Organo inesistente

XVII LEGISLATURA
 

CAMERA DEI DEPUTATI


   N. 2996


PROPOSTA DI LEGGE
d'iniziativa dei deputati
BINETTI, BUTTIGLIONE, CERA, D'ALIA, DE MITA
Disposizioni relative all'alleanza terapeutica, in materia di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento
Presentata il 30 marzo 2015


      

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Onorevoli Colleghi! Non accadeva da tempo che un progetto di legge riuscisse a interpellare la coscienza di tutto il Paese, coinvolgendo persone diversissime tra loro, a volte unite da uno stesso amore per la vita, ma altre volte inguaribilmente separate da una diversa concezione della libertà che segna un crinale drammaticamente conflittuale e inconciliabile. Non è semplice comprendere cosa realmente unisse e cosa separasse gruppi e persone nella proposta di legge atto Camera n. 2350 della XVI legislatura sulle disposizioni in materia di alleanza terapeutica di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento, a volte sintetizzate con l'espressione «testamento biologico». Una definizione sbagliata, dal momento che con il testamento si danno disposizioni sulla destinazione di beni che ci appartengono, dopo la nostra morte e non prima. Un nome che la morte di Eluana Englaro ha fortemente impresso nell'immaginazione di tutto il Paese.
      L'atto Camera n. 2350 raccoglieva le dichiarazioni che una persona fa al suo medico di fiducia, dopo aver parlato con lui di vita e di morte, della possibilità di ammalarsi gravemente, fino al punto di andare incontro a una disabilità, in cui il suo stato di coscienza può apparire del tutto assente. Medico e paziente – forse nella stragrande maggioranza dei casi non si tratta neppure di pazienti –, immaginano delle situazioni che potrebbero verificarsi nel futuro. Su uno scenario del tutto virtuale facevano delle ipotesi e prendevano in considerazione le eventualità peggiori che si sarebbero potute verificare. Il clima della conversazione non può che essere amicale, la legge attuale parla di alleanza, un'alleanza che ha un obiettivo ben preciso: la relazione di cura.

Colloquio tra medico e paziente.
      La presente proposta di legge presuppone un'alleanza tra medico e paziente, un colloquio aperto che può richiedere tempi più o meno lunghi, perché le domande poste al medico richiedono la capacità di immaginare le emozioni che nascono davanti alla prospettiva della grave disabilità cronica. Il medico sa di avere davanti una persona che sta immaginando come potrebbe vivere una possibile condizione di totale dipendenza dagli altri, in uno stato di non coscienza o di minima coscienza, dove potrebbe sentire tutto senza essere capace di comunicare in modo chiaro con gli altri. Il medico sa che quest'uomo pur facendo delle scelte in apparente totale autonomia, in realtà deve elaborare una serie di condizionamenti emotivi che attentano alla sua libertà e che la irretiscono spingendola verso soluzioni che sembrano più facili e accattivanti. L'uomo si trova a un bivio in cui deve immaginare cosa vorrebbe fare in circostanze che, inevitabilmente, gli appaiono ostili. Deve immaginare cosa farebbero i suoi familiari, di cui non ignora né la forza né la debolezza; ma deve anche provare a immaginare cosa sarà in grado, di fare la scienza in quel preciso momento. È un colloquio tutt'altro che formale quello che instaura con il suo medico di fiducia, una condizione che mette a nudo la sua anima, i suoi valori e le sue convinzioni, i suoi affetti e i suoi sentimenti. Probabilmente si chiede se i suoi familiari vorranno prendersi cura di lui nonostante sia diventato un peso o se, invece, lo abbandoneranno in qualche struttura, consegnandolo a mani estranee, forse altamente professionali, ma comunque prive di quel calore affettivo di cui nessuno può fare a meno.
      Le informazioni che ci si scambia in quel momento non sono i dati asettici del linguaggio della scienza. Si tratta, invece, di dati che richiedono un'interpretazione in cui il medico si mette in gioco per aiutare il paziente a immaginare nuove ragioni per vivere in modo diverso rispetto a quello vissuto fino ad allora. La loro alleanza non si gioca solo sul piano del dire, ma anche sul piano di un possibile fare insieme. Il medico può raccontare esperienze, sollecitare ad andare a vedere, a misurarsi con orizzonti di vita imprevisti fino a quel momento, sapendo che possono offrire nuove modalità per comunicare, per comprendere e farsi comprendere, per amare e farsi amare.
      Questa proposta di legge tiene conto di tutto ciò e coglie il senso e la complessità di questa alleanza. La legge parla di solidarietà umana e di capacità di cura in contesti che non sono solo quelli professionali, mette in evidenza una dimensione particolare dell'esistenza, quando ci appare più fragile, e valorizza la ricchezza dei rapporti umani e la loro forza. Cerca di archiviare le false soluzioni che una cultura individualistica e auto-referenziale si ostina a mostrare come le uniche plausibili. È una legge che dice un no chiaro e determinato all'eutanasia in tutte le sue forme, attive e passive, perché dice contestualmente un sì forte e appassionato alla relazione di cura e alla solidarietà umana che accetta di prendere su di sé la debolezza dell'altro per accompagnarlo per il tempo necessario fino al termine della sua vita. Senza anticipare la morte, ma senza neppure accanirsi ostinatamente per prolungare una vita che sembra giunta al suo capolinea.

Diritti individuali e universalità del diritto.
      La vera sfida con cui oggi la nostra società è chiamata a misurarsi ha come oggetto specifico il rapporto tra la logica dei diritti individuali e il valore dell'universalità del diritto. Diritti universali significa diritti di tutti, nessuno escluso, neppure in condizioni di estrema fragilità, come accade nella malattia: nessuno deve sentirsi escluso né come soggetto portatore di diritti, né come soggetto di responsabilità nei confronti dei diritti altrui. Tra l'universalità dei diritti individuali e la responsabilità sociale che ne consegue occorre

inserire la riflessione sull'interdipendenza che c’è tra le persone umane, considerate nella loro singolarità, e la società considerata nel suo insieme. Il tema dell'interdipendenza tra le persone e tra le istituzioni è uno dei punti centrali nella riflessione attuale sul consenso informato e sulle dichiarazioni anticipate di trattamento.
      Nella relazione di reciproca interdipendenza che sussiste tra gli uomini sono fondamentali il rispetto della reciproca dignità, la salvaguardia degli spazi di autonomia personale e la valorizzazione della responsabilità reciproca.
      La responsabilità sociale ha inizio nell'uomo e nella sua coscienza e solo successivamente si estende alle strutture politico-economiche con cui è in costante e continua interazione. La prima responsabilità che l'uomo si assume nei confronti degli altri è quella di tutelarne i diritti come se fossero propri, riconoscendo nell'altro qualcuno altro da sé, ma uguale a sé, soggetto degli stessi diritti e degli stessi doveri. Se i diritti di cui si parla sono realmente universali, come il diritto alla vita, allora ogni soggetto può e deve reclamarli e l'intero contesto sociale deve muoversi in modo solidale nei suoi confronti, perché ogni ferita e ogni possibile forma di indifferenza verso i diritti anche di una sola persona rappresentano una condizione di rischio per i diritti di tutti. È proprio la dimensione universale di questi diritti che rappresenta la maggiore garanzia a livello individuale e il maggior livello di responsabilità a livello sociale.
      È il modo più semplice per tenere insieme libertà personale e responsabilità sociale: i diritti degli altri sono un mio dovere. Nella dialettica tra diritti e doveri ci sono un interesse reciproco concreto e una comune tensione verso la realizzazione del bene comune, che è comune proprio in quanto è tuo e mio nello stesso tempo. Se diritti e doveri non facessero riferimento a una medesima realtà assunta come buona per entrambi, non potremmo parlare di qualcosa che rappresenta un bene comune e non potremmo porre come condizione un approccio condiviso e convergente per garantirne la realizzazione.

Ricerca del senso della vita.
      Se la vita è il primo dei diritti dell'uomo, dare senso alla vita, considerandola come dono e come compito, dovrebbe essere uno dei suoi primi doveri. Di fatto l'uomo cerca, più o meno consapevolmente, di dare senso alla propria vita, attraverso il proprio lavoro e il proprio rapporto con gli altri, ma per questo ha bisogno di sentirsi libero. È nella libertà che l'uomo esprime se stesso, la sua natura, ciò che ama e ciò che desidera, perché senza libertà non si può parlare né di un comportamento eticamente accettabile, né di un comportamento semplicemente umano. In alcune correnti del pensiero contemporaneo si è giunti a esaltare la libertà al punto di farne un assoluto, da cui dipenderebbero tutti gli altri valori, interrompendo il filo conduttore che lega vita e libertà, al punto da considerare il suicidio come il supremo atto di libertà dell'uomo. Recuperare il valore della relazione tra vita e libertà è una delle sfide educative più urgenti per il nostro tempo. Alla radice della crisi dell'educazione moderna c’è una crisi di fiducia nella vita, perché c’è una stretta relazione tra la crisi dell'educazione e la trasmissione della vita.
      La cultura contemporanea sembra aver rimosso il senso del limite, lasciando suppone che tutto sia possibile, senza vincoli di sorta, perché tutto è manipolabile, a cominciare dal proprio corpo, per giungere all'origine e alla trasmissione della vita e della morte. Tutto può essere modificato a suo piacimento. Il paradosso è che a questo delirio di onnipotenza non corrisponde nell'uomo una maggiore gioia di vivere, ma una strana perdita di senso, una sensazione di solitudine, da cui è difficile uscire e che rende incapaci di reagire: «Si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un'istanza suprema del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male», affermava Giovanni Paolo II,

che continuava: «Come si può immediatamente comprendere, non è estranea a questa evoluzione la crisi intorno alla verità. Persa l'idea di una verità universale sul bene, conoscibile dalla ragione umana, è inevitabilmente cambiata anche la concezione della coscienza (...) ci si è orientati a concedere alla coscienza dell'individuo il privilegio di fissare in modo autonomo i criteri del bene e del male e agire in conseguenza. Tale visione fa tutt'uno con un'etica individualistica, per la quale ciascuno si trova confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli altri».

