TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 31 di Martedì 11 giugno 2013

 
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MOZIONE CONCERNENTE MISURE A SOSTEGNO DELLA SCUOLA, DELL'UNIVERSITÀ E DELLA CULTURA

   La Camera
   premesso che:
    nella relazione congiunta 2010 del Consiglio e della Commissione dell'Unione europea sull'attuazione del programma di lavoro «Istruzione e formazione 2010», l'istruzione e la formazione sono al centro dell'agenda di Lisbona per la crescita e l'occupazione e costituiscono un elemento essenziale del suo follow-up fino al 2020. Per la crescita e l'occupazione, ed anche per l'equità e l'inclusione sociale, è fondamentale dar vita a un «triangolo della conoscenza: istruzione/ricerca/innovazione» che funzioni e fare in modo che tutti i cittadini siano meglio qualificati; pertanto, viene ribadita la necessità di investire nei sistemi di istruzione e formazione anche, e soprattutto, in periodi di crisi economica per rispondere a sfide socioeconomiche essenziali;
    dalla relazione sopra citata si legge che, a livello nazionale, gli Stati membri dovranno, tra l'altro, garantire: investimenti efficienti nei sistemi di istruzione e formazione a tutti i livelli (dalla scuola materna all'insegnamento superiore), migliorare i risultati nel settore dell'istruzione in ciascun segmento (prescolastico, elementare, secondario, professionale e superiore) nell'ambito di un'impostazione integrata, che comprenda le competenze fondamentali e miri a ridurre l'abbandono scolastico e migliorare l'apertura e la pertinenza dei sistemi di istruzione, creando quadri nazionali delle qualifiche, e conciliare meglio i risultati nel settore dell'istruzione con le esigenze del mercato del lavoro;
    gli interventi nel settore culturale, intesi come la valorizzazione dell'immenso patrimonio culturale e come sostegno delle università e degli istituti di ricerca, possono costituire incentivo alle imprese virtuose e rilanciare il turismo: basti pensare che uno studio del 2008, realizzato dall'istituto Guglielmo Tagliacarne per l'Unioncamere e il Ministero per i beni e le attività culturali, mette in evidenza un settore culturale che ricopre una posizione di primo piano nell'economia nazionale, quantificabile al 2006 in un valore aggiunto di circa 167 miliardi di euro e un assorbimento di 3,8 milioni di occupati (rispettivamente il 12,7 per cento e il 15,4 per cento del totale delle attività economiche);
    secondo la ricerca «Sponsor Value® - Cultura e Spettacolo» realizzata da StageUpSport & Leisure Business e Ipsos, se l'Italia investisse in cultura quanto mediamente fanno Francia, Gran Bretagna, Germania e Spagna, il prodotto interno lordo nazionale indotto raggiungerebbe i 140 miliardi di euro, con un incremento rispetto ad oggi del 253 per cento;
    per «cultura» si deve intendere una concezione allargata che implichi educazione, istruzione, ricerca scientifica e conoscenza, tutela dei beni culturali, sviluppo e fruizione della produzione culturale, in questo senso il rapporto dialettico tra sviluppo economico e culturale rappresenta un volano per la crescita produttiva e sociale;
    le politiche in materia di cultura che hanno caratterizzato le precedenti legislature sono state fortemente condizionate da una progressiva e perdurante riduzione dei finanziamenti pubblici; basti pensare che, a fronte di stanziamenti pari a 2.098 milioni di euro per l'anno 2008, si è passati a soli 1.512 milioni di euro previsti dalla legge di bilancio 2013, determinando una decurtazione di circa un quarto degli stanziamenti previsti;
    la politica dei tagli, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo sconsiderata, che nella XVI legislatura nel solo settore scuola ed università ha tolto 7.565 milioni di euro all'istruzione, all'università e alla ricerca, con un taglio alla voce di bilancio dello Stato che passa, negli ultimi cinque anni, dal 10,6 per cento al 9,1 per cento, producendo un processo di impoverimento culturale e sociale che mina la stabilità del vivere civile e solidale, relega l'Italia agli ultimi posti in Europa in quanto a investimenti nell'istruzione, quando invece Germania e Francia investono fino a 10 volte più del nostro Paese;
