Sulla pubblicità dei lavori:
Quartapelle Procopio Lia , Presidente ... 3
INDAGINE CONOSCITIVA SULL'AZIONE INTERNAZIONALE DELL'ITALIA PER L'ATTUAZIONE DELL'AGENDA 2030 PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE
Quartapelle Procopio Lia , Presidente ... 3
Manservisi Stefano , Direttore Generale della Commissione europea per la cooperazione allo sviluppo ... 3
Quartapelle Procopio Lia , Presidente ... 10
Suriano Simona (M5S) ... 10
Quartapelle Procopio Lia , Presidente ... 10
Romaniello Cristian (M5S) ... 11
Quartapelle Procopio Lia , Presidente ... 12
Manservisi Stefano , Direttore Generale della Commissione europea per la cooperazione allo sviluppo ... 12
Quartapelle Procopio Lia , Presidente ... 15
Sigle dei gruppi parlamentari:
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Lega - Salvini Premier: Lega;
Partito Democratico: PD;
Forza Italia - Berlusconi Presidente: FI;
Fratelli d'Italia: FdI;
Liberi e Uguali: LeU;
Misto: Misto;
Misto-Civica Popolare-AP-PSI-Area Civica: Misto-CP-A-PS-A;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Noi con l'Italia-USEI: Misto-NcI-USEI;
Misto-+Europa-Centro Democratico: Misto-+E-CD;
Misto-MAIE - Movimento Associativo Italiani all'Estero: Misto-MAIE.
PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE
LIA QUARTAPELLE PROCOPIO
La seduta comincia alle 14.10.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, nonché attraverso la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.
Audizione del Direttore Generale della Commissione europea per la cooperazione allo sviluppo, Stefano Manservisi.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'azione internazionale dell'Italia per l'attuazione dell'Agenda 2030, l'audizione del Direttore Generale della Commissione europea per la cooperazione internazionale e lo sviluppo, il dottor Stefano Manservisi.
Lo saluto e lo ringrazio per la sua disponibilità. Saluto e ringrazio anche il dottor Emilio Dalmonte, Vicecapo unità della Direzione generale DEVCO (Directorate-General for International Cooperation and Development).
Con circa 3.400 unità di personale a Bruxelles e nelle delegazioni dell'Unione europea nel mondo, DEVCO è responsabile della lavorazione e dell'attuazione della politica di sviluppo dell'Unione europea. La DG, quindi, elabora politiche volte a ridurre la povertà nel mondo, assicurando uno sviluppo economico, sociale e ambientale sostenibile, e promuove la democrazia, lo stato di diritto, il buongoverno e il rispetto dei diritti umani.
DEVCO, inoltre, promuove il coordinamento dell'Unione europea e dei suoi Stati membri nel settore della cooperazione allo sviluppo e assicura la rappresentanza esterna dell'Unione europea in questo campo. A tal fine, la DG collabora strettamente con il Servizio europeo per l'azione esterna-SEAE, in modo da facilitare e contribuire a garantire un approccio coerente. Complessivamente, le istituzioni e i Paesi membri dell'Unione europea sono il maggior donatore mondiale di assistenza e cooperazione allo sviluppo.
Per quanto riguarda specificatamente gli Obiettivi di sviluppo sostenibile, segnalo che nel quadro del dibattito sul futuro dell'Unione europea la Commissione ha presentato il 30 gennaio scorso un documento di riflessione intitolato «Verso un'Europa sostenibile entro il 2030», nel quale si prevedono tre possibili scenari di governance, su cui il direttore Manservisi potrà addentrarsi e che serviranno sicuramente anche a noi per capire quale tipo di interazione avere tra Italia e Commissione sul tema dell'attuazione dell'Agenda 2030 nei Paesi terzi e nei Paesi membri dell'Unione.
Do ora la parola al dottor Manservisi perché svolga il suo intervento.
STEFANO MANSERVISI, Direttore Generale della Commissione europea per la cooperazione allo sviluppo. Grazie molte, presidente, per l'opportunità di condividere in questo momento importante le linee guida di policy, ma anche di attuazione, della politica di cooperazione allo sviluppo dell'Unione europea.
Nel mio intervento darò alcuni elementi di riferimento e di quadro, incluse informazioni di carattere statistico. Naturalmente, nel corso del dibattito sarò disponibile a dare tutti i chiarimenti necessari. Pag. 4
In primo luogo, il quadro generale: è importante situarsi nell'Agenda 2030 e nel paradigma dei Sustainable development goals, Obiettivi di sviluppo sostenibile. Lo dico perché è un cambio di paradigma fondamentale rispetto al vecchio quadro dei Millennium development goals, in cui sostanzialmente la cooperazione allo sviluppo era nella sua ultima fase di distribuzione di risorse dai Paesi ricchi verso i Paesi poveri, in modo da raggiungere obiettivi ben precisi in termini di lotta alla povertà, di accesso all'educazione, accesso alla salute e altro.
Nel 2015, la riflessione fu che una serie di questi obiettivi erano stati raggiunti, però le condizioni strutturanti di globalizzazione in cui la lotta alla povertà e le dinamiche dello sviluppo si situano chiedevano un cambio di approccio. Da qui è nata l'Agenda 2030, agenda su quelle che io chiamerei «insostenibilità della globalizzazione», situando la povertà, le disuguaglianze e le discriminazioni in un contesto strutturale la cui risposta richiede un'azione piuttosto diversa e integrata.
Va detto che l'Agenda 2030 e gli Obiettivi di sviluppo sostenibile sono un prodotto dell'azione europea. In fondo, si tratta di concetti molto europei di solidarietà, di responsabilità condivisa, di sostenibilità e di una governance multilaterale, che è quella che garantisce una possibilità di dialogo, di formulazione di politiche e di sostenibilità di qualsiasi azione si faccia. È, quindi, una differenza importante, perché accomuna i cosiddetti donatori di una volta e i cosiddetti beneficiari attorno a delle insostenibilità strutturali, che sono quelle portate da un'organizzazione o una non organizzazione del sistema economico e politico mondiale. Questo è il quadro di riferimento, naturalmente in due parole.
In questo quadro, l'Unione europea attraverso la Commissione ha definito gli strumenti per situare, appunto, l'azione dell'UE: in primo luogo, la strategia globale dell'Unione nella politica estera e di sicurezza, il documento elaborato su iniziativa di Federica Mogherini, che sostituisce il vecchio documento di politica estera di Solana per dare una definizione della presenza, del profilo e delle priorità dell'Unione europea nel mondo basandosi su tutti gli strumenti, a partire da quelli più tipici di politica estera, ma situando tutte le altre politiche, a cominciare da quella di cooperazione allo sviluppo, come un pilastro centrale di quest'azione esterna. Questa è la prima traduzione di questa complessità, in un quadro in cui l'azione dell'Unione europea viene definita attraverso queste strategie.