Alcune problematicità delle dichiarazioni anticipate di trattamento.
      Si tratta di un tema la cui rilevanza è andata costantemente crescendo negli ultimi anni. Nella letteratura bioetica nazionale e internazionale viene per lo più indicato con l'espressione inglese living will, variamente tradotta con differenti espressioni quali: testamento biologico, testamento di vita, direttive anticipate, volontà previe di trattamento e altri. Le diverse denominazioni fanno riferimento, in una prima approssimazione, a un documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o non desidererebbe essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato.       Per far acquisire rilievo pubblico a questi documenti si chiede che siano redatti per scritto, che non possa sorgere alcun dubbio sull'identità e sulla capacità di chi li sottoscrive, sulla loro autenticità documentale e sulla data della sottoscrizione e che siano eventualmente controfirmati da un medico, che garantisca di aver adeguatamente informato il sottoscrittore in merito alle possibili conseguenze delle decisioni da lui assunte nel documento, fermo restando il diritto di revocare o di cambiare parzialmente le sue disposizioni in qualsiasi momento.
      Il Comitato nazionale di bioetica (CNB) ha prodotto alcuni importanti riferimenti su questo tema. Di particolare interesse è la trattazione contenuta nel terzo capitolo del documento Questioni bioetiche sulla fine della vita umana, approvato dal CNB il 14 luglio 1995. Tra queste va anzitutto segnalata la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, da cui emerge come il consenso libero e informato del paziente all'atto medico non debba essere visto come un requisito di liceità del trattamento, ma vada considerato prima di tutto alla stregua di un vero e proprio diritto fondamentale del cittadino europeo, afferente al più generale diritto all'integrità della persona (articolo 3, diritto all'integrità personale). La Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina, fatta a Oviedo il 4 aprile 1997, resa esecutiva dalla legge n. 145 del 2001, di seguito «Convenzione», ribadendo la centralità della tutela della dignità e dell'identità della persona, attribuisce, all'articolo 9, particolare rilievo ai desideri precedentemente espressi dal paziente, stabilendo che essi saranno presi in considerazione. Il principio dell'articolo 9 era già stato accolto, nel 1998, dal codice di deontologia medica italiano, che all'articolo 34, sotto la rubrica «Autonomia del cittadino», disponeva: «Il medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell'indipendenza professionale, alla volontà di curarsi liberamente espressa dalla persona. Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tener conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso». Il medesimo codice deontologico affermava, all'articolo 36, che «il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare o favorire trattamenti diretti a provocarne la morte» e all'articolo 35 abilitava il medico a intervenire con l'assistenza e le cure indispensabili in condizioni di urgenza e in caso di pericolo di vita («Allorché sussistano condizioni di urgenza e in caso di pericolo per la vita di una persona, che non possa esprimere al momento volontà contraria, il medico deve prestare l'assistenza e le cure indispensabili»).


      Lo sfondo culturale che rende non più rinviabile un'approfondita riflessione, non solo bioetica, ma anche biogiuridica, sulle dichiarazioni anticipate è rappresentato dall'esigenza di dare piena e coerente attuazione allo spirito della Convenzione, garantendo la massima tutela possibile alla dignità e all'integrità della persona in tutte quelle situazioni in cui le accresciute possibilità aperte dall'evoluzione della medicina potrebbero ingenerare dubbi, non solo scientifici, ma soprattutto etici, sul tipo di trattamento sanitario da pone in essere in presenza di affidabili dichiarazioni di volontà formulate dal paziente prima di perdere la capacità naturale. Anche nell'intento di rispettare il più fedelmente possibile il dettato della Convenzione, è stata adottata l'espressione «dichiarazioni anticipate di trattamento» per indicare le varie forme di autodeterminazione che possono essere ricondotte a un atto compatibile con il modello etico e giuridico espresso dall'articolo 9 della Convenzione.
      Le dichiarazioni anticipate di trattamento tendono a favorire una socializzazione dei momenti più drammatici dell'esistenza e a evitare che l'eventuale incapacità del malato possa indurre i medici a considerarlo, magari inconsapevolmente e contro le loro migliori intenzioni, non più come una persona, con la quale concordare il programma terapeutico ottimale, ma soltanto come un corpo, da sottopone a un anonimo trattamento. A tale fine è opportuno fornire ai medici, al personale sanitario e ai familiari elementi conoscitivi che li aiutino a prendere decisioni che siano compatibilmente in sintonia con la volontà e con le preferenze della persona da curare. Si può dunque ben dire che le varie forme di dichiarazioni anticipate «si iscrivono in un positivo processo di adeguamento della nostra concezione dell'atto medico ai princìpi di autonomia decisionale del paziente». In realtà, le dichiarazioni non possono essere intese soltanto come un'estensione della cultura che ha introdotto, nel rapporto tra medico e paziente, il modello del consenso informato, ma hanno anche il compito, molto più delicato e complesso, di rendere ancora possibile un rapporto personale tra il medico e il paziente proprio in quelle situazioni estreme in cui non sembra poter sussistere alcun legame tra la solitudine di chi non può esprimersi e la solitudine di chi deve decidere. La finalità fondamentale delle dichiarazioni è, quindi, quella di fornire uno strumento per recuperare al meglio, nelle situazioni di incapacità decisionale, il ruolo che ordinariamente è svolto dal dialogo informato del paziente con il medico e che porta il primo, attraverso il processo avente per esito l'espressione del consenso (o del dissenso), a rendere edotto il medico di ogni elemento giudicato significativo al fine di far valere i diritti connessi alla tutela della salute e, più in generale, del bene integrale della persona. È come se, grazie alle dichiarazioni anticipate, il dialogo tra medico e paziente idealmente continuasse anche quando il paziente non può più prendervi consapevolmente parte.
      Le dichiarazioni anticipate assegnano al medico e al personale sanitario un compito valutativo reso più complesso dall'impossibilità materiale di interazione con il paziente, un compito, tuttavia, che ne esalta l'autonomia professionale (ma anche la dimensione umana). Le dichiarazioni anticipate non devono in alcun modo essere intese come una pratica che possa indurre o facilitare logiche di abbandono terapeutico, neppure in modo indiretto: infatti, le indicazioni fornite dal paziente, anche quando espresse (come è in parte inevitabile) in forma generale e standardizzata, non possono mai essere applicate burocraticamente e ottusamente, ma chiedono sempre di essere calate nella realtà specifica del singolo paziente e della sua effettiva situazione clinica. Pur essendo numerosi e complessi i problemi bioetici sollevati dalle dichiarazioni anticipate, sul piano etico, non esistono radicali obiezioni di principio nei loro confronti, anche se differenti possono essere le motivazioni e gli argomenti che le differenti teorie etiche formulano a sostegno delle proprie posizioni. La letteratura non ha portato novità rilevanti su questo punto e il CNB è concorde nel confermare l'attualità del giudizio formulato nel documento del 1995. Possono essere avanzati vari dubbi e varie riserve in ordine alla struttura e alle modalità di attuazione delle dichiarazioni anticipate, che finiscono per assumere inevitabilmente una rilevante, ma anche differenziata, incidenza etica. Senza pretendere di esaurire l'ampia gamma di problematiche emerse in un dibattito ormai più che trentennale, occorre soffermarsi su alcune domande chiave per introdurre le dichiarazioni anticipate di trattamento nella prassi medica italiana:

          1) come evitare il carattere generico o eccessivamente imperativo delle dichiarazioni anticipate con le inevitabili ambiguità dovute al linguaggio con cui vengono formulate, in specie quando il paziente non si faccia assistere, nella loro redazione, da un medico o da altro soggetto dotato di specifica competenza?

          2) quali indicazioni operative possono essere contenute in questi documenti e a chi vanno rivolte perché se ne faccia garante?

          3) quale affidabilità si può e si deve riconoscere a tali documenti? Quale vincolatività devono possedere per il medico dal punto di vista deontologico e giuridico?

