il giorno dopo il furto, al momento in cui la tela venne mostrata a un primo possibile acquirente:
  «Eravamo presenti tutti quelli che ho nominato: Marchese e [...]. Il quadro era avvolto in un telone nella fabbrica di ghiaccio in disuso dove Pag. 19c'erano motori vecchi buttati qua e là e altre cose simili. Il quadro era messo in una cella frigorifera, non più agibile naturalmente. Il quadro era di notevoli dimensioni, di circa tre metri per due... Insomma, un quadro di misura notevole. Mi ricordo che poi questo quadro era arrotolato.
 Allora, si prepara questo quadro che era arrotolato per fare un po’ di spazio, per poterlo mettere in un una maniera distesa per aspettare questa persona che veniva a vedere il quadro... Io non è che mi intendevo di opere d'arte... Ma ho visto che il quadro in qualche modo era danneggiato... Era come squamato, diciamo che c'erano un po’ di calcinacci attorno».
  Il compratore, tuttavia, vedendo che l'opera aveva subito alcuni danni, si era rifiutato di acquistarla:
  «Questa persona ci chiama, in modo offensivo, “criminali !” e poi se ne va».
  Stando alle dichiarazioni rese negli anni precedenti dal medesimo collaboratore, a quel punto, il quadro, poiché inservibile, venne bruciato dallo stesso Mannoia. Invece, quest'ultimo, davanti alla Commissione, incredibilmente ha ritrattato quanto per anni aveva sostenuto, rivelando, stavolta, che la tela in realtà, sebbene avesse subito qualche danno, non venne mai distrutta:
  «Non mi andava di andare avanti in tutte queste situazioni e cose... Per cui io ho detto che il quadro è stato bruciato... Andato distrutto... E forse ci sarà qualche dichiarazione a qualche colonnello dei beni culturali o comunque a qualche persona importante dei beni culturali, fatta allo SCO, se non ricordo male [...].
 Siccome ero stressato dalle situazioni... Avevano ammazzato i miei familiari... Con Falcone notte e giorno... Non si stancava mai Falcone ! [...] Si è presentato un'altra personalità, un colonnello... E gli ho detto: l'ho bruciato io personalmente, [...] per non essere più disturbato. [...] Perché poi ho detto anche questo ? Perché poi c'era un fondamento che il quadro in effetti si doveva pure distruggere... Questa era la volontà».
  Del resto, come ha spiegato, egli non aveva mai attribuito al quadro alcuna importanza determinante per le dinamiche di cosa nostra:
  «Poi, in cosa nostra non si viveva per il quadro, c'erano altre problematiche... [...] Io ero addetto a raffinare la morfina base per estrarre l'eroina.
  Non era un discorso di un'eclatanza che a noi poteva riguardare più di tanto... Si deve capire il momento storico, l'attività che facevamo, e non ci importava più di tanto di un quadro».
  Non può nemmeno escludersi che la posizione all'epoca assunta da Marino Mannoia fosse dettata dalla necessità, come collaboratore di giustizia, di accreditare la propria figura quale esponente di spicco in cosa nostra: sicuramente non avrebbe giovato alla sua immagine quella del giovane ladruncolo, all'epoca non ancora appartenente all'organizzazione mafiosa, rimasto “truffato” dai suoi compagni di inferiore spessore criminale i quali, invece, rimasero in possesso Pag. 20dell'importante dipinto, del quale Marino Mannoia non fu in grado di comprendere il valore.
  Il finale di quella mattinata, dunque, è stato riferito in maniera diversa rispetto a quello, più volte ribadito da Mannoia in precedenza, della distruzione del quadro:
  «Questo quadro viene riarrotolato e Piddu Marchese, che sarebbe Giuseppe Marchese, [...] prende questo quadro tutto infuriato – incavolato, perché si era deciso veramente di distruggerlo – e se lo carica in un lambrettone con un cassone grande; se lo carica, se lo butta là e se lo porta. E il discorso finisce qua, non se ne parla più».