Il secondo documento di policy, che è più di cooperazione allo sviluppo, attraverso il quale si sviluppano l'Agenda 2030 e gli SDGs, è il consenso europeo sullo sviluppo. Si tratta di un documento a portata politicamente obbligatoria per tutta l'Unione europea, cioè tanto per le istituzioni quanto per gli Stati membri, in modo da creare un quadro integrato, così come richiede la natura delle sfide.
In secondo luogo, allo stesso modo in cui le sfide dello sviluppo sono globali, così come descritte nell'Agenda 2030, anche la politica di cooperazione allo sviluppo diventa sempre più una politica globale, che interviene in tutto il mondo, senza la differenziazione tra Paesi più poveri e Paesi di reddito intermedio. È importante, attualmente, per la definizione di che cosa fare nello specifico, ma non per dividere il mondo in aree in cui si interviene e non si interviene. Si tratta, quindi, di una visione globale, europea, e di un approccio integrato.
Attorno a che cosa si articola questo consenso in modo da essere la linea guida per l'azione dell'Unione europea? In primo luogo, ponendo al centro il dialogo, e quindi la definizione di politiche corrette. Già c'è un primo cambiamento, ovvero che i fondi sono importanti, però più importanti ancora sono le politiche che aiutano a delineare e mantenere una linea di coerenza, come quella sul cambio climatico, dove non c'è soltanto una questione di fondi, ma c'è una questione di politiche, che si basano sulle energie rinnovabili e tutto quello che conoscete.
In secondo luogo, ci sono gli attori e gli obiettivi principali, che, seguendo lo stesso schema dell'Agenda 2030, sono stati articolati in cinque «P». Pag. 5
La prima «P» è quella di people, dunque fa riferimento alla centralità delle persone. Qualsiasi cosa si fa, alla fine deve essere misurabile in termini di situazione migliore per le persone (uscire dalla povertà, avere accesso a servizi migliori, avere accesso a un'educazione che possa permettere un accesso al mercato del lavoro).
C'è poi la «P» della pace: la politica di sviluppo deve contribuire alla pace. È una definizione di sfide che a volte sono state considerate borderline. La politica di sviluppo deve essere parte attiva nelle azioni per stabilizzare i Paesi fragili, affrontare le vulnerabilità, costruire la pace come in situazioni come quelle che abbiamo conosciuto e conosciamo nel Corno d'Africa o in centro Africa. La politica di sviluppo non si chiama fuori dalla costruzione della pace, bensì, nel limite delle sue capacità, vuole contribuire a questo.
Allo stesso modo, vuole contribuire alla questione migratoria, che mette insieme le persone e la stabilità, e quindi si affronta la questione della mobilità e dei flussi migratori come una componente integrale dell'azione della politica di sviluppo, ovviamente per affrontare soprattutto le cause profonde delle migrazioni, che possono essere tanto la povertà quanto la violazione dei diritti, l'instabilità, il cambiamento climatico e i suoi effetti.
La terza è quella che riguarda il pianeta, e cioè una politica che deve in maniera strutturale contribuire alla sostenibilità dell'azione nei confronti del nostro pianeta: cambiamento climatico, biodiversità e diversità in genere. L'Agenda di Parigi viene ripresa, con tutto quello che comporta, attorno a quest'obiettivo.
La quarta «P» è quello della prosperità. La politica di sviluppo non è una ridistribuzione assistenzialista, ma è piuttosto una politica che deve contribuire a una crescita sostenibile, cioè a generare attività economica sostenibile che crei posti di lavoro. Questi sono i quattro obiettivi di policy all'interno di questa visione.
La quinta «P» è quella del partenariato, cioè come si lavora. Non si lavora con schemi di sviluppo imposti, ma appunto ci si siede a un tavolo, si discute insieme coi nostri partner, si definiscono le azioni da fare, e poi si lavora insieme.
Le cinque «P» in cui si declina il consenso sono queste, ma ci sono anche due drivers, due elementi che aiutano l'intera agenda a essere implementata e che devono essere affrontati in quanto tali, perché sono ormai delle caratteristiche fondamentali dell'insostenibilità se non si articolano in politiche corrette.
Una è la questione del genere, e quindi la questione donne. È inutile che stia elaborare, perché i dati sono conosciuti, ma quello che diciamo è che, se la questione genere, la questione donne non si articola in tutti gli interventi, che sia la lotta contro le violenze, contro la discriminazione, contro l'esclusione dai luoghi di decisione, non si riuscirà a fare delle azioni strutturanti.
Il secondo driver è quello dei giovani, poiché nella stragrande maggioranza, se non nella totalità, dei Paesi in via di sviluppo, la maggioranza della popolazione è sotto i trenta o sotto i diciott'anni, a seconda dei continenti o dei Paesi di cui si parla. Il fatto di avere giovani come driver di queste politiche, ad esempio, che sia nel partenariato, che sia nella costruzione di pace, che sia nello sviluppo sostenibile, deve fare in modo che i giovani siano empowered, siano employable, siano al centro dell'azione che si mette in opera.
Questo, dell'Agenda 2030, è il quadro politico global strategy, il quadro di riferimento di sviluppo.
Il terzo aspetto, ovviamente più recente, attraverso il quale proponiamo di implementare quest'Agenda è una riforma degli strumenti.
Come voi sapete, nell'ambito della preparazione del quadro finanziario pluriennale 2021-2027, abbiamo proposto di avere un solo strumento, che si chiama strumento di cooperazione internazionale vicinato e sviluppo, che deve servire a facilitare precisamente la coerenza della spesa rispetto agli obiettivi politici. La proposta è di semplificare l'architettura per il delivering, per la messa in opera delle scelte e dei programmi. Questa è l'architettura nella quale ci si muove. Pag. 6
Il secondo aspetto è quello finanziario, naturalmente. In piena conformità con l'Agenda di Addis Abeba sul finanziamento per lo sviluppo, abbiamo lavorato su tre pilastri. Uno è quello dell'aiuto pubblico allo sviluppo, in cui continuiamo come Unione europea, in particolare come Commissione, a incoraggiare gli Stati membri a raggiungere lo 0,7 per cento. Quantunque, ovviamente, l'aiuto allo sviluppo classico non sia sufficiente, se però viene a mancare la predicibilità di questa fonte di finanziamento, è ovvio che tutto il resto diventa ancor più complesso e sempre più contraddittorio. Il pilastro numero uno è, quindi, continuare il percorso verso lo 0,7 per cento.