      Uno dei rilievi più frequentemente mossi alle dichiarazioni anticipate riguarda l'astrattezza di cui questi documenti inevitabilmente soffrirebbero, dovuta alla distanza, psicologica e temporale, tra la condizione in cui la dichiarazione è redatta e la situazione reale di malattia in cui essa dovrebbe essere applicata. Infatti, la stessa decisione di redigere (o di rinunciare a redigere) le dichiarazioni anticipate – non pensate come un mero atto burocratico – può diventare un momento importante di riflessione sui propri valori, sulla propria concezione della vita e sul significato della morte come segno dell'umana finitezza, contribuendo così a evitare quella rimozione della morte che molti stigmatizzano come uno dei tratti negativi della nostra epoca e della nostra cultura.
      Le preoccupazioni per l'astrattezza dovuta alla distanza di tempo e di situazioni possono essere mitigate dalla previsione che la persona può sempre revocare le sue precedenti volontà, o modificarle in riferimento agli eventuali mutamenti nella percezione della propria condizione esistenziale determinati dall'esperienza concreta della malattia. Le dichiarazioni anticipate possono assumere la forma nota come pianificazione sanitaria anticipata (advanced health care planning) o pianificazione anticipata delle cure. È evidente che, per quanto una redazione meditata e consapevole delle dichiarazioni anticipate possa ridurne in modo significativo il carattere astratto, è comunque da escludere che questa astrattezza possa essere del tutto evitata. È questo già un primo e decisivo argomento (ma non certo l'unico) contro una rigida vincolatività delle dichiarazioni anticipate che, anche se redatte con estremo scrupolo, potrebbero rivelarsi non calibrate sulla situazione esistenziale reale nella quale il paziente potrebbe venire a trovarsi.
      Un ulteriore rilievo spesso avanzato nel dibattito sulle dichiarazioni anticipate riguarda il loro linguaggio e la loro competenza. È difficile per il paziente definire in maniera corretta le situazioni cliniche in riferimento alle quali intende fornire le dichiarazioni: questa situazione può essere fonte di ambiguità nelle indicazioni e, quindi, di dubbi nel momento della loro applicazione. Questo rilievo tocca un problema particolarmente spinoso se venisse portato alle sue ultime conseguenze. Nessuno dovrebbe dimenticare l'antico avvertimento aristotelico, secondo cui non si dovrebbe mai esigere un grado di precisione maggiore di quello consentito dalla materia.
      Un altro grave problema, molto affine, ma non coincidente con il precedente, è quello della concreta configurazione che a seguito dell'osservanza delle dichiarazioni acquisterebbe la decisione terapeutica del medico. Se tale decisione dovesse consistere in una fredda e formale adesione

integrale alla lettera di quanto espresso nelle dichiarazioni, si verrebbe a determinare un automatismo che finirebbe per indebolire, se non vanificare, il valore non solo etico, ma anche medico-terapeutico, della prassi medica e per potenziarne il carattere burocratico.
      La strategia individuata per risolvere queste difficoltà è stata quella della nomina da parte dell'estensore delle dichiarazioni di un curatore o fiduciario. Questa figura è presente in molti modelli di dichiarazioni anticipate proposti in Italia e all'estero, alcuni dei quali hanno già ottenuto riconoscimento legale in diversi Stati. In particolare negli Stati Uniti d'America (USA), la direttiva di delega (Durable power of attorney for health care nello Stato della California; Health care representative nello Stato dell'Oregon; Patient advocate for health care nello Stato del Michigan) costituisce la struttura portante di questi documenti. I compiti attribuibili al fiduciario possono essere molteplici, ma tutti riconducibili a quello generalissimo di operare, sempre e solo, secondo le legittime intenzioni esplicitate dal paziente nelle sue dichiarazioni anticipate, per farne conoscere e realizzare la volontà e i desideri; a lui il medico dovrebbe comunicare le strategie terapeutiche che intendesse adottare nei confronti del malato, mostrandone la compatibilità con le dichiarazioni anticipate di quest'ultimo o – se questo fosse il caso – giustificando adeguatamente le ragioni per le quali egli ritenesse doveroso (e non semplicemente opportuno), discostarsi da esse. In sintesi, spetterebbe al fiduciario il compito di tutelare a tutto tondo il paziente (a partire dalle dichiarazioni da questo formulate) prima ancora che quello di vigilare per la corretta e formale esecuzione dell'atto in cui le dichiarazioni trovino incarnazione (ma naturalmente non dovrebbe esistere alcuna difficoltà di principio a far convergere l'uno e l'altro impegno).
      È indubbio che la figura del fiduciario crei sottili problemi che è doveroso evidenziare. Essa appare, in prima battuta, modellata sul paradigma normativo che regola attualmente la protezione dei diritti e degli interessi del maggiorenne incapace. Tale riferimento è però inadeguato poiché le misure di protezione (l'interdizione e l'inabilitazione e la successiva nomina di un tutore) previste dall'ordinamento per i maggiorenni incapaci rispecchiano una linea culturale più attenta alla cura del patrimonio e più funzionale agli interessi dei familiari o dei terzi che ai diritti e ai bisogni (non soltanto patrimoniali) della stessa persona incapace. Ciò spiega l'insistenza di chi sostiene che sia assolutamente necessaria una legge per introdurre nel nostro ordinamento la figura del fiduciario, come fattispecie assolutamente nuova. Come per ogni valutazione bioetica, quella del fiduciario deve aspirare a possedere un'autorevolezza, più che un'autorità giuridicamente sanzionata, e i suoi compiti dovrebbero esclusivamente riassumersi nell'individuazione, in costante dialogo e confronto con i medici curanti, del miglior interesse del paziente divenuto incapace di intendere e di volere, a partire dalle indicazioni lasciate da costui nelle sue dichiarazioni anticipate. Spetterebbe quindi al fiduciario vigilare perché il medico non cada nella tentazione di praticare alcuna forma di accanimento e concordare con il medico la via concreta da seguire, nell'eventualità che si prospettino diverse e legittime opzioni diagnostiche e terapeutiche. Resta comunque escluso che il fiduciario possa prendere decisioni che non avrebbero potuto essere legittimamente prese dal paziente stesso nelle proprie dichiarazioni anticipate.

Contenuti delle dichiarazioni anticipate.
      Se le dichiarazioni anticipate vanno collegate all'affermarsi di una cultura bioetica, che ha già efficacemente operato per l'introduzione del modello del consenso informato nella relazione tra medico e paziente, e per il superamento del paternalismo medico, il loro ambito di rilievo coincide con quello in cui il paziente cosciente può esprimere un consenso o un

dissenso valido nei confronti delle indicazioni di trattamento che gli vengano prospettate. Il principio generale al quale il contenuto delle dichiarazioni anticipate dovrebbe ispirarsi può quindi essere così formulato: ogni persona ha il diritto di esprimere i propri desideri anche in modo anticipato in relazione a tutti i trattamenti terapeutici e a tutti gli interventi medici circa i quali può lecitamente esprimere la propria volontà attuale. Da questa definizione appare subito evidente che questo principio esclude che tra le dichiarazioni anticipate possano annoverarsi quelle che siano in contraddizione con il diritto positivo, con le norme di buona pratica clinica e con la deontologia medica o che pretendano di imporre attivamente al medico pratiche per lui inaccettabili in scienza e coscienza. Per quanto concerne l'ordinamento giuridico italiano, è da ricordare la presenza di norme costituzionali, civili e penali che inducono al riconoscimento del principio dell'indisponibilità della vita umana. Di conseguenza, attraverso le dichiarazioni anticipate, il paziente non può essere legittimato a chiedere e a ottenere interventi eutanasici a suo favore. Si aggiunga il fatto che l'ambiguità con cui in alcuni Paesi sono state redatte o sono state interpretate in modo inaccettabilmente estensivo dai giudici leggi che hanno riconosciuto validità alle dichiarazioni anticipate contribuisce a rendere estremamente complessa la corretta analisi del punto in questione e ha favorito in molti settori della pubblica opinione l'idea che il riconoscimento della validità delle dichiarazioni anticipate equivalga alla legalizzazione dell'eutanasia. Tra i contenuti delle dichiarazioni anticipate già esistenti è possibile evidenziare alcuni punti:

          1) indicazioni sull'assistenza religiosa, sull'intenzione di donare o no gli organi per trapianti, sull'utilizzo del cadavere o parti di esso per scopi di ricerca o didattica;

          2) indicazioni circa le modalità di umanizzazione della morte (cure palliative, richiesta di essere curato in casa o in ospedale eccetera);

          3) indicazioni che riflettono le preferenze del soggetto in relazione al ventaglio delle possibilità diagnostico-terapeutiche che si possono prospettare lungo il decorso della malattia;

          4) indicazioni finalizzate a sviluppare le cure palliative, secondo quanto indicato dalla legge n. 38 del 2010;

          5) indicazioni finalizzate a chiedere formalmente la non attivazione di qualsiasi forma di accanimento terapeutico, cioè di trattamenti di sostegno vitale che appaiano sproporzionati o ingiustificati;

          6) indicazioni finalizzate a chiedere il non inizio o la sospensione di trattamenti terapeutici di sostegno vitale, che però non realizzino nella fattispecie indiscutibili ipotesi di accanimento;

          7) indicazioni finalizzate a chiedere la sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione artificiale.