  Anni dopo, lo stesso Mannoia ebbe modo di ritornare a occuparsi della tela. Gli era stato chiesto, infatti, se vi fosse la possibilità di recuperarla e lui, coerentemente, fece contattare Marchese (poi deceduto), cioè colui che, l'indomani, aveva portato via il quadro. Costui, descritto con un carattere irascibile e instabile, fece sapere di detenere ancora il dipinto ma che, per consegnarlo, voleva in cambio una cospicua somma di denaro. Tuttavia, Mannoia, a un certo punto, finì per non interessarsene.
  Per tale ragione, secondo il collaboratore, il quadro tuttora potrebbe trovarsi in una delle stalle di proprietà dei Marchese, in via Mario Benso, a Palermo: «Proprio alle spalle dell'inizio della via Archirafi».
  Per scrupolo investigativo, i Carabinieri hanno poi svolto alcuni sopralluoghi in tale zona ma senza alcun esito.
  Infine, Marino Mannoia ha anche squarciato ogni ipocrisia sulle descrizioni folcloristiche che, nel tempo, hanno tentato di accreditare l'ipotesi che il quadro fosse diventato un simbolo di potere, esibito nel corso delle riunioni della commissione di cosa nostra:
  «Che questo quadro stia ancora buttato chissà dove io non lo so... Ma poi si sentono dire tutte queste cose...
  Tutte queste leggende metropolitane che il quadro veniva esposto dalla commissione di cosa nostra nei meeting... Tutte queste buffonate. Non esistono queste cose ! Cosa nostra è una delle organizzazioni più serie che esistano sul pianeta !»

3.3. Il contributo degli altri collaboratori di giustizia.

  La Commissione ha ritenuto necessario approfondire anche le altre tesi che, negli anni, si erano accreditate proprio perché provenienti da alcuni collaboratori di giustizia.
  Innanzitutto, si è voluto verificare ulteriormente il filone investigativo che aveva condotto alla figura di Gerlando Alberti come detentore, in anni più recenti, del noto quadro.
  Omettendo in questa sede un resoconto dettagliato di tutti i passaggi, ci si limita a ricordare che Vincenzo La Piana, riascoltato per conto della Commissione, ha finito per offrire alcune indicazioni della tela posseduta dall'Alberti del tutto incompatibili con la Natività.Pag. 21
  A sua volta, Fabio Manno, altro parente di Gerlando Alberti, mai interrogato nel corso delle citate indagini della procura di Palermo, avendo collaborato con la giustizia in epoca successiva, sentito anch'egli dalla Commissione, ha riferito che nulla ha mai saputo, negli anni, del furto della tela e della sua successiva destinazione.
  Inoltre, nonostante il racconto di Grado e, soprattutto, quello di Mannoia che aveva finalmente affermato di non avere mai distrutto la Natività, si è voluto approfondire anche il racconto del collaboratore Gaspare Spatuzza. Quest'ultimo aveva parlato di un deterioramento, a opera dei roditori, della tela nascosta in una porcilaia. Si poteva infatti astrattamente ipotizzare una sua conoscenza di taluni fatti, per altro ben successiva agli eventi raccontati dai due citati collaboratori.
  Dall'esame svolto dalla Commissione si è però compreso che le notizie in possesso di Gaspare Spatuzza provenivano de relato da un altro soggetto il quale, bambino all'epoca dei fatti, le aveva apprese – anche lui de relato – da una terza persona. E si è pure compreso che sia il collaboratore sia il suo informatore avevano semplicemente dedotto che il quadro di cui avevano parlato potesse essere la Natività, senza averne alcuna certezza.
  In sostanza, si trattava di mere voci a cui non è possibile attribuire alcuna valenza probatoria.

4. Le risultanze dell'inchiesta parlamentare: la svolta investigativa.

  La Commissione è certamente consapevole del fatto che i risultati raggiunti con la propria inchiesta non consentono di fugare ogni dubbio sul mistero della scomparsa dell'importante opera d'arte.
  Tuttavia, si ritiene che si possa oggi contare, per un successivo approfondimento investigativo, su alcune importanti acquisizioni.
  La prima, la più rilevante, è quella secondo cui, come detto, la Natività non è stata distrutta.