Il secondo, nell'ambito del dialogo che abbiamo con i Paesi partner, è quello di facilitare e di lavorare per politiche fiscali più credibili. La fiscalità dei Paesi in via di sviluppo è a livelli quasi ridicoli. Vuoi, semplicemente, perché il sistema non è strutturato o non è implementato, il contributo del finanziamento nazionale alle politiche di sviluppo rimane estremamente limitato. Noi abbiamo una serie di programmi col Fondo monetario, con l'OCSE e così via per sostenere l'introduzione di politiche fiscali credibili.
Il terzo pilastro è quello degli investimenti: è chiaro che non possiamo pensare che con l'aiuto allo sviluppo e i vecchi doni, distribuiti anche meglio, si possa riuscire a contribuire a raggiungere gli Obiettivi dello sviluppo.
Abbiamo detto, quindi, investimenti, pubblici e privati, ma soprattutto privati. È la mobilitazione delle risorse dei Paesi ricchi, come l'Italia, di quelli che si chiamano Paesi donatori, nei confronti dei mercati e dei Paesi in via di sviluppo, a essere fondamentale per riuscire a generare una dinamica quantitativa, che possa permettere di affrontare le sfide dello sviluppo sostenibile e della crescita dell'occupazione, visti i giovani in cerca di lavoro. Non solo: è anche il modo per lavorare nella complessità di una società nei confronti della complessità di un'altra società. Non si tratta soltanto del rapporto tra Governi, ma di mobilitare le risorse intere di un Paese, tra cui quelle del settore privato.
C'è un aspetto importante, su cui sono state fatte diverse analisi. Poste le necessità di finanziamento, si calcola però anche che, se un volano finanziario si attiva in maniera credibile, si possono aprire opportunità di numerose migliaia di miliardi anche per le imprese dei Paesi donatori.
Relativamente al discorso secondo cui l'aiuto allo sviluppo è unicamente un trasferimento di risorse dai ricchi ai poveri in maniera abbastanza tradizionale, in fondo una specie di ridistribuzione, non solo la quantità e la qualità delle sfide, ma anche la realtà di quello che è stato fatto suggerisce di andare verso l'investimento privato, che non è un investimento di buon cuore, ma un investimento di profitto, orientato agli obiettivi. È, però, un investimento di profitto che crea occupazione anche nelle nostre società, anche per sostanziare ancora di più quello che molti sanno, e cioè che investire nello sviluppo conviene, non è semplicemente un'operazione di trasferimento di risorse. Bisogna, però, anche discutere insieme come fare.
Il sistema che abbiamo messo in piedi è un po’ questo, e cioè quello di avere un'azione di policy orientata in questo modo, di strumenti articolati attorno a questi tre pilastri e operare un'operazione di coerenza tra le politiche in modo da avere un monitoraggio permanente.
Il monitoraggio permanente è anche facilitato, o dovrebbe essere comunque incoraggiato, dal sistema stesso degli SDGs (Sustainable Development Goals), che come sapete non si applica soltanto nell'azione esterna, ma anche all'interno dei nostri Paesi. L'Agenda 2030 è anche per l'Italia, per i Paesi membri dell'Unione europea.
Ad aprile, come Unione adotteremo un rapporto di sintesi che mette insieme tanto i primi risultati della nostra azione sugli SDGs esterni quanto l'azione che ogni Stato membro sta facendo. Abbiamo già pubblicato un primo rapporto, che dimostra più o meno qual è la dinamica europea, ma il fatto di avere un rapporto di sintesi dovrebbe aiutare la coerenza delle politiche. Credo che il settore del cambiamento climatico Pag. 7 sia il più significativo, laddove abbiamo delle dinamiche economiche nostre non sempre necessariamente compatibili con quello che facciamo all'esterno.
La necessità di avere questo monitoraggio dell'attuazione delle politiche è, quindi, particolarmente interessante, anche perché permette un dibattito che non sia per specialisti. In fondo, quello che importa è che diventi un dibattito di società. Per motivi ovvi, la povertà nel mondo oggi è povertà nelle nostre società, nei Paesi in via di sviluppo, ma quella nei Paesi in via di sviluppo non si risolve con un trasferimento di fondi, bensì con delle politiche che creino occupazione tanto in quei Paesi quanto nei nostri, e con delle politiche corrette.
Questa è l'architettura, la maniera attraverso cui si articola la sua messa in opera.
Ora fornirò un paio di cifre sulla spesa dell'Unione europea, nel senso della Commissione europea.
Noi lavoriamo essenzialmente con certe modalità, a partire dal sostegno al bilancio, e cioè dal trasferimento di fondi nei bilanci di un numero di Paesi in via di sviluppo che sono credibili come gestione macroeconomica e delle finanze pubbliche e dove la fiducia è più elevata. Ora, il trasferimento sul bilancio degli Stati beneficiari è condizionato da una serie di meccanismi di sorveglianza, altrimenti se ne perderebbe traccia. È, però, lo strumento più importante per poter avere un dialogo sulle politiche pubbliche.
In altri termini, se le politiche sull'educazione e sulla salute pubblica non sono coperte o inquadrate – lo sapete meglio di me – da una politica pubblica nazionale (quante scuole, quanti studenti, quanti insegnanti, quale mercato del lavoro, quale profilo), si possono finanziare scuole università e così via, però non ci sarà nessuna sostenibilità. Una prima parte della nostra spesa esterna è di sostegno al bilancio per permettere di supportare un dialogo sulle politiche pubbliche, e attraverso un sistema di indicatori permettere la realizzazione di queste politiche.
Una seconda modalità è quella attraverso la cooperazione con le organizzazioni internazionali (Nazioni Unite), o organizzazioni finanziarie (Banca mondiale, Banca africana e altre), in modo da poter influenzare le scelte e poter agire in partenariato con istituzioni multilaterali di cui come Unione europea siamo tutti dei sostenitori. È un po’ nel nostro DNA sostenere forme di governance multilaterale. Coerentemente, una parte della spesa è canalizzata attraverso partenariati con le Agenzie delle Nazioni Unite e con le istituzioni finanziarie internazionali.
C'è poi una quarta modalità, su cui tornerò, perché credo sia oggetto specifico della vostra indagine: il partenariato con gli Stati membri, quella che si chiama la cooperazione delegata, ossia stabilire insieme gli obiettivi, definire le azioni e poi affidare i fondi alla messa in opera delle agenzie nazionali di cooperazione. È una modalità in crescita, che finora si situa attorno al 6-7 per cento del totale per la spesa, ma che in certe realtà, come quelle del fondo fiduciario di La Valletta sulla migrazione, è molto importante anche per motivi di rapidità.
Questa è la struttura della spesa esterna dell'Unione europea, articolata su vari meccanismi. Adesso, però, vorrei soprattutto soffermarmi su una modalità innovativa, basata sul terzo pilastro di Addis Abeba, cioè gli investimenti.