    i tagli lineari effettuati nella scuola, compresi i pesanti tagli ai fondi «Miglioramento dell'offerta formativa» e «Fondo delle istituzioni scolastiche», che solo nell'ultimo anno sono stati decurtati del 33 per cento, hanno comportato, tra l'altro, il ridimensionamento della rete scolastica, la riduzione del tempo pieno, l'impossibilità di svolgere attività laboratoriali e in compresenza, una complessiva riduzione dei servizi e delle offerte formative (come i corsi di recupero e potenziamento), fino a una grave carenza di risorse per l'ordinario funzionamento delle scuole;
    dal settembre 2008 al settembre 2013 il numero degli alunni dalla prima elementare alla quinta liceo è cresciuto di 90.990 unità e, in uno sviluppo normale del rapporto discente-docente, questa crescita avrebbe dovuto significare 9.000 insegnanti in più; al contrario, in cinque anni ci sono stati 81.614 docenti in meno;
    sempre nei cinque anni presi in considerazione, le classi sono diminuite di 9.285 unità, mentre ne sarebbero servite 4.500 in più (con una media di 20 alunni per aula), vista la forte crescita di iscritti, con la naturale conseguenza che sono aumentate le «classi pollaio»: il limite di 20 alunni per classe in presenza di un compagno con disabilità – regola definita per legge – quasi mai viene rispettato;
    a fronte della più bassa percentuale in Europa di spesa pubblica in istruzione (fonte Eurostat), l'Italia ha tagliato in ogni ciclo scolastico: 28.032 posti nella primaria, 22.616 nella secondaria di primo grado, 31.464 nella secondaria di secondo grado; inoltre, con gli accorpamenti, alla fine dell'anno scolastico scompariranno 2.094 scuole, il 20 per cento, e si calcola che sono 557 gli istituti sul territorio senza un preside, né un dirigente amministrativo;
    il precariato scolastico – che conta ormai oltre 200.000 tra insegnanti abilitati e non formalmente abilitati anche se idonei all'insegnamento – è diventato un elemento strutturale del sistema, anche a causa delle suddette politiche che hanno impedito un graduale assorbimento di chi, dopo aver superato procedure concorsuali, frequentato corsi e conseguito titoli abilitanti, per anni ha prestato la propria professionalità, garantendo, di fatto, il funzionamento della scuola pubblica;
    secondo un rapporto di Legambiente del 2012, quasi la metà degli edifici scolastici non possiede le certificazioni di agibilità, più del 65 per cento non ha il certificato di prevenzione incendi e il 36 per cento degli edifici ha bisogno di interventi di manutenzione urgenti, senza contare che il 32,42 per cento delle strutture si trova in aree a rischio sismico e un 10,67 per cento in aree ad alto rischio idrogeologico;
    il decreto ministeriale del 3 ottobre 2012, recante l'approvazione del programma di edilizia scolastica, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 7 del 9 gennaio 2013, relativo al piano straordinario per la messa in sicurezza degli edifici scolastici, riguarda 989 edifici scolastici per un costo stimato complessivo di 111.800.000,00 euro; tuttavia, non si può fare a meno di rilevare che dalla ripartizione regionale dei fondi il rapporto tra il valore del finanziamento con il numero di scuole (pubbliche e private) presenti in ciascuna regione (dati Istat 2011), il Nord ne riceverà il 69 per cento, il Centro il 28 per cento e il Sud e le Isole appena il 3 per cento, un'evidente ripartizione squilibrata che consegna un Italia con territori che non hanno gli stessi diritti di avere scuole di uguale livello in termini di sicurezza;