  Già le dichiarazioni, sul punto, di Grado inducono a ritenere che la tela, sebbene divisa in più parti, ma comunque venduta e trasferita in territorio svizzero, è esistente.
  Ma sono soprattutto le nuove rivelazioni di Marino Mannoia, da sempre ritenuto l'autore della distruzione del quadro, a confermare che la Natività non fu mai data alle fiamme.
  Di converso, anche l'approfondimento del racconto di Gaspare Spatuzza, rivelatosi generico e aleatorio circa l'avvenuto deterioramento della tela, comprova, al contrario, l'improbabilità che sia stata proprio la tela del Caravaggio a essere finita in pasto ai topi.
  La seconda acquisizione è quella secondo cui la pista che conduceva a Gerlando Alberti ha perso spessore.
  Già in passato gli accertamenti disposti non avevano condotto a nulla mentre oggi si può ritenere, dall'ignoranza di Manno e dalla non conducenza delle indicazioni di La Piana, che, probabilmente, il coinvolgimento di Alberti affonda le sue ragioni su alcune circostanze storiche (peraltro rinvenibili anche nei documenti della prima Commissione antimafia) che vedevano quest'ultimo in affari con Badalamenti, specie nei rapporti con la Svizzera, nonché interessato anche alle opere d'arte.Pag. 22
  La terza è che la ricostruzione offerta da Grado (il quale colloca la presenza, almeno iniziale, del quadro in Svizzera), appare, allo stato, altamente attendibile.
  Il racconto offerto dal collaboratore, che riferisce fatti da lui conosciuti direttamente e solo in parte de relato, sebbene vada ulteriormente verificato, presenta, infatti, una sua convincente logicità.
  Intanto, è verosimile che il furto fosse stato commesso da alcuni inconsapevoli ladruncoli che nulla sapevano del reale valore della tela, magari su generico mandato di terzi interessati a oggetti d'arte rubati ma non su commissione di cosa nostra, a sua volta ignara dell'esistenza e dell'importanza dell'opera.
  È invece plausibile, così come riferito da Grado, che l'interesse del Badalamenti si fosse manifestato soltanto due giorni dopo il furto (che, peraltro, non venne nemmeno denunciato tempestivamente) quando, cioè, la stampa diede, proprio allora, la prima notizia della sottrazione dell'opera e del suo rilevantissimo valore.
  Invero, come è stato riscontrato dalla Commissione, il Giornale di Sicilia di lunedì 20 ottobre 1969 pubblicò, sulla prima pagina, un articolo intitolato “Caravaggio da un miliardo rubato a Palermo” e si tratta, molto probabilmente, proprio del quotidiano a cui Grado ha fatto riferimento nelle sue dichiarazioni prima riportate3.
  Anche l'individuazione dei componenti la batteria coincide perfettamente con le precedenti acquisizioni delle indagini della procura di Palermo sì da potere affermare, ora, che non residuano dubbi sull'individuazione di tutti i soggetti responsabili del furto, sebbene tale reato sia ormai prescritto.
  Analogamente, i vari passaggi di mano dell'opera appaiono aderenti con gli equilibri di cosa nostra alla fine degli anni Sessanta e con i ruoli rivestiti nell'organizzazione mafiosa dai soggetti a vario titolo coinvolti; così come il tagli del quadro in più parti appare coerente con le usanze dell'epoca nel mercato parallelo delle opere d'arte.
  Assolutamente credibile è anche il riconoscimento dello svizzero come destinatario dell'opera, non solo per i comprovati rapporti di affari allora esistenti tra Badalamenti e la Svizzera, ma perché Grado, nel corso dell'individuazione fotografica, ha riconosciuto effettivamente, tra le varie immagini, la figura di un mercante d'arte, corrispondente per età e provenienza a quello prima descritto, il cui volto, certamente noto solo a una cerchia ristretta di estimatori, Grado non avrebbe potuto conoscere se non nelle circostanze riferite.