      I primi due tipi di indicazioni non sollevano particolari problemi e possono essere formulati in modo sufficientemente preciso e tale da non ingenerare dubbi o difficoltà di sorta in coloro che dovranno dare ad essi esecuzione. Neppure il terzo tipo di indicazioni suscita specifiche difficoltà, in specie quando assume la forma della pianificazione anticipata delle cure e si mantiene nell'ambito delle opzioni diagnostico-terapeutiche prospettabili per il decorso di una specifica malattia. Nemmeno sul quarto e sul quinto tipo di indicazioni insistono controversie di ordine morale, dato l'unanime e condiviso auspicio alla massima diffusione delle terapie palliative e l'altrettanto unanime condanna dell'accanimento terapeutico. Le ultime indicazioni sono invece ampiamente controverse e lo è in modo particolare l'ultima, in specie se si considerano i significati simbolici che si addensano sull'alimentazione e sull'idratazione, anche se artificiali. Alcuni sostengono che al paziente vada riconosciuta la facoltà di

dare disposizioni anticipate circa la sua volontà di accettare o rifiutare qualsiasi tipo di trattamento e di indicare le condizioni nelle quali la sua volontà deve trovare attuazione e sottolineano la necessità che la redazione di tali disposizioni avvenga (o comunque sia oggetto di discussione) nel contesto del rapporto tra medico e paziente, in modo che il paziente abbia piena consapevolezza delle conseguenze che derivano dall'attuazione delle sue volontà. Altri ritengono, invece, che il potere dispositivo del paziente vada limitato esclusivamente a quei trattamenti che integrino, in varia misura, forme di accanimento terapeutico perché sproporzionati o addirittura futili. Non rientrerebbero, a loro avviso, in tale ipotesi interventi di sostegno vitale di carattere non straordinario, né l'alimentazione né l'idratazione artificiali che, quando non risultino gravose per lui, costituirebbero, invece, atti eticamente e deontologicamente doverosi, nella misura in cui – proporzionati alle condizioni cliniche – contribuiscono a eliminare le sofferenze del malato terminale e la cui omissione realizzerebbe una ipotesi di eutanasia passiva.

Affidabilità delle dichiarazioni anticipate.
      Se sull'apprezzabilità morale delle dichiarazioni anticipate esiste un vasto consenso di principio, non altrettanto si può dire sul valore che a tali dichiarazioni sia da riconoscere dal punto di vista della deontologia medica e del diritto. Due sono qui, strettamente connessi, ma analiticamente distinguibili, i punti che vanno messi in discussione:

          a) quello dell'affidabilità di scelte formulate in un momento anteriore a quello in cui devono attuarsi «ora per allora»;

          b) quello del carattere per il medico vincolante od orientativo che a tali scelte debba o possa essere attribuito.

      Sotto il primo profilo, si osserva che le dichiarazioni anticipate, non assicurano il requisito della loro attualità nel momento in cui concretamente si determineranno le condizioni per cui il medico debba intervenire. Per tale ragione esse sono spesso considerate con diffidenza da parte della dottrina penalistica, dal momento che non garantiscono l'attuazione della reale volontà del paziente: il medico non avrebbe mai la certezza che le dichiarazioni pregiudizialmente espresse in determinate circostanze e condizioni personali (spesse volte di pieno benessere psico-fisico) corrispondano alle volontà che il paziente manifesterebbe, qualora fosse capace di intendere e di volere, nel momento in cui si rendesse necessaria la prestazione terapeutica. Si possono fare due contro-argomentazioni. La prima è la seguente: ove un soggetto, pur debitamente invitato a riflettere sui rischi ai quali si è accennato, al fatto cioè che tutte le decisioni anticipate di trattamento possiedono inevitabilmente un carattere precario, contingente e incerto, confermasse comunque la sua ferma volontà di redigerle, con la sua firma egli manifesterebbe senza equivoci l'intenzione di assumersi personalmente e pienamente, almeno sul piano etico, tale rischio. Questo non crea difficoltà per la maggior parte dei pazienti, intenzionati ad affidarsi alla competenza e alla saggezza del medico curante e alle sue conseguenti, insindacabili decisioni. Ma ne crea invece di significative per quei pazienti che ritengono inaccettabile qualsiasi modifica delle loro direttive. Da questa difficoltà si può uscire solo se si considera che il concetto dell'attualità esprime un requisito logico e non meramente cronologico-temporale. Si deve aggiungere che, nel caso delle dichiarazioni anticipate, come in quello di qualsiasi altra forma di espressione previa della volontà e più in generale di personali orientamenti, vale il principio secondo il quale la persona conserva il diritto di revocare o modificare la propria volontà fino all'ultimo momento precedente la perdita della consapevolezza.
      Il citato articolo 9 della Convenzione adotta le espressioni souhaits e wishes, che corrispondono al concetto di cosa desiderata, non di cosa imposta a terzi. La persona chiede che i suoi desideri siano rispettati, ma chiede che lo siano a condizione

che mantengano la loro attualità e cioè solo nel caso che ricorrano le condizioni da lei stessa indicate: si può, infatti, ragionevolmente presumere che nessun paziente intenda incoraggiare attitudini di abbandono terapeutico, privandosi così della possibilità di godere dei benefìci dei trattamenti che eventualmente si rendessero disponibili quando egli non fosse più in grado di manifestare la propria volontà. Questo carattere non (assolutamente) vincolante, ma nello stesso tempo non (meramente) orientativo, dei desideri del paziente non costituisce una violazione della sua autonomia, che anzi vi si esprime in tutta la sua pregnanza, e non costituisce neppure (come alcuni temono) una violazione dell'autonomia del medico e del personale sanitario. Si apre qui, infatti, lo spazio per l'esercizio dell'autonoma valutazione del medico, che non deve eseguire meccanicamente i desideri del paziente ma, anzi, ha l'obbligo di valutarne l'attualità in relazione alla situazione clinica di questo e agli eventuali sviluppi della tecnologia medica o della ricerca farmacologica che possano essere avvenuti dopo la redazione delle dichiarazioni anticipate o che possa sembrare palese che fossero ignorati dal paziente. Questo è, del resto, il modo più corretto per interpretare il dettato dell'articolo 9 della Convenzione, come risulta chiaro dal punto 62 del rapporto esplicativo: «questo articolo afferma che quando le persone hanno previamente espresso i loro desideri, tali desideri dovranno essere tenuti in considerazione, Tuttavia, tenere in considerazione i desideri precedentemente espressi non significa che essi debbano necessariamente essere eseguiti. Per esempio, se i desideri sono stati espressi molto tempo prima dell'intervento e la scienza ha da allora fatto progressi, potrebbero esserci le basi per non tener in conto l'opinione del paziente. Il medico dovrebbe quindi, per quanto possibile, essere soddisfatto che i desideri del paziente si applicano alla situazione presente e sono ancora validi, prendendo in considerazione particolarmente il progresso tecnico in medicina». A tale proposito, conviene ricordare che in una precedente versione della Convenzione i desideri del paziente venivano indicati come «determinanti», un aggettivo che suscitò molte perplessità e riserve (tra le quali quelle del CNB): da un lato, infatti, tale aggettivo sembrava costituire una violazione dell'autonomia professionale del medico e dall'altro, non sembrava neppure corrispondere alle reali esigenze che – come si è osservato – possono indurre un paziente a formulare dichiarazioni anticipate.
      Tuttavia, il passaggio da «determinanti» a «tenuti in considerazione» non dovrebbe essere interpretato come il passaggio da un carattere (assolutamente) vincolante a uno (meramente) orientativo. Se è corretto escludere la prima caratterizzazione, anche la seconda va esclusa quando sia intesa in senso talmente debole da coincidere con la restituzione al medico di una piena libertà decisionale e operativa, che equivarrebbe a conferirgli un indebito potere paternalistico che implicherebbe il completo svuotamento di senso delle dichiarazioni anticipate stesse. Queste osservazioni dovrebbero togliere mordente alla questione del carattere più o meno vincolante delle dichiarazioni anticipate. La valenza etica di queste dichiarazioni dipende esclusivamente dal fatto che esse conservino la loro attualità nel processo di autonoma valutazione operato dal medico. Se il medico, in scienza e coscienza, si formasse il solido convincimento che i desideri del malato fossero non solo legittimi, ma ancora attuali, onorarli da parte sua diventerebbe non solo il compimento dell'alleanza che egli ha stipulato con il suo paziente, ma un suo preciso dovere deontologico: sarebbe infatti un ben strano modo di tenere in considerazione i desideri del paziente quello di fare, non essendo mutate le circostanze, il contrario di ciò che questi ha manifestato di desiderare. È altresì ovvio che se il medico, nella sua autonomia, dovesse diversamente convincersi, avrebbe l'obbligo di motivare e giustificare in modo esauriente tale suo diverso convincimento, anche al fine di consentire l'intervento del fiduciario o curatore degli interessi del paziente.

Raccomandazioni bioetiche conclusive.
      In sintesi, le dichiarazioni anticipate sono legittime, hanno cioè valore bioetico, quando rispettino i seguenti criteri generali:

          a) abbiano carattere pubblico, siano cioè fornite di data, redatte in forma scritta e mai orale, da soggetti maggiorenni, capaci di intendere e di volere, informati, autonomi e non sottoposti ad alcuna pressione familiare, sociale e ambientale;

          b) non contengano disposizioni aventi finalità eutanasiche, che contraddicano il diritto positivo, le regole di pratica medica e la deontologia medica. Comunque il medico non può essere costretto a fare nulla che vada contro la sua scienza e la sua coscienza;

          c) ai fini di una loro adeguata redazione, in conformità a quanto indicato alla lettera b), si auspica che esse siano compilate con l'assistenza di un medico, che può controfirmarle;

          d) siano tali da garantire la massima personalizzazione della volontà del futuro paziente, non consistano nella mera sottoscrizione di moduli o di stampati, siano redatte in maniera non generica, in modo tale da non lasciare equivoci sul loro contenuto e da chiarire quanto più è possibile le situazioni cliniche in relazione alle quali esse debbano poi essere prese in considerazione.