    le risorse economiche destinate all'università sono state drasticamente diminuite per effetto del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008, ed in particolare sono stati tagliati oltre 1.440 milioni di euro sui fondi di finanziamento ordinario delle università;
    si sono ridotte in maniera drammatica le possibilità di reclutamento e avanzamento di carriera e si limitano le possibilità di utilizzo delle risorse per cessazioni, al punto che se nel 2010 gli atenei in media sono riusciti a mantenere un reclutamento pari al 41 per cento circa dei pensionamenti, per l'attuazione del decreto-legge n. 180 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 1 del 2009, d'ora in poi la percentuale media – stando alle simulazioni del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca – sarà almeno dimezzata, con una consequenziale migrazione di ricercatori all'estero;
    la legge n. 240 del 2010, di riforma del sistema universitario, ha soppresso la figura del ricercatore a tempo indeterminato, sostituendola con quella del ricercatore a tempo determinato, escludendolo da qualsiasi possibilità di crescita professionale e di carriera; inoltre, la riforma stessa rende insostenibili molti corsi di laurea, che saranno costretti a chiudere, in quanto i criteri stabiliti non tengono conto del quadro reale esistente, ma sono volti anch'essi esclusivamente ad un taglio delle spese;
    in particolare, nell'ultimo anno i ricercatori strutturati si sono ridotti di 400 unità (passando da 23.800 a 23.400), mentre quelli precari sono passati da 33.000 a 13.400. Pertanto, questi quasi ventimila precari sono stati, di fatto, «espulsi» dal sistema accademico: niente rinnovo, niente tutele, niente università. Un risultato dovuto principalmente alla costante riduzione dei finanziamenti ministeriali e al blocco del turn-over. L'Adi stima che l'85 per cento degli assegnisti di ricerca odierni non potrà intraprendere la carriera universitaria;
    il decreto-legge n. 95 del 2012, cosiddetto spending review, ha modificato l'articolo 5, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica n. 306 del 1997, che limitava al 20 per cento del fondo di funzionamento ordinario delle università l'ammontare complessivo del gettito delle tasse universitarie per ateneo e, di conseguenza, ha liberalizzato la tassazione universitaria, facendo sì che il minor gettito di risorse da parte dello Stato sia coperto dallo studente con una tassazione molto più onerosa;
    il decreto legislativo n. 68 del 2012 ha modificato completamente l'impianto del diritto allo studio, già abbastanza iniquo, riducendo drasticamente il numero di idonei per le borse di studio, in quanto i nuovi criteri sono stati studiati nell'ottica di tagliare la spesa, e comportando un aumento della tassa regionale per il diritto allo studio;
    il settore dei beni culturali rientra tra gli assi principali di riferimento anche a livello europeo, fondandosi esso sul riconoscimento delle ampie potenzialità espresse dalle attività connesse alla conservazione, al restauro e alla gestione del patrimonio culturale e su quanto esse siano in grado di contribuire in modo efficace alla realizzazione di una concreta ed efficace politica costruttiva con effetto sinergico su diversi settori;
    l'Italia è il Paese che possiede il patrimonio artistico e culturale più importante del mondo, sia in termini di quantità (l'Italia è il Paese con la maggior distribuzione di musei sul territorio) che di qualità; una fonte di informazione autorevole in merito è rappresentata dalla lista del patrimonio mondiale elaborata dall'Unesco, Organizzazione delle Nazioni unite per l'educazione, la scienza e la cultura, dalla quale risulta che l'Italia è il Paese che detiene il maggiore patrimonio culturale del mondo; pertanto, se adeguatamente valorizzato, rappresenterebbe una risorsa inestimabile in termini socioculturali ed economici;