Noi abbiamo da tempo una politica di blending, cioè di finanziamento pubblico su pubblico. In altri termini, col bilancio dell'Unione diamo dei fondi a delle banche multilaterali, a delle agenzie di finanziamento, in modo da rendere possibile il montaggio finanziario di un prestito: a volte per bonificare il tasso di interesse, perché così com'è sul mercato, anche se concessionale, è troppo alto per il Paese beneficiario, che non può permettersi un debito o una garanzia sul debito pubblico rilevante; altre volte, per completare la conoscenza finanziando studi di fattibilità, studi di impatto ambientale, quello che permette poi all'investitore principale di intervenire.
Può trattarsi anche di un'attività di assistenza tecnica, mirata a creare le capacità dell'ecosistema in cui si fa l'investimento, le Pag. 8capacità delle amministrazioni, la formazione delle comunità in cui questo avviene. Quello del blending è un sistema che si è consolidato.
Dal 2007 al 2018, abbiamo speso in blending circa 6 miliardi di euro, e questo ha generato più o meno 75-80 miliardi di investimenti, quindi con un leverage di 12-13 volte, il che ci suggerisce che questa è una pista importante. Oltretutto, il blending si può fare in maniera piuttosto rapida, cioè si fa attraverso un partenariato diretto con le agenzie e le banche di sviluppo accreditate presso la Commissione europea, in modo da evitare una serie di procedure burocratiche, che altrimenti sarebbero necessarie per qualsiasi spesa di fondi pubblici.
Quello che, però, abbiamo cominciato a fare un paio di anni fa, su richiesta del Consiglio europeo, soprattutto per intervenire in ambito migratorio, cioè creando le condizioni di lavoro, di occupazione e di crescita nei Paesi di origine, in particolare in Africa e nel vicinato, è stato di elaborare lo strumento di garanzia dei rischi che gli investitori privati sono disponibili a prendere per investire in Paesi e in attività d'interesse, nell'ambito della politica non di contenimento – secondo me, il termine non è corretto – ma di intervento laddove le cause profonde della migrazione possono essere se non altro affrontate creando occupazione, attività economica e così via.
Su quest'ultimo strumento abbiamo stanziato un importo di 1,5 miliardi di euro, garantiti dal bilancio dell'Unione. In altri termini, diamo una garanzia a investitori privati in modo da togliere il rischio, quegli aspetti non affrontabili dal mercato: situazioni di instabilità, di guerra, o interventi in aree in cui il profitto teoricamente esiste, ma le condizioni di rischio sono elevate, come in Sahel, nelle zone del Mali, del Niger, del Senegal. Faccio intervenire in Paesi come questi nella produzione e nella distribuzione di energia elettrica da fonti rinnovabili è profitable, cioè le imprese fanno profitto, dei business plan esistono. Semplicemente, ci sono due aspetti.
Se l'impresa deve indebitarsi sul mercato mondiale per l'investimento, il tasso di interesse richiesto per indebitarsi su un'operazione a rischio in Mali o in Niger è impossibile da affrontare da parte di qualsiasi impresa privata.
Quanto al secondo aspetto, anche se i fondi esistono, che cosa succede se l'energia prodotta e distribuita, normalmente venduta all'ente di Stato, non viene più pagata? Ovviamente, in questi Paesi le instabilità non permettono di dire: facciamo un contratto con l'ente elettrico del Burkina Faso. Il rischio è piuttosto elevato. Con la garanzia dell'Unione europea, si può intervenire precisamente per contribuire ad appianare questi rischi e a rendere l'investimento fattibile. Nel caso in cui l'ente elettrico del Burkina Faso non paghi, interviene la garanzia dell'Unione, la quale, essendo garantita sul bilancio dell'UE, ha una quantità di fondi che possono essere messi a disposizione molto importante, e che comunque è contrattata con il beneficiario potenziale al momento del contratto. Stiamo, quindi, cominciando a lanciare dei progetti non più di blending, ma sotto questo sistema di garanzia.
È importante, perché abbiamo lanciato cinque settori su cui verosimilmente gli investimenti sono più fattibili. Uno è quello della creazione di piccola e media impresa. Il secondo è quello dell’agribusiness. Il terzo è quello delle città, visto che le dinamiche migratorie verso le grandi città sono in espansione. Il quarto è quello delle interconnessioni digitali (digital for development). Il quinto è quello delle interconnessioni di infrastrutture, in particolare di energie rinnovabili. Questi sono i cinque settori in cui abbiamo lanciato le prime call, i primi bandi. Abbiamo ricevute proposte per un importo molto superiore a 1,5 miliardi di garanzie, e adesso le stiamo contrattando per arrivare ai progetti concreti.
Segnalo che, tra le varie proposte, ce ne sono tre portate dalla banca di sviluppo italiana, che nella fattispecie è la Cassa depositi e prestiti, di cui una relativa a fondi di garanzia per la creazione di start-up e altre piccole e medie imprese. Il secondo è per valorizzare la diaspora, in modo da facilitare lo scambio di esperienze e il trasferimento di fondi utilizzabili a fini produttivi. Pag. 9 Il terzo è sulle energie rinnovabili, soprattutto schemi off grid in ambito rurale.
Noi crediamo che questo sia il futuro, tanto è vero che nella proposta per il prossimo quadro finanziario pluriennale siamo passati a una proposta di 60 miliardi di garanzia, i quali devono essere coperti non già da 1,5 miliardi, ma da una cifra molto più consistente. Stiamo discutendo in questo momento su come poterli dividere effettivamente tra le varie aree, per la verità in primo luogo su come convincere gli Stati membri a essere d'accordo sulla proposta. Naturalmente, infatti, fa parte del pacchetto finanziario in cui tutta la spesa esterna è piuttosto aumentata.
In tutto questo, anche nel blending e nelle garanzie, di che cosa c'è bisogno per evitare procedure burocratiche di gestione di fondi pubblici troppo lunghe? Le procedure sono lunghe, ma sono anche necessarie, perché si gestiscono soldi dei contribuenti.
Noi abbiamo un sistema di accreditamento, che è quello sostanzialmente di applicare un audit ai soggetti pubblici intermediari in modo che corrispondano ai requisiti del regolamento finanziario dell'Unione europea, così che questi soggetti spendano i soldi come noi, che ci sia un sistema di trasparenza, di tracciabilità, di rendicontazione e via dicendo. Per essere accreditati, bisogna passare appunto attraverso un processo che si chiama pillar assessment, che è precisamente un'analisi dei vari aspetti: sistemi di controllo interno, di audit, di gestione della spesa e così via.