  3 Il titolo dell'articolo proseguiva così: “Forse è un colpo su commissione di una gang internazionale di ladri d'arte”. Nel Giornale di Sicilia del 20 ottobre 1969, nella cronaca di Palermo, compariva un altro articolo intitolato “Un giochetto da niente per i ladri portarsi via il quadro di Caravaggio”. Cfr. anche il quotidiano L'Ora di Palermo di lunedì 20 – martedì 21 ottobre 1969 che in prima pagina titolava: “È palermitana la gang che ha trafugato il Caravaggio”; l'articolo a pagina 12: “I quadri e il resto” di Leonardo Sciascia; edizione di martedì 21 – mercoledì 22 ottobre 1969, articolo “Ma quando fu rubato ?”, in cui si riferisce che la scoperta del furto avvenne alle ore 15 di sabato 18 ottobre; sul numero di mercoledì 22 ottobre – giovedì 23 ottobre 1969, a pagina 14, Mauro De Mauro pubblicò un altro articolo intitolato: “Forse diviso in tre il Caravaggio rubato a S. Lorenzo. La polizia segnala i presunti “tagli”.Pag. 23
  Inoltre, negli atti di indagine pregressi e in quelli più recenti prodotti dalla Commissione, si rinvengono diversi tasselli di conferma delle rivelazioni di Gaetano Grado.
  Basti ricordare che, anni prima, fu proprio suo fratello Vincenzo a parlare di un trasporto in Svizzera della Natività e che diversi altri collaboratori, ma anche taluni dei medesimi autori del furto sentiti confidenzialmente, avevano indicato nomi, località e circostanze sovrapponibili ai racconti di Grado.
  Stessa convergenza può riscontrarsi, in buona parte, con le attuali dichiarazioni di Mannoia il quale, individuato da Grado come appartenente alla batteria, ha ammesso di avere partecipato, nei termini prima evidenziati, al furto; ha riferito che il quadro non fu bruciato confermando dunque, al pari di Grado, l'esistenza della Natività; ha spiegato cosa accadde alla tela l'indomani della sottrazione (prima ancora dell'intervento di Badalamenti che si collocherebbe nei giorni immediatamente successivi) chiarendo che rimase a disposizione di un soggetto della famiglia di Brancaccio presso la quale, in effetti, avvenne poi, in prima battuta, secondo le dichiarazioni di Grado, l'iniziale recupero della tela.
  L'ulteriore circostanza raccontata da Mannoia sulla possibilità che, a distanza di lungo tempo, la tela fosse rimasta in possesso di Marchese, va certamente ancora approfondita, ma può dirsi, sin d'ora, che i successivi accertamenti non l'hanno riscontrata e che, comunque, tale notizia venne conosciuta soltanto de relato dal collaboratore, mentre, d'altro verso, non può escludersi che il predetto Marchese, personaggio descritto da Mannoia come un soggetto mentalmente instabile, per millanteria o interessi economici, abbia falsamente affermato di detenere ancora quel quadro.
  Contemporaneamente, l'esito sostanzialmente negativo delle indagini sulla pista Gerlando Alberti, di converso, rende ancora più probabile la veridicità del racconto di Grado.
  Allo stato può dunque ritenersi che Gaetano Badalamenti, all'epoca indiscusso capomafia, apprendendo dalla stampa dell'avvenuto furto di un'opera di enorme valore, decise di lucrare sull'affare. Approfittando della sua posizione di supremazia, si fece consegnare l'opera dai ladruncoli, appagati tramite una somma di denaro comunque consistente, e ne gestì, poi, la vendita al trafficante svizzero servendosi di una ristretta cerchia di uomini fidati con i quali, verosimilmente spartì l'importante ricavato.
  La quarta acquisizione è quella secondo cui, dunque, l'opera, probabilmente, sia transitata in una precisa località svizzera da cui potrebbe ripartirsi per proseguire le ricerche.

5. Conclusioni: Una storia semplice.

  L'ultimo racconto scritto da Leonardo Sciascia, pubblicato postumo nel 1989, è dedicato alla vicenda del furto della Natività, il noto quadro, ed è intitolato Una storia semplice.
  A fronte della raffinata complessità della trama narrata dal grande scrittore siciliano, in cui la soluzione ufficiale del giallo lascia solo intravedere i veri colpevoli, l’avvertimento del contrario contenuto nel Pag. 24titolo si è rivelato invece perfetto per descrivere la vera natura del fatto storico.