    tuttavia, l'inadeguatezza delle risorse, destinate alla conservazione e alla valorizzazione dell'immenso patrimonio italiano dei beni culturali, è diventata oltremodo insostenibile; pertanto, è auspicabile una politica di rilancio del piano di manutenzione ordinaria dei beni culturali, con fondi da rimodulare e con risorse ulteriori;
    anche il settore dello spettacolo subisce tagli in conseguenza delle misure della spending review e della recente sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 2012, che ha ordinato il reintegro dei tagli agli stipendi dei dirigenti; la cifra complessiva di stanziamento del fondo unico per lo spettacolo, il finanziamento che lo Stato dà al settore, è pari a 389,8 milioni per il 2013. Nel 2012 erano 411, 414 nel 2010, addirittura 527 nel 2001. Si tratta di un taglio consistente (20 milioni) che riduce oltremodo l'investimento statale nel settore, confermando così le peggiori previsioni;
    lo stanziamento sarà distribuito, come sempre, per il 47 per cento alle fondazioni liriche (ma per effetto del taglio si divideranno 10,1 milioni di euro in meno), il cinema vedrà il 18,59 per cento e i teatri 16,4 per cento, con 3,4 milioni di euro in meno, alla musica andrà il 14,10 per cento del fondo unico per lo spettacolo;
    a fronte dei tagli effettuati, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo sconsiderati, diventa, dunque, indispensabile investire nell'intero settore culturale con strategie di lungo periodo e con risorse certe e continuative; alcune possibili fonti di finanziamento possono essere le seguenti:
     a) si possono distribuire in maniera più intelligente i tagli lineari definiti con le manovre di finanza pubblica, recuperando finanziamenti per i settori della conoscenza e della cultura;
     b) si possono abolire le province, che, secondo quanto emerge dal rapporto Italia 2008 dell'Eurispes, porterebbe ad un risparmio di almeno 10,6 miliardi di euro, pur nell'ipotesi che il personale delle province (pari a 62.778 tra dirigenti e impiegati secondo la Ragioneria generale dello Stato) venisse reimpiegato in altre amministrazioni o istituzioni locali;
     c) si può attuare la graduale e progressiva riduzione delle spese militari, a partire dall'abolizione del «Programma F-35» e dal ritiro delle truppe italiane dall'Afghanistan;
     d) si possono abolire i rimborsi elettorali pari a 91 milioni di euro, relativi a queste ultime elezioni, comprensivi di quelli già rifiutati dal Movimento 5 Stelle con una semplice rinuncia sottoscritta e firmata, alla portata di qualsiasi altra forza politica;
     e) si possono abolire i contributi elettorali ai partiti;
     f) si possono da subito abolire i finanziamenti diretti e indiretti all'editoria;
     g) si possono ridurre le indennità parlamentari;
     h) si possono abolire gradualmente le risorse destinate alle scuole paritarie;
    è dovere delle istituzioni favorire la realizzazione dei sistemi di istruzione e formazione più aperti al territorio, che prevedano una maggiore integrazione sistemica con gli organismi territoriali che intervengono per la risoluzione delle problematiche sociali e familiari, che rispondano meglio al benessere dei cittadini e della comunità in cui vivono, al loro sano sviluppo culturale e ad una piena occupazione nella società con adeguato reddito;
    è dovere delle stesse istituzioni attuare riforme, continuando contemporaneamente a investire nei sistemi di istruzione e formazione per rispondere alle sfide socioeconomiche che ci si presentano, sfruttando meglio le potenzialità che le nuove tecnologie offrono in termini di promozione dell'innovazione e della creatività, per rinnovare i processi di insegnamento-apprendimento;
    non si può più consentire lo sperpero dell'immenso patrimonio culturale italiano attualmente in atto; è, quindi, imprescindibile garantire l'accesso e la fruizione delle risorse culturali del Paese, potenziando la struttura ricettiva dei musei, con evidente impatto positivo sull'industria del turismo e sull'occupazione;