La morte è un fatto e non un diritto.
      A parte i casi drammatici che in Italia tutti ricordiamo come punti di ignizione forte nel dibattito sul consenso informato e sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, quali quelli di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro, per citare solo i più famosi, vale la pena ricordare anche un caso più recente come quello di Brittany Maynard, la ragazza di 29 anni malata di cancro in fase terminale, che aveva deciso e poi rimandato l'eutanasia, ma poco dopo si è suicidata. Brittany, colpita da una forma molto aggressiva di cancro al cervello aveva annunciato il suo progetto in un video postato sul suo sito che ha fatto il giro del web ed è stato visto più di 9,5 milioni di volte su Youtube. Brittany era nata in California nel 1984 e si era laureata a Berkeley come insegnante. Aveva viaggiato in tutto il mondo, lavorando anche in scuole e orfanotrofi in Nepal e Costa Rica. A casa faceva volontariato per un'associazione animalista. Nel 2012, si era sposata con il fidanzato Daniel Diaz, con quale avrebbe voluto fare un figlio. Ma il capodanno del 2014, le era stato diagnosticato un tumore maligno al cervello. Tre mesi dopo era stata operata, ma il cancro era progredito e i medici le avevano dato pochi mesi di vita, da passare fra atroci sofferenze. Da qui la decisione di vivere nel modo migliore il tempo che le restava e di porre fine alla sua vita prima che le sofferenze diventassero troppo forti.
      La donna, nonostante gli effetti collaterali dei farmaci che le gonfiavano corpo e volto, aveva accettato di raccontare la sua storia in televisione, spiegando la sua scelta di morire dignitosamente: «Arrivederci a tutti i miei cari amici e alla mia famiglia che amo. Oggi è il giorno che ho scelto per morire con dignità, tenuto conto della malattia in fase terminale, questo terribile cancro al cervello che mi ha imprigionato (...) ma mi avrebbe imprigionato tanto di più». Aveva scelto la data, il 1 novembre, all'indomani del compleanno del marito Dan. Si era trasferita da qualche settimana in Oregon con i genitori e con il marito, sposato poco prima della diagnosi, proprio perché l'Oregon è uno dei cinque Stati americani dove il suicidio assistito è legalizzato. «Brittany è morta, ma il suo amore per la vita e la natura, la sua passione e il suo spirito continuano a vivere», ha detto Barbara Lee Coombs, presidente dell'associazione «Compassione e scelta», che lotta per il diritto all'eutanasia e che ha sostenuto la donna. «Il Canyon è stato incredibilmente bello, mi sono goduta le due cose che amo di più:

la mia famiglia e la natura». Potrebbe essere il post di un viaggiatore qualsiasi affascinato dalle profonde gole del Colorado, ma sono, invece, le ultime parole pubbliche (almeno per il momento) di una donna di 29 anni. Il 30 ottobre, però, c'era stato un ripensamento: «Mi sento ancora abbastanza bene, provo ancora gioia, scherzo e sorrido con la mia famiglia e i miei amici e non mi sembra il momento giusto adesso», aveva spiegato in un video. Alla fine non ci ha ripensato, Brittany, nonostante un suo video, nei giorni scorsi, lo avesse fatto sperare. La giovane, però, aveva specificato che si trattava solo di un rinvio della propria decisione: quando le sua condizioni fisiche sarebbero peggiorate avrebbe messo fine alla propria sofferenza. Un rinvio che è durato solo due giorni, fino al 1 novembre, quando il comunicato dell'associazione ha diffuso il messaggio di addio di Brittany. Nel suo ultimo messaggio postato sul suo sito ha detto: «Sono le persone che si fermano ad apprezzare la vita e che rendono grazie, quelle più felici. Se noi cambiamo le nostre menti, cambiamo il nostro mondo. Pace e amore a voi tutti». In esso la giovane donna ha espresso «profondo ringraziamento a tutti i suoi belli, intelligenti, meravigliosi, generosi amici, che lei ha ricercato come l'acqua durante la sua vita e la sua malattia per l'intuizione, il sostegno e l'esperienza condivisa di una bella vita». Ma poi ha cambiato idea, a 48 ore dal giorno stabilito si è resa conto di «poter ancora gioire», come ha detto in un messaggio affidato alla Cnn.
      A dare la notizia della morte è stato Sean Crowley, un portavoce dell'associazione che lotta per il diritto all'eutanasia. «Brittany è morta, ma il suo amore per la vita e la natura, la sua passione e il suo spirito continuano a vivere» ha dichiarato Barbara Lee Coombs. Il caso della giovane statunitense ha risollevato il dibattito sull'eutanasia negli USA. Sean Crowley, portavoce dell'associazione ha fatto di Brittany una bandiera, ha dichiarato che la ragazza è morta verosimilmente nella sua casa sabato. Non si conoscono i particolari, ma le medicine per il suicidio le sarebbero state fornite dai medici già da qualche giorno.
      I social network hanno trasformato la vicenda di Brittany in un dibattito planetario: da una parte, il sito dell'associazione ha fatto di Brittany una bandiera per raccogliere firme in favore della «libertà di scelta» e per estendere il più possibile il concetto di «morte con dignità» e, dall'altra, numerose sono le espressioni di vicinanza e di affetto, anche di malati che hanno fatto scelte radicalmente diverse dall'eutanasia. La sua morte è stata un incredibile evento mediatico, sostenuto da un'associazione promotrice del diritto all'eutanasia e trasmesso con una precisa strategia di marketing tesa a provocare nello spettatore compassione e rispetto. La prima cosa da dire su questa storia, quindi, è che Brittany è stata usata, il suo dolore è servito a sfamare un vasto circuito ideologico (e commerciale) che si è nutrito di video costruiti ad arte e di servizi televisivi realizzati con il solo scopo di vendere e di lucrare politicamente ed economicamente sulla vicenda. Questo, comunque la si pensi, lascia chiaramente interdetti e pone una domanda cui nessuno, al momento, può di certo dare risposta.
      Sul sito aholyexperience, ad esempio, Kara Tippets, giovane madre di quattro bambini, malata di cancro al seno e autrice di un libro sul senso della sua sofferenza, vissuta all'insegna dell'amore, parla a cuore aperto a Brittany: «La sofferenza forse può essere il luogo in cui può essere conosciuta la vera bellezza. Scegliendo la tua morte, tu stai privando coloro che ti amano della tenerezza, dell'opportunità di incontrarti nei tuoi ultimi istanti di vita e di estendere il loro amore ai tuoi ultimi respiri (...). L'ultimo bacio, l'ultimo abbraccio, l'ultimo respiro, contano», scrive Kara. La stessa cosa è accaduta sulla pagina facebook aperta dalla diocesi di Boston, «We love Brittany Maynard». Tra gli ultimi interventi si cita quello di Georgina, che racconta aver perso la madre trentenne malata di cancro allo stomaco, quando aveva appena nove mesi di vita e di essere stata poi adottata: «La sua morte non è stata vana e mi ha dato la forza di cui avevo bisogno (...) Mi piace pensare che una donna forte come sei tu combatta la sua battaglia e ci mostri come si fa. Usa ogni minuto affinché esso sia significativo, abbiamo bisogno di te».
      L'Accademia per la vita giudica il suicidio assistito «un'assurdità» perché «la dignità è un'altra cosa che mettere fine alla propria vita». Lo ha affermato all'ANSA il presidente della Pontificia accademia per la vita, monsignor Carrasco de Paula, commentando il caso di Brittany. «Non giudichiamo le persone – ha aggiunto – ma il gesto in sé è da condannare» e continua «assolutamente non è una condanna per questa povera donna che ha già sofferto abbastanza», tanto più che «l'unico che sa come stanno veramente le cose è Dio» (...) Il gesto di Brittany Maynard è in sé da condannare, ma quello che è successo nella coscienza noi non lo sappiamo; la coscienza è come un santuario in cui non si può entrare. Ma riflettiamo sul fatto che se un giorno si portasse a termine il progetto per cui tutti i malati si tolgono la vita, questi sarebbero abbandonati completamente. (..) Ma non credo che questa ragazza lo abbia fatto per codardia, per una riflessione intellettuale o per un sillogismo. La gente che ha avuto intorno non l'ha aiutata, è stata gestita da un gruppo pro eutanasia».
      Non si può giudicare il dolore altrui, ma riflettere si può e si deve. Brittany ha detto di voler «morire con dignità», come se la sofferenza le rubasse dignità. Ma non è vero: dirlo è una trappola. Anche se una risposta al senso del dolore nessuno la possiede, occorre prepararsi per misurarsi con esso quando arriva. La vita è preziosa in ogni sua stagione. Troppo bella per essere sciupata o vissuta solo quando il cielo è terso. È un dono che occorre respirare a bocca spalancata. Anche quando arranca, quando si fa severa e dura. Nell'amore, dunque, si nasconde il segreto del vivere e del morire.