  In fondo, al di là di tante ricostruzioni immaginifiche proposte nel corso del tempo, quella del furto della Natività del Caravaggio è davvero una storia semplice.
  È, purtroppo, la storia semplice di un capolavoro rubato da ladri di poco conto, ma gestita con la forza che la mafia è capace di esercitare sul suo territorio, il quale ne viene defraudato e irrimediabilmente impoverito, con enormi danni civili, sociali ed economici – accresciuti per quasi cinquanta anni – per l'intero Paese.
  È, purtroppo, la storia semplice della banalità del male e del potere mafioso, capace di trattare un capolavoro d'arte assoluto come una cassetta di sigarette di contrabbando o una partita di droga, rapidamente trasferito all'estero in cambio di denaro sporco, a beneficio di spregiudicati collezionisti stranieri.
  Con l'iniziativa di indagine adottata, la Commissione parlamentare antimafia ha pertanto inteso fare della Natività di Palermo un simbolo della dicotomia tra Stato e mafia, metafora della lotta tra il Bene e il Male, che si combatte anche con il valore morale dell'arte e della cultura, e con la protezione del patrimonio storico artistico della Nazione, la cui tutela rientra tra i principi fondamentali della Costituzione della Repubblica (articolo 9).
  Le risultanze delle altre attività di indagine svolte sul furto, sia quelle che è stato possibile pubblicare sia quelle su cui occorre mantenere il segreto investigativo, hanno definito nitidamente uno scenario che rappresenta al tempo stesso un caposaldo e uno straordinario punto di partenza per gli ulteriori approfondimenti necessari per ricostruire le sorti della Natività e per affermare le responsabilità di tutti i soggetti coinvolti in questa storia criminale: un delitto così simbolico, al netto delle intervenute prescrizioni, merita un consolidamento giudiziario adeguato.
  La Commissione ha pertanto deliberato la trasmissione di tutti gli atti di indagine compiuti, con l'imprescindibile contributo del Comando dei Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale, alla procura della Repubblica presso il tribunale di Palermo, competente per le indagini.
  Le ricerche della Natività dovranno perciò proseguire tenacemente con il sostegno di tutte le Istituzioni, anche attraverso una forte cooperazione giudiziaria e intergovernativa a livello internazionale, per arrivare auspicabilmente un giorno a ritrovarla e restituirla, finalmente, alla Chiesa e alla Città di Palermo, alla Nazione italiana e all'intero mondo della cultura.

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   (1)  Relazione conclusiva (rel. on. Rosy Bindi), approvata nella seduta del 7 febbraio 2018 (Doc. XXIII, n. 38).

   (2)  Relazione conclusiva, cap. 4.12, Il furto della Natività di Caravaggio tra mafia e opere d'arte, pag. 364: “In occasione dell'udienza speciale accordata dal Santo Padre ai componenti e collaboratori della Commissione Antimafia, il 21 settembre 2017, la presidente Rosy Bindi ha recato in dono a Papa Francesco una piccola riproduzione della celebre Natività di Michelangelo Merisi da Caravaggio, conservata a Palermo e rubata nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969.
  Nel corso della propria attività, iniziata a fine del 2013, la Commissione ha infatti inteso riportare l'attenzione su un reato, ascritto all'operato della mafia, che ancor oggi rappresenta una gravissima ferita per il patrimonio culturale della nostra Nazione e, in particolare, per la città di Palermo, tra l'altro designata capitale italiana della cultura nel 2018.
  La Natività era infatti l'unica opera palermitana del Caravaggio, realizzata tra il 1600 e il 1609 e conservata presso l'oratorio di San Lorenzo nei pressi della chiesa di San Francesco – nella zona della Kalsa, nel centro storico di Palermo – fino al terribile furto, assurto a simbolo dei drammatici danni, morali e materiali, che la mafia ha prodotto e produce al nostro Paese e alla Chiesa Cattolica, che è anch'essa parte lesa, perché la legittima proprietaria dell'opera è la curia arcivescovile di Palermo.