    è necessario introdurre meccanismi virtuosi di reperimento e distribuzione delle risorse nel settore dello spettacolo, anche traendo spunto dalle soluzioni adottate in altri Paesi europei,

impegna il Governo:

   ad adottare politiche che concentrino risorse aggiuntive sul settore della conoscenza ed un piano di rientro di massimo 2 anni delle risorse sottratte nella XVI legislatura al settore cultura, scuola e università, individuando fonti di finanziamento reperibili nell'immediato;
   a non perdere di vista l'importanza di investire nella scuola, nella preparazione dei giovani, nella valorizzazione dei saperi, anche restituendo al ruolo dei docenti la centralità che loro compete, affinché quello italiano diventi un sistema di istruzione veramente innovativo e capace di interpretare la complessità del presente e di garantire più certezze nel futuro;
   a ricoprire tutte le cattedre vacanti prima dell'inizio dell'anno scolastico 2013/2014, anche con un piano triennale di assunzioni che preveda la stabilizzazione del maggior numero di docenti precari, con l'inserimento organico nella scuola di nuove figure professionali (psicologi, pedagogisti tutor, consiglieri di orientamento, specialisti nella gestione di disabilità gravi, consuler, educatori) e con investimenti in formazione in itinere qualificata per i docenti orientata alle best practice in Italia e in Europa;
   a programmare la costruzione di un sistema integrato e trasversale che coinvolga formazione, università, nuove tecnologie e linguaggi plurimediali, biblioteche, editoria, eventi, musei, valorizzazione del patrimonio artistico, start-up, turismo, infrastrutture locali, trasporti sostenibili e comunicazione;
   a prevedere un piano di messa in sicurezza degli edifici scolastici per l'adeguamento strutturale di tutti i plessi nell'arco di 4 anni, con una maggiore entità di fondi per le regioni del Sud e per le Isole fortemente penalizzate con la ripartizione regionale dei fondi destinati all'edilizia scolastica (decreto ministeriale del 3 ottobre 2012 – Gazzetta Ufficiale n. 7 del 9 gennaio 2013);
   a prevedere un sistema che garantisca adeguate risorse per gli istituti che hanno risultati qualitativi più bassi, al fine di aumentare lo standard qualitativo del sistema scuola italiano ed evitare di penalizzare i territori con maggior disagi sociali ed economici;
   a ripristinare pienamente la possibilità di esercitare il diritto allo studio con opportuni fondi adeguati a garantire borse di studio e strutture di accoglienza per gli studenti che non hanno le opportunità economiche per sostenere i costi dell'università, valutando tra questi i più meritevoli;
   a ridiscutere il metodo di finanziamento delle università, legando il fondo di finanziamento ordinario a meccanismi che valutino l'effettivo impatto socio-economico che il laureato ha nella società, rivedendo il meccanismo del costo standard per studente;
   a coordinare e selezionare con le università, i centri di ricerca e le imprese, i progetti di ricerca prioritari nei settori nei quali il Paese può diventare leader e sui quali concentrare le risorse finanziarie e umane e a favorire l'insediamento nei territori, anche sulla base dei risultati conseguiti da tali ricerche, di imprese innovative, con capitali reperiti sul mercato;
   a realizzare un piano di investimenti pluriennale per i beni culturali, non limitandosi ad interventi straordinari dettati solo dall'urgenza e dalla contingenza, ma attraverso una seria programmazione che veda il coinvolgimento e la responsabilizzazione delle regioni;
   a prevedere forme di agevolazione, anche di tipo fiscale, per gli operatori del settore dello spettacolo, riconoscendone il valore culturale, al fine di garantirne la sopravvivenza in questo momento di crisi che colpisce, soprattutto, le individualità e le piccole realtà artistiche.
(1-00035)
«Luigi Gallo, Di Benedetto, Brescia, Simone Valente, Vacca, Marzana, D'Uva, Battelli, Chimienti, Micillo, Luigi Di Maio».