Due culture a confronto.
      Nella presente proposta di legge si confrontano due culture, che stentano a trovare un punto di convergenza, nonostante le numerose occasioni di incontro e di confronto che si sono presentate nel lavoro delle Commissioni parlamentari, in occasione di convegni e seminari o più semplicemente nei tanti incontri, formali e informali, che ci sono stati in questi anni:

          1) nella posizione laica di ispirazione cristiana, il valore della vita si affianca al valore della libertà, considerata come una delle qualità principali dell'uomo, strettamente collegata al senso della responsabilità, dal momento che non c’è vera libertà senza responsabilità. È una posizione che riconosce alla vita umana valore in sé stessa, la considera degna di essere vissuta proprio in quanto vita umana, non per le sue capacità e le sue competenze e chiede a tutti gli uomini di riconoscere questo valore e di sentirsi coinvolti nel tutelarla e nel proteggerla. In questa impostazione, l'etica della responsabilità e l'etica della cura si intrecciano profondamente, come due facce di un'unica medaglia che nella sua unità esprime il senso della nostra umanità. In questa concezione il valore della persona implica nello stesso tempo autonomia e relazionalità, interdipendenza e capacità di comunicazione, solidarietà e spirito di servizio;

          2) nella posizione laico-laicista, al centro c’è quel principio di autodeterminazione, che fa della libertà un valore assoluto, subordinando il valore della vita a una serie di condizioni quali la percezione del benessere e la possibilità di agire in piena autonomia, definendo soggettivamente i parametri che rendono una vita più o meno degna di essere vissuta. È un approccio culturale in cui il bene viene filtrato attraverso un'ottica di tipo relativista, dal momento che ognuno deve poter dire cosa è buono e cosa non lo è, cosa reputa vero e cosa no. Al soggetto tutto deve essere consentito, anche il negare il valore della vita, se e quando questa perde qualcuna delle prerogative che lui reputa essenziali. Una posizione che si spinge fino al punto di considerare un diritto la possibilità di fissare i termini per la propria morte e quindi pretende dalle istituzioni

l'aiuto necessario a tradurre in pratica questa volontà di morire, sia depenalizzando l'eutanasia, che arrivando addirittura a proporla come un bene, con dignità di cura.

      Nelle due concezioni il valore della libertà e dell'autonomia, binomio essenziale nel processo di maturazione del soggetto, giocano un ruolo diverso. Nel primo caso l'uomo esercita la sua libertà all'interno di una progettualità che può svilupparsi proprio in quanto è vivo, nel secondo caso è come se la libertà fosse un valore che sussiste in se stesso. Nel primo caso si può accettare di vivere anche per lunghi periodi in una condizione di apparente non libertà, nel secondo caso la perdita della libertà legittima una intenzionale perdita della vita.
      Nel dibattito sulle dichiarazioni anticipate il costante riferimento alla libertà del paziente serve quasi esclusivamente per affermare il diritto a non vivere, per negare ogni tipo di cura e di sostegno, incluse la nutrizione e l'idratazione. D'altra parte anche la libertà del medico non è un valore assoluto, è vincolata dalla necessità di agire in scienza e coscienza, per esprimere il suo giudizio clinico con l'oggettività che gli conferisce la sua competenza, in coerenza con i princìpi etici e deontologici. Sostenere che l'agire del medico possa essere strutturalmente ispirato da una sorta di accanimento terapeutico è falso e non dà ragione della libertà con cui il medico cerca di volta in volta di declinare nell'esclusivo interesse del paziente le sue conoscenze e le sue competenze.
      Un'altra differenza sostanziale tra i due approcci è che il primo ha un carattere fortemente relazionale, mentre il secondo ha carattere prevalentemente individualistico. Al centro del primo approccio c’è la relazione, un incontro interpersonale tra medico e paziente, mentre al centro del secondo c’è la pura e semplice volontà del paziente. Nel primo caso sono almeno in due i protagonisti di una situazione evidentemente asimmetrica, ma non per questo meno fortemente coinvolgente, mentre nel secondo caso prevale una visione fortemente egocentrica. La presente proposta di legge ricava il suo titolo «Disposizioni relative all'alleanza terapeutica, in materia di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento» proprio dal fatto che si è voluto mettere in primo piano il tema della relazione tra medico e paziente. L'urgente bisogno di riumanizzare la medicina di cui oggi tanto si parla significa proprio questo: restituire alla relazione tra medico e paziente il suo valore centrale, di fiducia reciproca e di affidamento consapevole.
      Il malato non deve sentirsi solo davanti a decisioni importanti come sono quelle che coinvolgono la sua esistenza in modo irrevocabile e definitivo. La proposta di legge insiste ripetutamente sulla necessità che tra medico e paziente si crei una relazione di alleanza, ben sapendo che l'informazione che il medico fornisce al paziente ha un alto valore per-formativo, che contribuisce a modulare i processi decisionali che ne conseguono. Il riferimento al consenso informato e all'alleanza terapeutica costituiscono una premessa indispensabile e sollecitano un approccio interpersonale, in cui libertà e dignità del paziente si confrontano e si rispecchiano costantemente nella libertà e nella dignità del medico.
      Paradossalmente, quanti sostengono l'assoluta libertà del paziente pretendono la stretta vincolatività delle dichiarazioni anticipate, senza cogliere la contraddizione con il fatto che in questo modo negano o per lo meno coartano pesantemente la libertà del medico. In realtà la proposta di legge prova a valorizzarle contestualmente. Si è detto che il carattere orientativo delle dichiarazioni anticipate toglierebbe alla legge la sua ragione d'essere, come se la dignità umana in questa circostanza si potesse esprimere solo all'interno di una logica coercitiva, che obbliga il medico a una posizione di sudditanza. Il carattere orientativo delle dichiarazioni anticipate chiede al medico quel fare di tutto nell'esclusivo interesse del paziente, in una relazione di cura che sia autenticamente curante, anche quando non può guarire completamente.