Perché è importante? Perché, in ogni caso, per poter implementare queste azioni, abbiamo bisogno di un intermediario. Non possiamo fare contratti con un'impresa. Gli intermediari sono le banche di sviluppo degli Stati membri e/o le istituzioni finanziarie internazionali, come la Banca mondiale, la Banca africana di sviluppo e via dicendo.
Ora, in Italia la Cassa depositi e prestiti e l'Agenzia per la cooperazione allo sviluppo sono state accreditate, e ci sono altri soggetti in fase di accreditamento, come l'Istituto italo-latino-americano. Va detto, però, che l'Italia registra anche un po’ di ritardo in questo, tant'è vero che nella cooperazione delegata l'Italia è soltanto al sesto posto. Vuol dire che ci sono soprattutto altri Paesi, in particolare la Francia e la Germania, che da soli occupano il 50 per cento della cooperazione delegata, seguiti da agenzie di sviluppo o sistemi Paese come quello belga o quello spagnolo.
Credo sia mio dovere, anche come italiano, attirare l'attenzione anche sul fatto che un impulso, un sostegno a che l'Italia faccia sistema è importante. Perché? Se oggi passiamo da una garanzia di 1,5 miliardi a, domani, una di 60 miliardi e riproduciamo la stessa divisione dei contratti, è ovvio che da qualche parte c'è un problema. E siccome questa distribuzione dei contratti nel nostro approccio non è semplicemente una distribuzione di aiuto allo sviluppo, ma muove un intero sistema produttivo, per cui deve servire a creare attività economica sostenibile, buone politiche e occupazione anche da noi, è ovvio che il discorso va al di là, per quanto sia limitato, del vecchio paradigma di distribuzione di aiuto pubblico allo sviluppo.
La questione è particolarmente rilevante, ad esempio, in strumenti innovanti che abbiamo messo in piedi per accelerare le procedure di spesa, come il fondo fiduciario di La Valletta sulle questioni migratorie: fondo fiduciario che ha più di 4 miliardi di dotazione, di cui abbiamo speso o impegnato 3,5 miliardi a tutt'oggi, ma la quota parte di cui l'Agenzia italiana e i soggetti italiani hanno beneficiato è piuttosto ridotta, nell'ordine di 180 milioni.
Ancora una volta, non si tratta qui di dire che bisogna cambiare le regole. Le regole sono aperte, ma probabilmente bisogna che il sistema Italia rifletta un attimo. Oltretutto, ormai il modo di lavorare dei Paesi che non a caso si situano in modo migliore, come la Francia e la Germania, ma sempre di più anche la Spagna, è in realtà di avere un sistema tripartito, che fa capo a un ente finanziario, del genere della Cassa depositi e prestiti, sostenuto da un'agenzia, che serve a mobilitare l'assistenza tecnica, le capacità, le organizzazioni non Pag. 10governative, cioè tutto quello che non è bancario.
Un terzo pilastro è quello della capacità di utilizzare le risorse delle amministrazioni pubbliche, e cioè le capacità che esistono nei ministeri, nei comuni, nelle regioni, nelle amministrazioni pubbliche, che occupano sempre di più una grande importanza, soprattutto quando si devono fare delle operazioni di assistenza tecnica di prossimità. Che sia in materia di sicurezza, ad esempio le attività di formazione di polizia, che sia in materia di governance delle grandi città, altro è fornire un'assistenza tecnica generica, altro è utilizzare le capacità di governance delle nostre città, che parlano lo stesso linguaggio, parlano di problemi simili.
Lo sviluppo del sistema ormai si articola attorno a tre gambe: la banca, l'assistenza tecnica e l'intermediario per capacità pubbliche. Questa è un po’ la chiave del successo, soprattutto dei poli tedesco e francese, a parte il dialogo con l'imprenditoria. Ne abbiamo parlato a Milano, venerdì scorso, in occasione di un convegno dell'Assolombarda. Non si tratta di pensare alla Commissione come a un bancomat aperto in cui ci sono fondi da distribuire. Soprattutto, ci sono le policy, i Paesi, l'analisi di rischio e gli strumenti, ma poi c'è un intermediario-Paese, che deve federare le forze vive, che siano pubbliche, private o della società civile.
Gli schemi di lavoro sono sempre più differenziati. Quando parliamo di alleanza con l'Africa, non si tratta più del trasferimento di un fondo, neanche dell'investimento spot: è sistema a sistema. È un po’ questa la direzione verso cui ci si orienta, attraverso cui ci si muove, ispirata dalla complessità dell'Agenda 2030, che precisamente richiede interventi integrati e strutturati, altrimenti non si è molto efficaci.
Concludo qui. Grazie e scusate per l'intervento forse un po’ lungo.
PRESIDENTE. Ringrazio moltissimo il direttore, il cui intervento ha forniti tanti spunti anche per il lavoro futuro del Comitato.
Do ora la parola agli onorevoli colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
SIMONA SURIANO. Grazie per la relazione molto interessante.
Vorrei sapere se avete un'idea di quali siano gli obiettivi dell'Agenda 2030 che ancora siamo lontani dal raggiungere a livello europeo. Quali sono gli sforzi che secondo voi dovremmo mettere in campo?
Vorrei sapere, inoltre, se è prevista, se esiste già, la partecipazione dei privati alla cooperazione allo sviluppo.
Avrei ancora una questione, che forse è più una riflessione. I goals dell'Agenda 2030 sono degli obiettivi veramente ambiziosi, che cozzano con quelle che sono forse le sacche di ostilità degli Stati. Penso al raggiungimento dell'Obiettivo del cambiamento climatico. Comunque, ancora ci sono molte resistenze. Penso anche alla tendenza delle grandi imprese a ridurre i costi di produzione, e quindi anche il costo del lavoro. Tra gli Obiettivi dall'Agenda 2030, c'è anche quello dello sviluppo dignitoso del lavoro. Come si possono coniugare questi obiettivi ambiziosi con le resistenze di fatto degli Stati?
PRESIDENTE. Rivolgerei anch'io qualche domanda, e la prima riguarda il punto relativo alla cooperazione delegata.
Quando abbiamo approvato la legge n. 125 del 2014, l'Italia era abbastanza avanti sulla cooperazione delegata. Non ricordo più le cifre, ma riusciva ad assorbire una parte ampia dei fondi riservati a tale forma di cooperazione. C'è stato poi un periodo di assestamento del nuovo sistema, di accreditamento, di passaggio tra ministero e agenzia: sentire oggi che siamo al sesto posto, quando in realtà siamo tra i primi tre contributori, è sicuramente un elemento di attenzione, credo anche da parte del Parlamento.
La domanda è: quali sono, secondo Lei, i colli di bottiglia che fanno sì che l'Italia non riesca a essere in prima linea tra i Paesi che si fanno delegare nella cooperazione?