(8 maggio 2013)

MOZIONE RELATIVA AL DIRITTO ALL'OBIEZIONE DI COSCIENZA IN AMBITO MEDICO-SANITARIO

   La Camera
   premesso che:
    nel nostro Paese, in ambito medico-sanitario il diritto all'obiezione di coscienza è espressamente codificato e disciplinato per legge riguardo: all'interruzione della gravidanza, laddove l'obiezione è riconosciuta dall'articolo 9 della legge n. 194 del 1978; alla sperimentazione animale, dove l'obiezione di coscienza è disciplinata dalla legge n. 413 del 1993; alla procreazione medicalmente assistita, dove l'obiezione di coscienza viene prevista e disciplinata dall'articolo 16 della legge n. 40 del 2004;
    l'esercizio del diritto all'obiezione di coscienza da parte del personale sanitario in relazione all'interruzione volontaria di gravidanza riveste particolare importanza, per le sue ricadute socio-sanitarie sulle donne e sulla stessa funzionalità del servizio sanitario nazionale;
    l'ultima relazione sullo stato di attuazione della legge n. 194 del 1978, presentata al Parlamento dal Ministro della salute il 9 ottobre 2012, riporta – tra l'altro – i dati definitivi sull'obiezione di coscienza esercitata da ginecologi, anestesisti e personale non medico nel 2010. I dati che emergono sono molto eloquenti e impongono ancora una volta, e con forza, una seria riflessione sulla garanzia e la qualità del servizio per l'interruzione della gravidanza disciplinata dalla legge n. 194 del 1978;
    la relazione dice che in Italia ben il 69,3 per cento dei ginecologi del servizio pubblico è obiettore di coscienza. In pratica, quasi sette medici ginecologi su dieci è obiettore. Se si analizzano i dati su base territoriale, si trova che, ad eccezione della Valle d'Aosta, dove i ginecologi obiettori sono solamente il 16,7 per cento, le percentuali regionali non scendono mai al di sotto del 51,5 per cento. I dati medi aggregati per Nord, Centro, Sud e Isole indicano percentuali di ginecologi obiettori di coscienza pari rispettivamente al 65,4 per cento, al 68,7 per cento, al 76,9 per cento e al 71,3 per cento. Il maggior numero di ginecologi obiettori si trova al Sud, con la punta più alta in Molise, dove si raggiunge l'85 per cento;
    i dati della relazione al Parlamento in realtà non riescono a fotografare lo stato reale della sua applicazione sul territorio nazionale, che risulta ben più grave di quella riferita dal Ministro pro tempore;
    si ricordano, in tal senso, i dati resi noti da Laiga (Libera associazione italiana dei ginecologi per l'applicazione della legge 194) il 14 giugno 2012 e risultanti da un attento monitoraggio dello stato di attuazione della legge nella regione Lazio, dai quali emerge una situazione reale ben più grave di quanto riportato nella relazione del Ministro pro tempore: nel Lazio in 10 strutture pubbliche su 31 (esclusi gli ospedali religiosi che invocano una obiezione «di struttura» e le cliniche accreditate, la maggior parte delle quali ignora semplicemente il problema) non si eseguono interruzioni di gravidanza. Nella medesima regione ha posto obiezione di coscienza il 91,3 per cento dei ginecologi ospedalieri. In 3 province su 5 (Frosinone, Rieti, Viterbo) non è possibile eseguire aborti terapeutici, il che costringe le donne alla triste migrazione verso i pochi centri della capitale, sempre più congestionati, o in altre regioni, o all'estero;
    molte strutture ospedaliere, per garantire l'applicazione della legge, ricorrono a specialisti esterni convenzionati con il sistema sanitario ed assunti esclusivamente per le interruzioni di gravidanza (medici Sumai), o a medici «a gettone», con un significativo aggravio per il sistema sanitario nazionale;
    a livello nazionale, la principale conseguenza di un numero così elevato di obiettori di coscienza è quella di rendere sempre più difficoltosa la stessa applicazione della legge n. 194 del 1978, con effetti negativi sia per la funzionalità dei vari enti ospedalieri e, quindi, del sistema sanitario nazionale, sia per le donne che ricorrono all'interruzione volontaria di gravidanza;
    la drammaticità dello stato di applicazione della legge comporta l'allungamento dei tempi di attesa, con maggiori rischi per la salute delle donne e maggiori rischi professionali per i pochi non obiettori, costretti loro malgrado ad una cattiva pratica clinica;