      L'aspetto più insidioso nella posizione dei fautori del principio di autodeterminazione nella sua formulazione assoluta è quello di ribadire, come già rilevato, il diritto alla non attivazione o all'interruzione di ogni tipo di cura, anche quelle salva-vita. La somministrazione di cibo e di acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. È quindi obbligatorio, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la finalità che gli sono proprie: assicurare idratazione e nutrizione al paziente, evitandogli le sofferenze e la morte dovute a inanizione e disidratazione. Non si può prescindere dal criterio etico generale, secondo il quale la somministrazione di acqua e di cibo, anche quando avviene per vie artificiali, rappresenta sempre un mezzo naturale di conservazione della vita e non un trattamento terapeutico. Il suo uso va quindi considerato come ordinario e proporzionato, anche quando lo stato vegetativo si prolunga.
      Il dibattito sulla nutrizione e sull'idratazione medicalmente assistita, se sia un trattamento di tipo medico (e come tale possa rientrare tra i desiderata del paziente) o se sia invece un sostegno vitale (e come tale vada sempre assicurato al paziente), può diventare un distrattore rispetto a un nuovo punto critico, che riguarda il diritto del paziente al rifiuto o alla rinuncia delle cure: di tutte le cure. Il diritto alla non attivazione o all'interruzione delle cure, quando si tratta di cure salva-vita, la cui omissione non può che essere la morte, richiede necessariamente una volontà attuale, libera e consapevole e non può rientrare nella logica dell'ora per allora, tipica delle dichiarazioni anticipate di trattamento. D'altra parte il rifiuto della nutrizione-idratazione è perseguito con tanta ostinazione solo perché è un fattore sicuro di morte in un tempo che si presuppone ragionevolmente breve.
      Non c’è dubbio che la polarizzazione del dibattito sulla possibilità o no di interrompere la nutrizione e l'idratazione assistite acquista il suo vero significato solo se non lo si osserva esclusivamente dalla prospettiva della libertà. Come invece fanno alcuni, quando si chiedono perché si debba sottrarre a una persona il diritto a decidere, sia pure ora per allora, cosa intenderebbero fare in quelle determinate circostanze. Il dibattito acquista tutto il suo senso drammatico solo quando si ammette con la giusta onestà intellettuale che la conseguenza immediata e diretta della sospensione della nutrizione e dell'idratazione è la morte del paziente. E in fondo è questa la lezione magistrale che Eluana ci ha lasciato, morendo dopo solo tre giorni dalla sospensione della nutrizione e dell'idratazione, dopo, essere vissuta almeno diciassette anni con il semplice sussidio di un sondino naso-gastrico.
      Senza nulla togliere al valore della libertà, che ognuno di noi ama appassionatamente, anche coloro che vogliono una legge sull'eutanasia, la questione in gioco è un'altra. Questa libertà pretesa conduce solo ed esclusivamente alla morte. Eluana docet e molti stanno infatti chiedendo con insistenza solo una cosa: depenalizzare l'eutanasia, rendere possibile che la libertà umana si spinga fino a procurare la morte, grazie all'intervento di alcuni medici compiacenti. Per loro si chiede che non possano essere perseguiti dalla legge, come accadrebbe se non si formulasse con chiarezza assoluta questo principio: il malato può chiedere molte cose, certamente che i suoi desideri e le sue richieste saranno presi seriamente in considerazione, ma non la morte. È vero che la vita di un medico è una partita sempre persa con la morte, che prima o poi arriverà inevitabilmente, ma tocca al medico perderla il più tardi e il più onorevolmente possibile.
      Giovanni Paolo II, testimone del coraggio con cui si può affrontare una malattia cronica grave e progressiva, è stato citato molte volte a proposito del fine vita, spesso a sproposito, stravolgendo il suo pensiero e la sua stessa storia personale. Nel 1995 nell'enciclica Evangelium vitae, al paragrafo 64 affermava: «Oggi, in seguito ai progressi della medicina e in un contesto culturale spesso chiuso alla trascendenza, l'esperienza del morire si presenta con alcune caratteristiche nuove (...) la sofferenza appare come uno scacco insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo. La morte (...) diventa una “liberazione rivendicata” quando l'esistenza è ritenuta ormai priva di senso, perché immersa nel dolore e inesorabilmente votata ad un'ulteriore più acuta sofferenza (...). In un tale contesto si fa sempre più forte la tentazione dell'eutanasia, cioè di impadronirsi della morte, procurandola in anticipo e ponendo così fine “dolcemente” alla vita propria o altrui. In realtà, ciò che potrebbe sembrare logico e umano, visto in profondità si presenta assurdo e disumano (...)».
      Mentre condannava l'eutanasia Giovanni Paolo II ne dava anche una corretta definizione, proprio come chiedeva la Commissione giustizia della Camera dei deputati nella XVI legislatura: «Per un corretto giudizio morale sull'eutanasia, occorre innanzitutto chiaramente definirla. Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un'azione o un'omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L'eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati». È la volontà di procurare la morte che connota esattamente cosa sia l'eutanasia e per questo Giovanni Paolo II definiva con chiarezza anche cosa dovesse intendersi per accanimento terapeutico: «Da essa va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto “accanimento terapeutico”, ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia (...)».
      È l'intenzione con cui si persegue un determinato fine che prima di tutto lo connota sotto il profilo morale e per questo Giovanni Paolo II continuava dicendo: «Fatte queste distinzioni, in conformità con il Magistero dei miei Predecessori e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l'eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale». La condanna dell'eutanasia si estendeva ovviamente a quanti la rendono possibile con la loro collaborazione: «L'intenzione suicida di un altro e aiutarlo a realizzarla mediante il cosiddetto “suicidio assistito” significa farsi collaboratori, e qualche volta attori in prima persona, di un'ingiustizia, che non può mai essere giustificata, neppure quando fosse richiesta (...) l'eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante “perversione” di essa: la vera “compassione” infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza» (Evangelium vitae).
      In questi ultimi mesi tra il fronte di quanti sostengono che occorre una legge per dire un no chiaro e fermo all'eutanasia e quanti invece sostengono che una legge che non depenalizzi l'eutanasia è una legge inutile, sta nascendo un altro gruppo numeroso di soggetti la cui posizione è sintetizzabile in due semplici proposizioni: no all'eutanasia, ma no anche a una legge che inevitabilmente pone dei limiti che sembrano irrigidire il rapporto tra medico e paziente o il rapporto tra malato e familiari. Su questo fronte si stanno collocando autorevoli personaggi del mondo politico, in particolare nel Partito democratico, dove appare evidente la volontà di non rimanere schiacciati sulle posizioni radicali che chiedono la depenalizzazione dell'eutanasia. Non vogliono la legge e invocano uno stop all'attuale dibattito politico-parlamentare. Nessun passaporto per l'eutanasia, nessuna giustificazione per l'accanimento terapeutico; profonda la convinzione che la relazione del malato con il medico possa e debba costituire l'alveo naturale in cui si prendono insieme decisioni serene ed equilibrate.
      La loro posizione, dopo l'intervento della magistratura nel caso Englaro e il pressing dei radicali, che si sono spinti a considerare incostituzionale una legge che dice un no chiaro all'eutanasia, corre il rischio però di rimanere un semplice auspicio, già scavalcato dalla volontà aggressiva di chi ha già spinto il Paese verso una china rischiosa. Una china che inizia in modo accattivante con un inno a una libertà senza confini e che prosegue con la richiesta di depenalizzazione dell'eutanasia, per formulare la teoria che l'eutanasia possa essere considerata al pari di una terapia. A questo punto si può diffondere la convinzione che se la legge lo consente, allora è cosa buona e giusta, fino a condizionare in modo strisciante e pervasivo i malati spingendoli a chiedere la morte anticipata, per non essere e per non sentirsi di peso alla famiglia e alla società.
      Il no alla legge che molti di loro chiedono era lo stesso no alla legge che qualche anno fa caratterizzava il dibattito tra la gente comune, in particolare tra i cattolici, dove non sembrava che ci fosse bisogno di una legge. Da sempre le decisioni quando il malato non era più in grado di intendere le avevano prese insieme i familiari e il medico di famiglia, tenendo conto dei desideri del malato e di quanto lo sviluppo della medicina consentiva in quel momento, in linea con quanto chiedono oggi i fautori della non legge. Ma tra ora e allora si è posta con una virulenza straordinaria non solo la vicenda di Eluana Englaro, ma la campagna sollevata da Piergiorgio Welby, da Luca Coscioni e da altri pazienti che premevano per ottenere subito la legge e poter staccare il famoso e spesso surreale sondino. Tutte persone che hanno chiesto e preteso una legge fosse capace di affermare il diritto all'eutanasia. È a questa pretesa che la proposta di legge dice un no chiaro e deciso.
      In definitiva, la presente proposta di legge per quanto riguarda la tutela della vita ribadisce un no chiaro e fermo all'eutanasia; il sì alle cure palliative e il no all'accanimento terapeutico; la necessità di acquisire il consenso informato prima di qualsiasi intervento e il no all'abbandono del malato. Vogliamo arrivare a una legge in cui il valore della vita si integri con quello della libertà del paziente e del medico; non vogliamo che l'autonomia del paziente si risolva nell'indifferenza del medico; non vogliamo che il valore della cura si confonda con un inutile accanimento, né tanto meno che l'alleanza tra medico e paziente degeneri in una forma di contrattualismo. Vogliamo ricondurre le dichiarazioni anticipate nell'ambito delle scelte di cura, senza tentare scorciatoie che abbrevino la vita, alterandone i tempi naturali. È lo spirito della Costituzione, se si considera in toto l'articolo 32, commi primo e secondo, e se si tiene conto dei codici e di tutta la giurisprudenza.
      Ma non basta che il no all'eutanasia sia affermato e riaffermato più volte in via di principio, esso deve essere concretamente ricavabile da tutto l'articolato della proposta di legge, che non deve lasciare spazio a interpretazioni che potrebbero giustificare interventi diretti a legittimare la morte del paziente, come accadrebbe se fosse possibile anticipare il rifiuto totale delle cure. La libertà del paziente e la libertà del medico devono mantenere come orizzonte di riferimento il valore etico e deontologico dell'alleanza che li lega evitando sia possibili forme di accanimento terapeutico, sia forme surrettizie di abbandono e di indifferenza nei confronti del paziente. Il medico, infine, non può essere ridotto a mero esecutore delle volontà di altri e la visione della medicina espressa dalla proposta di legge non può prescindere dall'antica tradizione che vede l'agire medico sempre orientato all'etica della cura e mai complice di una volontà di morte.
      La presente proposta di legge non obbliga il paziente a vivere, ma proibisce di accelerare la morte del paziente, sia provocandola in modo attivo, sia omettendo le cure indispensabili. Essa restituisce al valore della solidarietà il senso proprio della relazione di aiuto e non quello della complicità in un gesto di irrevocabile soppressione della vita.
      È una proposta di legge realista, a cui non sfugge neppure la fragilità del malato virtuale quando scrive le sue dichiarazioni anticipate immaginando uno scenario povero di speranza umana e scientifica e temendo di essere di peso per la sua famiglia, al punto da rischiare lo stato di abbandono. È una proposta di legge che tiene conto del fatto che in un contesto clinicamente ben attrezzato è possibile assistere, anche grazie alla nutrizione e alla idratazione medicalmente assistite, pazienti che per il 90 per cento possono recuperare condizioni buone e perfino eccellenti di salute, come rilevano le statistiche mediche attuali. È una proposta di legge a cui non sfuggono, nelle affermazioni più recenti di molti cosiddetti esperti o saggi, i rigurgiti di una volontà eutanasica che si ammanta di parole come libertà e autodeterminazione, mentre in realtà riafferma la negazione stessa della libertà, che non può che scomparire ipso facto con la morte del paziente.
      A tutti costoro, con la presente proposta di legge, vogliamo semplicemente offrire un motivo di speranza in più, nella relazione umana con i familiari e con i medici, con la scienza e con le istituzioni. Lo Stato non li obbliga a vivere loro malgrado, ma si preoccupa semplicemente che nessuno impedisca loro continuare a vivere.
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PROPOSTA DI LEGGE
Art. 1.
(Oggetto).

      1. La presente legge, tenendo conto dei principi di cui agli articoli 2, 3, 13 e 32 della Costituzione:

          a) riconosce e tutela la vita umana fino alla morte accertata nei modi di legge, compresi la fase terminale dell'esistenza e il caso in cui la persona non sia più in grado di intendere e di volere;

          b) garantisce la vita umana, quale diritto inviolabile e indisponibile di ogni persona, in via prioritaria rispetto all'interesse della società e alle applicazioni della tecnologia e della scienza;

          c) vieta, ai sensi degli articoli 575, 579 e 580 del codice penale, ogni forma di eutanasia e ogni forma di assistenza o di aiuto al suicidio;

          d) considera l'attività medica e quella di assistenza alle persone esclusivamente finalizzate alla tutela della vita e della salute nonché all'alleviamento della sofferenza e riconosce come prioritaria l'alleanza terapeutica tra il medico e il paziente soprattutto nella fase di fine vita;

          e) impone al medico l'obbligo di informare il paziente sui trattamenti sanitari più appropriati, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 2, comma 4, e sul divieto di qualunque forma di eutanasia;

          f) riconosce che nessun trattamento sanitario può essere attivato senza il consenso informato del paziente e nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge e con i limiti imposti dal rispetto della persona umana;

          g) garantisce che il medico si astenga sempre da trattamenti straordinari non

proporzionati rispetto alle condizioni cliniche del paziente o agli obiettivi di cura.