  L'opera rappresenta la Natività con i santi Francesco e Lorenzo, che sono i Santi a cui sono rispettivamente intitolati l'oratorio, in cui il quadro era conservato, e la basilica, a cui l'oratorio medesimo è annesso.
  Le indagini sul furto del quadro, sebbene svolte con enorme impegno dalla magistratura e dai Carabinieri a più riprese nel corso del tempo, non sono mai riuscite né a individuarne con esattezza i responsabili, nonostante vi fosse la certezza che fossero mafiosi, né a stabilire che sorte abbia avuto davvero l'opera.
  Alcuni importanti collaboratori di giustizia hanno riferito che fosse andata perduta e anche questo ha contribuito a far perdere le speranze di ritrovarla.
  Sono state poi formulate moltissime congetture, anche del tutto fantasiose, che non hanno mai trovato alcuna prova: vi è chi ha sostenuto che la grande pala (misura quasi 3 metri per 2) fosse stata gravemente lacerata già all'atto del furto, o rovinata dov'era nascosta, bruciata o distrutta dai topi; qualcuno ha sostenuto che fosse invece gelosamente conservata in Sicilia dai mafiosi che l'avevano rubata, per esporla in occasione dei summit tra i massimi capi di cosa nostra; che fosse rientrata nella cosiddetta trattativa Stato-mafia; che fosse stata appannaggio di avidi collezionisti, con il sospetto che fossero importanti personalità, ora della politica, ora degli affari o dello spettacolo.
  Nel tempo si sono affastellate molte ipotesi sulle vicende del quadro, che sono state anche oggetto di numerosi libri, documentari, rappresentazioni teatrali e cinematografiche.
  La lunga assenza ha inoltre impedito anche agli storici dell'arte di svolgere più accurati studi sull'opera, la cui iconografia non è del tutto decifrata né si è ancora ben ricostruito il significato, la committenza, i tempi, il luogo e l'occasione per cui è stata realizzata dal grande artista, un “gran lombardo”, ma anche e soprattutto un grande italiano che, nato a Milano, visse a Roma e peregrinò tra Napoli, Malta, Siracusa, Messina e Palermo in Sicilia, prima di morire in Toscana, a Porto Ercole.
  Il tempo trascorso ha inevitabilmente affievolito le speranze di successo dei pur pregevoli sforzi di indagine, condotti a tutto campo e da tempo dai Carabinieri del TPC e dalla procura di Palermo, e che comunque non sono mai stati interrotti anche se il delitto di furto è ormai prescritto.
  L'opera è ormai da considerarsi alla stregua di un grande latitante di mafia ed è inserita nella Top Ten Art Crimes del FBI, la lista dei più gravi furti d'arte al mondo compilata dalla famosa polizia americana, che ne stima il valore in 20 milioni di dollari, ammesso che l'opera possa averne uno sul mercato legale, essendo invendibile in quanto rubata.
  Di sicuro, per la Sicilia e l'Italia, il suo valore è inestimabile, sia per l'appartenenza alla Nazione, che è fondata anche sul patrimonio storico e artistico e sulla sua tutela, che la nostra Costituzione inserisce tra i suoi principi fondamentali, sia per la cultura e l'immagine del nostro Paese, anche per ciò che rappresenta all'estero, sia per l'economia nazionale attraverso l'enorme indotto dell'arte e del turismo.
  La Commissione di inchiesta, in base alla Costituzione (articolo 82), ha come noto i poteri della magistratura. Tuttavia, per la sua peculiare natura politico-istituzionale, essa non è soggetta ad alcune delle condizioni e dei limiti intrinseci alla funzione giudiziaria, come per esempio l'obbligatorietà dell'azione penale e la prescrizione dei reati, e nella sua autonomia ha ritenuto che la vicenda dovesse uscire dal cono d'ombra rispetto alla luce delle istituzioni e dell'opinione pubblica, in cui rischiava di cadere progressivamente, e che fosse invece meritevole della massima attenzione, non solo sotto il profilo strettamente criminale, ma anche sotto quelli, più vasti, politici, culturali e sociali.