    a fronte di questo stato «di emergenza» le donne devono spesso migrare da una regione all'altra o addirittura all'estero e, sopratutto tra le immigrate, risulta necessario il ricorso all'aborto clandestino;
    il diritto all'obiezione di coscienza in materia di aborto per il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie è sancito dall'articolo 9 della suddetta legge n. 194 del 1978, che, allo stesso tempo, prevede che gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate siano «tenuti in ogni caso ad assicurare l'espletamento delle procedure e gli interventi di interruzione della gravidanza. La regione ne controlla e garantisce l'attuazione anche attraverso la mobilità del personale»;
    la legge n. 194 del 1978 prevede, quindi, scelte individuali e responsabilità pubbliche. L'obiezione di coscienza è, infatti, un diritto della persona, ma non della struttura;
    al personale sanitario viene garantito di poter sollevare l'obiezione di coscienza. Ma quel che è un diritto del singolo, non è un diritto della struttura sanitaria nel suo complesso, che ha, anzi, l'obbligo di garantire l'erogazione delle prestazioni sanitarie;
    i dati sopra indicati sulle percentuali molto elevate di obiettori comportano, oltre che evidenti ricadute negative sulla stessa effettiva attuazione della legge sull'interruzione volontaria di gravidanza e, quindi, sulle donne che rivendicano l'inviolabile libera scelta a farne ricorso, anche conseguenze oggettivamente pesanti sui sempre più pochi medici non obiettori, che spesso si ritrovano relegati a occuparsi quasi esclusivamente di interruzioni di gravidanza, con il rischio più che concreto di una dequalificazione professionale e di conseguenti effetti penalizzanti sulle loro stesse possibilità di carriera;
    il diritto della donna ad interrompere una gravidanza indesiderata e quello del personale sanitario a sollevare obiezione di coscienza dovrebbero poter convivere, affinché nessun soggetto veda negata la propria libertà. Di fatto, tale ipotesi trova estrema difficoltà nel realizzarsi per i numeri esorbitanti dei medici obiettori, che spesso si rifiutano anche di segnalare alle pazienti un medico non obiettore o un'altra struttura sanitaria autorizzata all'interruzione volontaria di gravidanza;
    dal 2009 l'Agenzia italiana del farmaco ha autorizzato l'immissione in commercio del mifepristone, o Ru486, per l'interruzione volontaria di gravidanza farmacologica, nel rispetto dei precetti normativi previsti dall'articolo 8 della legge n. 194 del 1978; tale articolo prevede che l'interruzione volontaria di gravidanza possa essere praticata in ospedali pubblici generali e specializzati e «case di cura autorizzate e presso poliambulatori pubblici adeguatamente attrezzati». L'articolo 8 non precisa il regime in cui deve essere praticata l'interruzione volontaria di gravidanza farmacologica (ricovero ordinario, day hospital, prestazione ambulatoriale). Il Ministro della salute pro tempore, in data 24 febbraio 2010, ha chiesto in proposito il parere del Consiglio superiore di sanità; il Consiglio superiore di sanità, nella seduta del 18 marzo 2010, ha individuato il ricovero ordinario come il regime più idoneo per l'interruzione volontaria di gravidanza farmacologica;
    i dati riportati dalla letteratura internazionale, nonché i dati della regione Emilia-Romagna che ha adottato il regime di day hospital, non confermano la scelta e le raccomandazioni del Consiglio superiore di sanità; gli stessi dati del Ministero della salute sull'interruzione volontaria di gravidanza medica dicono che dal 2005 al 2011 circa 15 mila donne hanno scelto il metodo farmacologico e che il 76 per cento delle pazienti ha scelto la dimissione volontaria dopo la somministrazione del mifepristone, senza che vi siano state complicazioni maggiori rispetto alle donne che sono state ricoverate fino all'espulsione;