In particolare, relativamente al fondo Africa, siamo stati il primo Paese ad avere Pag. 11delegato un progetto in Etiopia. Oggi, però, sui 3,5 miliardi abbiamo delegato molto poco. Nonostante siamo tra i primi promotori del fondo, tra i più interessati a che il fondo effettivamente sia efficace, tra quelli che hanno posto in primo piano il nesso migrazioni-sviluppo, operativamente non ci siamo.
È un problema di questo momento particolare della cooperazione? Siamo in attesa della nomina del direttore dell'Agenzia. C'è stato comunque un cambio di Governo, che ha comportato anche altri cambi. È normale, nel ciclo di tutti i Paesi. C'è un problema di capacità dei vari ministeri? C'è un problema di assenza di coerenza delle politiche e, quindi, di mancata capacità di alcuni ministeri? Penso al Ministero dell'interno, al Ministero del lavoro e al Ministero dell'ambiente, che sono molto coinvolti in alcune cose, ma sono magari meno capaci di fare progetti di cooperazione allo sviluppo. Questa è la prima domanda.
La seconda domanda riguarda il Global compact for migration. Immagino che la Commissione europea sia coinvolta nei progetti del Global compact. Quali sono i progetti più interessanti in questo momento? A quali l'Italia può partecipare e quali non può partecipare non avendo ancora aderito? Lo dico in senso propositivo. Ci può raccontare alcuni progetti che potrebbero stimolare il Parlamento a prendere una decisione in senso positivo o negativo? La questione è che il Parlamento deve ancora decidere sull'adesione al Global compact. Siamo in una sede parlamentare, se Lei ci dà alcuni spunti, questo resterà agli atti per le decisioni delle forze politiche.
Il terzo punto riguarda la possibilità di utilizzare fondi blending come assicurazione del rischio. Credo che sia una cosa estremamente interessante, anche perché può essere uno strumento di politica estera.
Faccio un esempio: quando la Tunisia è stata oggetto di attentati, il rischio di quel Paese è aumentato tantissimo, ma c'era un interesse sia della Commissione sia degli Stati membri di testimoniare una vicinanza a quel Paese e, quindi, di utilizzare strumenti che toglievano rischio e che permettevano di dare un segnale politico.
È molto interessante questo aumento delle garanzie previsto dalla Commissione. Voi immaginate che Cassa depositi e prestiti partecipi al sistema della Commissione o che possa dotarsi anche di un proprio sistema di derisking?
Infine, noi avremo un dibattito parlamentare sull'Agenda 2030. Il Comitato guarda soprattutto all'implementazione dell'Agenda 2030 nel mondo, ma immagino che il documento di riflessione della Commissione approvato a gennaio ragioni sia su che cosa può fare la Commissione per favorire l'implementazione dell'Agenda 2030 nel mondo sia sul ruolo della Commissione per l'implementazione all'interno degli Stati membri.
Credo che sia interessante soprattutto avere qualche notizia sui tre scenari per l'implementazione dell'Agenda 2030 all'interno dei Paesi membri e sul ruolo che la Commissione europea può avere, cioè se è un supervisore, se è un luogo di incentivi, o se è semplicemente un ruolo di raccordo tra buone prassi.
CRISTIAN ROMANIELLO. Buongiorno, La ringrazio per la relazione. La mia domanda riguarda principalmente l'ambiente accademico e in generale scientifico e anche gli attori italiani e internazionali che si occupano di innovazione tecnologica.
Vorrei sapere quanto l'ambiente accademico e scientifico sta incidendo nell'avanzamento del raggiungimento degli Obiettivi dell'Agenda 2030 e cosa vi aspettate come impegno ulteriore, anche in considerazione del fatto che potremmo cercare di avvicinare ulteriormente questi ambienti.
Noi sappiamo che ci sono, per esempio, Paesi dove la reperibilità del cibo è molto difficoltosa a causa delle condizioni climatiche. Magari il troppo caldo finisce per deteriorare i prodotti e il cibo che arriva nei villaggi, dove le persone non possono mangiare proprio a causa del danno del troppo caldo nelle fasi di trasporto.
So che ci sono dei brevetti internazionali che, per esempio, potrebbero risultare utili per cercare di risolvere la situazione in questo senso, cioè attraverso dei trattamenti Pag. 12 per fare in modo che il cibo possa arrivare a destinazione conservato in modo migliore. Vorrei sapere cosa vi aspettate in questo senso.
PRESIDENTE. Do la parola dottor Manservisi per la replica.
STEFANO MANSERVISI, Direttore Generale della Commissione europea per la cooperazione allo sviluppo. Grazie. Ovviamente le questioni sono complesse e richiederebbero una discussione molto più lunga.
Parto dalla questione degli SDGs nell'Unione europea. In generale lo stato della messa in opera e del conseguimento degli SDGs è un lavoro che si sta facendo adesso. Presenteremo il rapporto a fine aprile, in modo da avere una prima discussione alle Nazioni Unite in giugno e a luglio. È difficile dare adesso dei risultati intermedi, anche perché, diversamente dai vecchi MDGs (Millennium development goals), dove alla fine è una questione di quanti bambini e di quante ragazze vanno a scuola, qui la questione è più complicata, cioè qual è la qualità dell'educazione per fare in modo che questo si leghi con l’employability, ovvero la capacità di essere sul mercato del lavoro. È un lavoro che stiamo facendo con sistemi armonizzati, perché altrimenti ognuno poi fa il reporting che vuole.
Sul piano interno dell'Unione europea, anche se non è di mia competenza, il Vicepresidente Timmermans quando ha presentato il documento ha messo in evidenza un paio di cose. Mentre sulla parte che riguarda la povertà e il cambio climatico l'Unione europea è piuttosto avanzata – d'altra parte le politiche pubbliche dell'Unione europea sulle energie rinnovabili sono ben precedenti all'Accordo di Parigi, quindi siamo sempre stati avanti – quello che, invece, rimane piuttosto complicato è il sistema di consumo, cioè il rapporto tra la produzione, il consumo e la gestione del non riciclato. Questo è un aspetto in cui in generale gli Stati membri sono relativamente indietro, soprattutto per quanto riguarda l'SDG 9 sul resilient infrastructure, le infrastrutture che possono essere sostenibili.
Ci sono alcuni aspetti che riguardano soprattutto il modello di consumo e come esso incide sugli equilibri e le sostenibilità delle società, dall'inclusività al riciclo e alla relazione con l'ambiente umano, soprattutto nelle città. Sotto questo aspetto ci sono dei problemi, non siamo i migliori. Anche, per la verità, sullo sfruttamento delle risorse marine, dalle prime analisi, risulta che gli europei non sono tra i migliori al mondo. Comunque, questo è un bilancio che si farà insieme a fine aprile.