      2. La presente legge garantisce, nell'ambito degli interventi previsti a legislazione vigente, politiche sociali ed economiche volte alla presa in carico del paziente, in particolare dei soggetti incapaci di intendere e di volere e della loro famiglia.
      3. I pazienti di cui alla lettera g) del comma 1 hanno diritto a essere sempre assistiti con un'adeguata terapia contro il dolore secondo quanto previsto dai protocolli delle cure palliative, ai sensi della normativa vigente in materia.

Art. 2.
(Consenso informato).

      1. Fatti salvi i casi previsti dalla legge, ogni trattamento sanitario è attivato previo consenso informato esplicito e attuale del paziente prestato in modo libero e consapevole.
      2. L'espressione del consenso informato è preceduta da corrette informazioni rese dal medico curante al paziente in maniera per lui comprensibile circa la diagnosi, la prognosi e le terapie proposte, nonché i benefìci e i rischi che ne possono conseguire, compresi gli eventuali effetti collaterali e le conseguenze del rifiuto del trattamento.
      3. Il consenso informato, su richiesta del medico o del paziente, è espresso in un documento scritto, firmato dal paziente e inserito nella cartella clinica. Può essere sempre revocato, anche parzialmente, e la revoca deve essere annotata nella cartella clinica.
      4. È fatto salvo il diritto del paziente di rifiutare in tutto o in parte le informazioni che gli competono. Il rifiuto può intervenire in qualunque momento e deve essere esplicitato in un documento sottoscritto dal soggetto interessato e inserito nella cartella clinica.
      5. In caso di soggetto interdetto, il tutore sottoscrive il documento con il consenso informato. Qualora sia stato nominato

un amministratore di sostegno, il consenso informato è prestato anche dall'amministratore di sostegno ovvero solo dall'amministratore. La decisione di tali soggetti ha come scopo esclusivo la salvaguardia della salute e della vita del soggetto incapace.
      6. Il consenso informato al trattamento sanitario del minore è espresso o rifiutato dagli esercenti la potestà parentale dopo aver ascoltato i desideri e le richieste del minore, avendo sempre come scopo esclusivo la salvaguardia della vita e della salute psico-fisica del minore stesso.
      7. Il consenso informato al trattamento sanitario non è richiesto quando ci si trovi in una situazione di emergenza, nella quale si configuri una situazione di rischio attuale e immediato per la vita del paziente.
Art. 3.
(Contenuti e limiti della dichiarazione anticipata di trattamento).

      1. Nella dichiarazione anticipata di trattamento il dichiarante, in stato di piena capacità di intendere e di volere e di adeguata informazione medica, con riguardo a un'eventuale perdita permanente della propria capacità di intendere e di volere, esprime orientamenti e informazioni utili per l'attivazione di trattamenti terapeutici, in conformità a quanto stabilito dalla presente legge.
      2. Nella dichiarazione anticipata di trattamento il soggetto esplicita la sua rinuncia ad alcuni trattamenti terapeutici ritenuti sproporzionati o ancora in fase sperimentale.
      3. Nella dichiarazione anticipata di trattamento il soggetto non può inserire indicazioni che integrino le fattispecie di cui agli articoli 575, 579 e 580 del codice penale.
      4. Nel rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, resa esecutiva dalla legge 3 marzo 2009, n. 18, l'alimentazione e l'idratazione,

nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, devono essere mantenute fino al termine della vita, ad eccezione del caso in cui esse non siano grado di fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari per garantire le sue funzioni fisiologiche essenziali. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento.
      5. La dichiarazione anticipata di trattamento assume rilievo nel momento in cui è accertato che il soggetto non è in grado di comprendere le informazioni sul trattamento che gli viene proposto, comprese le sue conseguenze, e non può assumere decisioni che lo riguardano. La condizione del paziente è certificata da un collegio medico formato, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, da un anestesista-rianimatore, da un neurologo, dal medico curante e dal medico specialista nella patologia da cui è affetto il paziente. Tali medici, ad eccezione del medico curante, sono designati dalla direzione sanitaria della struttura di ricovero o, ove necessario, dall'azienda sanitaria locale di competenza.
Art. 4.
(Forma e durata della dichiarazione anticipata di trattamento).

      1. Le dichiarazioni anticipate di trattamento non sono obbligatorie, sono redatte in forma scritta, sono firmate dal soggetto, maggiorenne e in piena capacità di intendere e di volere, dopo un'adeguata informazione medica, e sono raccolte da un medico scelto dal soggetto, che le sottoscrive.
      2. Salvo che il soggetto diventi incapace, la dichiarazione anticipata di trattamento ha validità per cinque anni, che decorrono dalla redazione dell'atto ai sensi del comma 1, termine oltre il quale essa perde di efficacia. La dichiarazione anticipata di trattamento può essere revocata e rinnovata più volte, con la forma e con le modalità prescritte dai commi 1 e 2.


      3. La dichiarazione anticipata di trattamento deve essere inserita nella cartella clinica dal momento in cui assume rilievo dal punto di vista clinico. Se il soggetto versa in pericolo di vita immediato, la dichiarazione anticipata di trattamento non si applica.
Art. 5.
(Assistenza ai soggetti in stato vegetativo).

      1. L'assistenza sanitaria alle persone in stato vegetativo o aventi altre forme neurologiche correlate è assicurata attraverso prestazioni ospedaliere, residenziali e domiciliari secondo le modalità previste dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 29 novembre 2011, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 33 dell'8 febbraio 2002, dalle Linee di indirizzo per l'assistenza alle persone in stato vegetativo e stato di minima coscienza, di cui all'accordo n. 44/CU del 5 maggio 2011 tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 126 del 1 giugno 2011. L'assistenza domiciliare, di norma, è garantita dall'azienda sanitaria locale competente della regione nel cui territorio si trova il soggetto in stato vegetativo.

Art. 6.
(Fiduciario).

      1. Nella dichiarazione anticipata di trattamento il dichiarante può nominare un fiduciario maggiorenne, capace di intendere e di volere, il quale accetta la nomina sottoscrivendo la dichiarazione. Il dichiarante che ha nominato un fiduciario può sostituirlo, con le stesse modalità previste per la nomina, in qualsiasi momento senza alcun obbligo di motivare la decisione.
      2. Il fiduciario, se nominato, è l'unico soggetto legalmente autorizzato a interagire con il medico ed è legittimato a richiedere al medico e a ricevere dal

medesimo ogni informazione sullo stato di salute del paziente.
      3. Il fiduciario si impegna ad agire nell'esclusivo e migliore interesse del paziente, operando sempre e solo secondo le sue intenzioni legittimamente esplicitate nella dichiarazione anticipata di trattamento. Vigila affinché al paziente vengano somministrate le migliori terapie palliative disponibili, evitando che si creino situazioni di accanimento terapeutico o di abbandono terapeutico, comprese le situazioni che integrino le fattispecie di cui agli articoli 575, 579 e 580 del codice penale.
      4. Il fiduciario può rinunciare per scritto all'incarico, comunicandolo al dichiarante o, ove quest'ultimo sia incapace di intendere e di volere, al medico responsabile del trattamento terapeutico.
      5. In assenza di nomina del fiduciario, i compiti previsti dai commi 3, 4, 5 e 6 sono adempiuti dai familiari indicati dal libro secondo, titolo II, capi I e II, del codice civile.
Art. 7.
(Ruolo del medico).

      1. Gli orientamenti espressi dal soggetto nella sua dichiarazione anticipata di trattamento sono presi in considerazione dal medico curante ai sensi di quanto disposto dalla Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina, fatta a Oviedo il 4 aprile 1997, resa esecutiva dalla legge 28 marzo 2001, n. 145.
      2. Il medico curante, qualora non intenda seguire gli orientamenti espressi dal paziente nelle dichiarazioni anticipate di trattamento, deve rivolgersi al fiduciario o ai familiari indicati dal libro secondo, titolo II, capi I e II, del codice civile, e a comunicare loro la sua decisione, motivandola in modo approfondito e sottoscrivendola sulla cartella clinica alla quale è allegata la dichiarazione anticipata di trattamento.
      3. Gli orientamenti espressi dal paziente sono valutati dal medico, dopo aver sentito il fiduciario, in scienza e in coscienza,

nonché in applicazione dei princìpi di inviolabilità della vita umana, precauzione, proporzionalità e prudenza. Il medico non può prendere in considerazione orientamenti volti a cagionare la morte del paziente o comunque in contrasto con le norme giuridiche e con la deontologia medica.
Art. 8.
(Disposizioni finali).

      1. È istituito il registro delle dichiarazioni anticipate di trattamento nell'ambito di un archivio unico nazionale informatico. Il titolare del trattamento dei dati contenuti nell'archivio è il Ministero della salute.
      2. Con regolamento da adottare entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro della salute, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, stabilisce le regole tecniche e le modalità di accesso, di tenuta e di consultazione del registro di cui al comma 1. Tutte le informazioni sulla possibilità di rendere la dichiarazione anticipata di trattamento sono disponibili nel sito internet istituzionale del Ministero della salute.
      3. Dall'attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. All'attuazione del medesimo articolo si provvede nell'ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie previste a legislazione vigente.

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