    risulta improrogabile la necessità di valorizzare e ridare piena centralità ai consultori, quale servizio per la rete di sostegno alla sessualità libera e alla procreazione responsabile. Come conferma anche l'ultima relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della legge n. 194 del 1978, «nel tempo i consultori familiari non sono stati, nella maggior parte dei casi, potenziati né adeguatamente valorizzati. In diversi casi l'interesse intorno al loro operato è stato scarso ed ha avuto come conseguenza il mancato adeguamento delle risorse, della rete di servizi, degli organici, delle sedi»,

impegna il Governo:

   a garantire il rispetto e la piena applicazione della legge n. 194 del 1978 su tutto il territorio nazionale nel pieno riconoscimento della libera scelta e del diritto alla salute delle donne, assumendo tutte le iniziative, nell'ambito delle proprie competenze, finalizzate all'assunzione di personale non obiettore, al fine di garantire il servizio di interruzione volontaria di gravidanza;
   ad attivarsi, nell'ambito delle proprie competenze, al fine di assicurare, come prevede la legge, il reale ed efficiente espletamento, da parte di tutti gli enti ospedalieri e delle strutture private accreditate, delle procedure e degli interventi di interruzione della gravidanza chirurgica e farmacologica;
   a garantire il pieno rispetto della legge da parte di ogni struttura pubblica o del privato accreditato (sia essa un ospedale o un consultorio), posto che solo a fronte di questo impegno può essere concesso l'accreditamento;
   ad attivarsi perché l'interruzione volontaria di gravidanza farmacologica sia offerta come opzione a tutte le donne, che, entro i limiti di età gestazionale imposti dalla metodica, devono poter scegliere;
   ad attivarsi perché l'interruzione volontaria di gravidanza medica possa essere praticata in regime di day hospital, che non comporta, come evidenziato dalla letteratura scientifica internazionale e dalla stessa relazione del Ministero della salute pro tempore, maggiori rischi per la salute e che costa meno, considerato che l'interruzione volontaria di gravidanza farmacologica viene da tempo praticata in regime ambulatoriale o di day hospital negli altri Paesi europei e nella stessa regione Emilia-Romagna;
   ad assumere ogni iniziativa di competenza, affinché la gestione organizzativa e del personale delle strutture ospedaliere sia realizzata in modo da evitare che vi siano presidi con oltre il 30 per cento di obiettori di coscienza, anche attraverso un controllo più stringente sull'attuazione delle previste procedure di mobilità del personale sanitario;
   ad assumere iniziative per prevedere che il requisito della non obiezione sia introdotto per chi deve essere assunto o trasferito in presidi, fissando la percentuale di personale sanitario non obiettore al fine di garantire la piena applicazione della legge n. 194 del 1978;
   ad assumere iniziative finalizzate a prevedere che il requisito della non obiezione sia condizione all'espletamento delle funzioni apicali nelle strutture di ostetricia e ginecologia dei presidi ospedalieri;
   ad assumere iniziative volte a prevedere – anche ai fini di una maggiore trasparenza nel rapporto tra cittadini e medici di base – che i medici di famiglia siano tenuti a comunicare agli ordini provinciali dei medici chirurghi e odontoiatri ai quali sono iscritti, se intendono esercitare il loro diritto all'obiezione di coscienza, facendo sì che da dette comunicazioni i suddetti ordini ricavino un apposito elenco pubblico;
   ad assumere iniziative per valorizzare e ridare piena centralità ai consultori familiari, quale servizio fondamentale nell'attivare la rete di sostegno per la sessualità libera e la procreazione responsabile, nonché strutture essenziali per l'attivazione del percorso per l'interruzione volontaria di gravidanza;
   a confermare e diffondere la conoscenza dei diritti in tema di contraccezione di emergenza, anche tramite adeguate azioni informative sull'esclusione del diritto all'obiezione di coscienza per i farmacisti.
(1-00045)
«Migliore, Nicchi, Piazzoni, Aiello, Airaudo, Boccadutri, Franco Bordo, Costantino, Di Salvo, Duranti, Daniele Farina, Claudio Fava, Ferrara, Fratoianni, Giancarlo Giordano, Kronbichler, Lacquaniti, Lavagno, Marcon, Matarrelli, Melilla, Nardi, Paglia, Palazzotto, Pannarale, Pellegrino, Pilozzi, Piras, Placido, Quaranta, Ragosta, Ricciatti, Sannicandro, Scotto, Zan, Zaratti».
(20 maggio 2013)

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