  Per tale ragione, la Commissione parlamentare ha inteso rilanciare le ricerche coinvolgendo, in un rigoroso quadro di collaborazione istituzionale, tutti i soggetti interessati (Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, magistratura, forze di polizia). Sono stati quindi individuati nuovi filoni investigativi, affidati ai carabinieri del Comando per la tutela patrimonio culturale.
  Dalle indagini è emerso che è stato senza dubbio un “furto di mafia”, i cui autori sono stati individuati.
  Convergenti dichiarazioni rese alla Commissione dai collaboratori di giustizia Gaetano Grado e Francesco Marino Mannoia hanno chiarito che il furto maturò nell'ambiente di piccoli criminali, ma che l'importanza del quadro, e il suo enorme valore, subito evidenziati sulla stampa dell'epoca, indussero i massimi vertici di cosa nostra a interessarsi immediatamente della vicenda e a provvedere immediatamente a rivendicare l'opera.
  La Natività fu quindi consegnata, dopo alcuni rapidi passaggi di mano, prima a Stefano Bontade come capo del mandamento “competente” per il furto e poi a Gaetano Badalamenti, all'epoca a capo dell'intera organizzazione mafiosa.
  Al riguardo, è importante evidenziare la ritrattazione, avvenuta proprio nel corso della recente attività della Commissione, del collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia in merito alla asserita distruzione dell'opera, così come in precedenza dichiarato da lui stesso all'autorità giudiziaria, tra cui allo stesso giudice Giovanni Falcone.
  Dopo la “avocazione” della gestione del furto da parte di Badalamenti, quest'ultimo ne curò in tempi rapidi, già nel 1970, il trasferimento all'estero, verosimilmente in Svizzera, sfruttando i canali ampiamente aperti con quel Paese nell'ambito del traffico internazionale di sostanze stupefacenti.
  L'intermediazione nella vendita dell'opera sarebbe stata curata da un fiduciario venuto dalla Svizzera, esperto antiquario, da tempo defunto.
  Quest'ultimo è stato identificato grazie al riconoscimento fotografico effettuato da parte di uno dei collaboratori di giustizia interrogati, il quale lo aveva visto personalmente all'epoca dei fatti, nonostante il tempo trascorso.
  Lo stesso collaboratore ha dichiarato che, in base a quanto appreso da Gaetano Badalamenti, l'opera era stata trasferita in Svizzera a fronte di una grande somma di denaro, pagata in franchi svizzeri, e lì verosimilmente scomposta, purtroppo, in sei o otto parti, per essere venduta sul mercato clandestino internazionale.
  Non è pertanto possibile riferire ulteriori dettagli sulle indagini, che alla fine della legislatura saranno trasmessi per competenza alla magistratura palermitana ai fini del loro prosieguo.
  Si può tuttavia affermare riepilogativamente che, grazie all'impulso della Commissione e al lavoro dei suoi collaboratori e dei Carabinieri delegati alle indagini, si è riusciti a ricostruire la dinamica del furto e i passaggi conseguenti.
  Sono stati dunque individuati sia gli esecutori materiali sia coloro che hanno gestito le fasi successive della custodia e del trasporto dell'opera, e della successiva vendita.
  Si può pertanto ritenere – ed è questa un'acquisizione fondamentale – che l'opera non sia andata perduta, come si riteneva in precedenza in base alle dichiarazioni di importanti collaboratori di giustizia.
  Il capolavoro del Caravaggio si trova da allora al di fuori del nostro Paese e verosimilmente lo è tuttora, in uno o più Paesi dentro e fuori l'Europa a causa della probabile, criminale scomposizione dell'opera in più parti, effettuata allo scopo di mimetizzarne la provenienza furtiva e massimizzare i proventi derivanti dalla vendita non di uno ma di più quadri, ciascuno parte di un capolavoro assoluto.
  Pertanto, a livello internazionale, occorrerà una forte cooperazione giudiziaria e intergovernativa per seguirne le tracce e auspicabilmente arrivare un giorno a ritrovarla e restituirla alla città di Palermo, alla Nazione italiana e all'intero mondo della cultura”.