Il centro di gravità è un discorso complesso, perché questo dovrà essere deciso dagli Stati membri nella misura in cui ci sarà un accordo, in quanto ci sono sostanzialmente due scuole di pensiero. La prima dice: «Questi sono degli obiettivi inquadrati in un'agenda internazionale, ma che poi ogni Stato membro implementa e l'Unione europea è un momento di analisi e di coerenza». Ad esempio, il Governo spagnolo attuale ha preso una posizione molto visibile, tant'è che ha creato un percorso SDGs che misura la propria performance. Tuttavia, non c'è un modello unico.
Un'altra scuola di pensiero afferma: «In fondo gli SDGs dovrebbero ispirare il semestre europeo, cioè la definizione delle politiche attive. Mentre c'è la sorveglianza macroeconomica, gli SDGs potrebbero essere un impulso alle politiche attive: politiche di occupazione, politiche ambientali, eccetera».
Voi capite che la differenza non è di poco conto sul piano politico. Non si è arrivati ancora a una definizione di una posizione e dubito che ci si arrivi in tempi brevi, però questi sono i due termini del problema, così come esistono oggi. Per il momento almeno avere una presentazione oggettiva e completa di qual è lo stato dell'arte nell'Unione europea degli SDGs aiuterà il dibattito.
Io sono anche convinto – questa, però, è un'opinione personale – che questo potrebbe in qualche modo anche alimentare un dibattito all'interno della società, perché non è più la vecchia teoria secondo cui gli SDGs sono un qualcosa di molto lontano, ma sono un qualcosa che riguarda il nostro stare insieme e sono bipartisan per definizione: Pag. 13 quindi, sarebbe auspicabile l'avvio di un dibattito pubblico sulla coesione e sulla mobilità sociale, sulle disuguaglianze, sull'interazione con la produzione.
Quello che succede è che appaiono pezzi qua e là, come sulla plastica ad esempio, però il discorso che li tiene insieme e che potrebbe aiutare anche un dibattito pubblico più acceso rimane un po’ marginale. In certe società è più sviluppato, in particolare nelle società dei Paesi nordeuropei, così come è sviluppato in Spagna, perché è stata una scelta del Governo: tuttavia, nella media è un dibattito che rimane non strutturato.
Vengo ora ai privati e al cambio climatico, quindi le difficoltà delle imprese. In realtà, il dibattito è essenzialmente sulla trasformazione progressiva, cioè come le grandi industrie energivore cambiano progressivamente le fonti. Devo dire la verità, il rinnovabile è profitable. Le tecnologie d'avanguardia rimangono ancora europee, ma non so se per molto. Bisognerà investire su questo, perché soprattutto i nostri amici cinesi non sono in prima fila sul cambio climatico unicamente per sopravvivenza in Cina, ma anche perché vuol dire una certa predominanza sul piano tecnologico, almeno progressivamente. Comunque, le imprese seguono. Ad esempio, con i grandi produttori di energia di tutta l'Europa abbiamo concluso il patto di sostenere, ad esempio, in Africa il Piano africano per le energie rinnovabili, in cui Enel, Eni, EDF e tutti quelli che voi conoscete sono nostri partners, e una buona parte del blending in energia rinnovabile è fatto con loro, portati dalle banche naturalmente, perché non possiamo fare dei contratti diretti.
Certamente, c'è una resistenza, ma è una resistenza dovuta soprattutto all'incapacità delle politiche pubbliche di aiutare la trasformazione, perché ormai anche sul piano industriale questo è stato digerito, soprattutto laddove si può fare profitto.
Una parte della sfida è precisamente questa: essere in grado, con casi concreti, di dimostrare che quando si parla di cambio climatico o di protezione della biodiversità, visto che ci avviamo a un'altra conferenza importante, che è quella di Pechino del 2020, non stiamo parlando di cose di generosità assoluta, ma stiamo parlando di cose che generano anche profitto, che creano occupazione, che cambiano il profilo occupazionale. Nella misura in cui si va avanti su questa strada, le imprese in realtà seguono. Seguono le istituzioni, le politiche pubbliche? Questa è un'altra storia, però non c'è un istinto imprenditoriale a bloccare.
Sulla cooperazione delegata e le trasformazioni in Italia, devo dire che la cooperazione delegata di un tempo era di altra natura. Innanzitutto era più limitata in termini quantitativi e poi era più una specie di cofinanziamento. Adesso la cooperazione delegata, da anni, anche a causa della complessità del sistema finanziario europeo, richiede un accreditamento e, quindi, richiede un'istituzione che sia capace di adattarsi a queste norme.
Sul piano italiano sicuramente un aspetto è stato il percorso molto lungo dell'Agenzia attuale a diventare quello che è, a stabilirsi, a reclutare, a darsi una relazione. Noi prima dell'Agenzia facevamo molta cooperazione delegata con tre ministeri: Ministero degli esteri, Ministero dell'ambiente, Ministero dell'interno. Con il Ministero dell'ambiente e col Ministero dell'interno in qualche modo continua. In particolare, con il Ministero dell'interno, che sia la mia amministrazione o un'altra, c'è una relazione diretta, poi vi spiego anche perché. Con il Ministero degli affari esteri molto meno, perché loro naturalmente dicono che, avendo fatto la loro parte, adesso ci devono essere gli specialisti. Questa fase, in termini di collo di bottiglia, ha preso un po’ troppo tempo, quindi è chiaro che il mercato non rimane vuoto, si riempie di altri attori. Questa è la prima cosa.
Non la metterei sul momento particolare. Per lo meno dal punto di vista europeo in definitiva non è tanto questo, salvo che il momento particolare o altro renda difficili le decisioni. Per noi la questione non è tanto chi le prende, ma che vengano prese. Con un'Agenzia che ci ha messo un sacco di tempo per mettersi in piedi, che ha avuto un direttore che poi ha abbandonato, si lavora ugualmente, però è ovvio che Pag. 14registriamo un protagonismo minore rispetto ad altri Paesi.
Vengo alla questione del Global compact per la migrazione. I progetti più interessanti ispirati ad esso sono attualmente quelli relativi alla reintegrazione dei migranti che sono fatti uscire dalla Libia (ormai circa 45 mila) e dei migranti irregolari in Europa che ritornano nei Paesi di origine.
Su questo noi abbiamo una grossa operazione in corso con l'Organizzazione mondiale dell'immigrazione e/o con l'UNHCR, a seconda della tipologia delle persone. Questo ha creato una dinamica positiva, perché dà speranza, nel senso che i migranti che si trovano in Libia sono attirati dai centri di raccolta, in modo da poter ritornare.
Un secondo progetto interessante è quello delle capacità amministrative di lotta contro i trafficanti. Qui c'è un ruolo importante che gioca spesso il Ministero dell'interno italiano, come i Ministeri dell'interno di altri Paesi. Non da ora, ma già da due o tre anni.
Cosa succede? Abbiamo al tempo stesso un'entità accreditata, che può spendere, ma anche un'entità che mobilizza le risorse amministrative, quello di cui vi parlavo prima, cioè il poliziotto, la guardia di frontiera, quello che è capace di parlare ai propri omologhi. Questo in effetti funziona abbastanza, perché c'è un trasferimento di conoscenze e perché, ad esempio, tante operazioni, anche di controllo del territorio, di fatto sono fatte da carabinieri, dalla Gendarmerie, dalla Guardia Civil eccetera, e lì c'è una complicità molto più grande.
Quello che manca attualmente è piuttosto la scelta strategica, perché tecnicamente tutto può essere fatto, però è ovvio che non aver aderito o perlomeno dare l'idea di non aver aderito a questo quadro – che per la prima volta non facilita la migrazione, ma permette un discorso globale sulla migrazione, con tutti i suoi aspetti – naturalmente rende meno credibili e, quindi, ci sono meno opportunità.
Il progetto di per sé, fatto in sede europea, è fattibile, però il contributo alla messa in opera di questo Global compact, in particolare con il fondo che si creerà e a cui noi parteciperemo, è ovvio che richiede delle posizioni chiare, perché altrimenti c'è chi è molto più avanzato, in quanto il dibattito e le tecniche gli permettono di fare molto di più.
Non c'è niente da fare: la questione della mobilità e della migrazione rimarrà con noi per anni, perché non c'è soltanto la migrazione illegale, su cui spesso si insiste molto, ma anche la tendenza alla mobilità delle persone, come ad esempio la mobilità di studio, ma anche quella di chi è in cerca di occupazione.
Soprattutto per le mobilità e le migrazioni interne ai continenti, non quelle che vengono in Europa, è chiaro che il biglietto da visita non è straordinario, perché la tendenza è quella di dire: «Vado a lavorare con l'agenzia francese, con quella tedesca, con quella spagnola». Tecnicamente non è un ostacolo, però può esserlo nella formulazione del progetto.
Per quanto concerne il rischio assicurativo, la Cassa depositi e prestiti potrebbe avere un sistema di analisi di rischio interno, come ogni banca – e d'altra parte in parte già ce l'ha – per le operazioni di finanziamento che effettua, senza fare ricorso a fonti europee. Tuttavia, in questo momento, considerato che la componente Cassa depositi e prestiti nel panorama delle attività di investimento rimane in crescita, ma non è ancora sviluppata – e la prova esiste – io direi che è meglio che partecipi al sistema di definizione di rischio europeo, anche perché in questo modo acquista anche delle conoscenze in aree merceologiche e in Paesi dove l'Italia tradizionalmente non c'è: quindi c'è un valore aggiunto comunque, poi c'è l’expertise in house e via dicendo.
D'altra parte, nel mettere in piedi il primo sistema di analisi e valutazione finanziaria dei rischi, io ho chiesto esplicitamente alla Cassa depositi e prestiti di inserire un proprio rappresentante in questo pool di esperti, perché serve anche per dare un po’ di spinta.
Sugli scenari dell'Agenda 2030, come dicevo all'inizio, noi abbiamo un'agenda internazionale, su cui in ogni modo, insieme alle Nazioni Unite, dobbiamo fare la valutazione sullo stato di avanzamento, e Pag. 15abbiamo un'agenda nazionale che comunque esiste, perché ogni Paese, incluso l'Italia, ha aderito, quindi ci deve essere anche un momento di reporting. Dipende dall'intensità del dibattito in Italia su questo, però è chiaro che il Parlamento ha un ruolo fondamentale a mio modo di vedere, così come la società civile, perché in fondo non sono obiettivi lontani, ma sono obiettivi di vita quotidiana. Non so fino a che punto questo dibattito abbia preso piede in Italia. C'è poi la dimensione europea, che, come dicevo, ruota attorno a due correnti di pensiero, che, però, ancora non sono state consolidate.
Vengo all'innovazione tecnica e a quanto l'accademia può fare. Da un lato, c'è l'innovazione, ovvero la ricerca. Noi lavoriamo molto con i colleghi della Direzione Generale della ricerca e con altri. Abbiamo alcuni esperimenti e alcuni fondi che lavorano, ad esempio, sulla ricerca agricola, ad esempio il fondo DESIRA (Development smart innovation through research in agriculture), che è stato messo in piedi anche con la «Fondazione Bill e Melinda Gates», con un po’ di Stati membri e con il nostro fondo, che serve precisamente a lavorare su tecniche innovative, soprattutto per la food security, per l'identificazione di varietà vegetali e cereali che siano nutritivi e che possano essere sostenibili. C'è, quindi, un contenuto di ricerca.
Per fare in modo di renderlo più strutturato, soprattutto nelle realtà più difficili come quella africana, stiamo lavorando attualmente a un progetto di «Consiglio africano della ricerca», per mettere insieme i laboratori che esistono, ma che non fanno squadra sul piano africano, perché sono troppo divisi e le capacità e i finanziamenti sono troppo sporadici. Tale consiglio panafricano della ricerca dovrebbe cercare di lavorare sulle eccellenze e renderle più permanenti. Questo è ciò che avviene sul lato della ricerca.
Tuttavia, l'accademia ha anche un ruolo come attore. Stamattina prima di venire qui alla Camera ho avuto una riunione con un consorzio di cinque università italiane per discutere di un possibile progetto di università del Corno d'Africa, in cui si possa avere una base in un posto e un sistema di campus, in modo che si faccia della formazione per employability nel Paese e che si possa fare un trasferimento di conoscenza didattica e anche ricerca a livello regionale. Parliamo di un'area – è inutile che ve lo stia a spiegare – che ovviamente è emersa da una situazione di semi-guerra e di instabilità, che presenta ancora numerosi elementi di instabilità, ma in cui la stragrande maggioranza della popolazione è giovane, dove un Paese come l'Etiopia supererà i 100 milioni di abitanti nei prossimi cinque anni e dove abbiamo delle dinamiche complesse.
Anche la soggettività dell'accademia, essere attore della politica di sviluppo, soprattutto in questa integrazione tra formazione, permanenza di strutture e dialogo, è un aspetto su cui val la pena di intervenire. In ogni modo, noi cerchiamo di agganciare l'accademia sui due temi: sulla ricerca, ma anche sulla soggettività di attore, soprattutto nel trasferimento di conoscenze.
PRESIDENTE. Ringrazio molto il dottor Manservisi e dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 15.15.