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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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XVIII Legislatura

XII Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 4 di Giovedì 18 ottobre 2018

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Lorefice Marialucia , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULL'ATTUAZIONE DELLA LEGGE 15 MARZO 2010, N. 38, IN MATERIA DI ACCESSO ALLE CURE PALLIATIVE E ALLA TERAPIA DEL DOLORE, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALL'AMBITO PEDIATRICO.

Audizione di rappresentanti dell'Associazione europea di cure palliative (EAPC) e della Società di anestesia rianimazione neonatale e pediatrica (SARNePI).
Lorefice Marialucia , Presidente ... 3 
Valenti Danila , membro del Board of Directors dell'European Association for Palliative Care (EAPC) ... 3 
Lorefice Marialucia , Presidente ... 6 
Borrometi Fabio , coordinatore del gruppo di studio in Terapia del dolore e Cure palliative pediatriche della SARNePI ... 6 
Lorefice Marialucia , Presidente ... 9 
Trizzino Giorgio (M5S)  ... 9 
Siani Paolo (PD)  ... 10 
Rizzo Nervo Luca (PD)  ... 11 
Provenza Nicola (M5S)  ... 11 
Lorefice Marialucia , Presidente ... 12 
Valenti Danila , membro del Board of Directors dell'European Association for Palliative Care (EAPC) ... 12 
Borrometi Fabio , coordinatore del gruppo di studio in Terapia del dolore e Cure palliative pediatriche della SARNePI ... 14 
Lorefice Marialucia , Presidente ... 14 
Borrometi Fabio , coordinatore del gruppo di studio in Terapia del dolore e Cure palliative pediatriche della SARNePI ... 14

Sigle dei gruppi parlamentari:
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Lega - Salvini Premier: Lega;
Partito Democratico: PD;
Forza Italia - Berlusconi Presidente: FI;
Fratelli d'Italia: FdI;
Liberi e Uguali: LeU;
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo Italiani all'Estero: Misto-MAIE;
Misto-Civica Popolare-AP-PSI-Area Civica: Misto-CP-A-PS-A;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Noi con l'Italia: Misto-NcI;
Misto-+Europa-Centro Democratico: Misto-+E-CD;
Misto-Noi con l'Italia-USEI: Misto-NcI-USEI.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE
MARIALUCIA LOREFICE

  La seduta comincia alle 9.35.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati, nonché la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti dell'Associazione europea di cure palliative (EAPC) e della Società di anestesia rianimazione neonatale e pediatrica (SARNePI).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'attuazione della legge 15 marzo 2010, n. 38, in materia di accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore, con particolare riferimento all'ambito pediatrico, di rappresentanti dell'Associazione europea di cure palliative (EAPC) e della Società di anestesia rianimazione neonatale e pediatrica (SARNePI).
  Saluto la dottoressa Danila Valenti, membro del Board of Directors dell'European Association for palliative care (EAPC), e il dottor Fabio Borrometi, coordinatore del gruppo di studio in terapia del dolore e delle cure palliative pediatriche della SARNePI, che ringrazio per aver accettato l'invito.
  Pregherei i nostri ospiti di contenere il proprio intervento entro dieci minuti, per dare modo ai deputati di porre delle domande, a cui seguirà la replica dei soggetti auditi che potranno anche consegnare alla Segreteria della Commissione un documento scritto o farlo pervenire in seguito.
  Do quindi la parola alla dottoressa Valenti.

  DANILA VALENTI, membro del Board of Directors dell'European Association for Palliative Care (EAPC). Buongiorno a tutti. Ringraziamo la XII Commissione per l'invito e per il tempo che ci dedicate. Per noi delle cure palliative, per il mondo delle cure palliative, European Association for palliative care e Società italiana cure palliative, è molto prezioso il tempo che dedicate e per questo motivo abbiamo deciso, condividendo gli interventi, di affrontare tematiche diverse, complementari. Quindi non riproporremo i temi già affrontati dal presidente della SICP, nella figura di Italo Penco, nel settembre ultimo scorso, che avete sentito, ma proporremo alla vostra attenzione il tema, concordato nei contenuti con la Società italiana di cure palliative, relativo alla formazione universitaria in cure palliative e in cure palliative pediatriche, in particolare la formazione nei corsi di studi di Medicina e Chirurgia nel corso di laurea magistrale.
  La legge n. 38 del 2010 definisce gli obiettivi, le figure professionali, i modelli organizzativi e i percorsi di qualificazione di formazione continua, riconoscendo le cure palliative – sto citando la legge – come parte integrante e strategica del sistema sanitario e di cura. L'articolo 8 recita che il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, in concerto con il Ministro della salute, individua con uno o più decreti i criteri generali per la disciplina degli ordinamenti didattici e specifici percorsi formativi in materia di cure palliative e di cure palliative pediatriche.
  Quindi, la legge n. 38 indica che il MIUR e il Ministero della salute avevano l'obbligo Pag. 4di individuare i criteri per la redazione dei percorsi specifici formativi in materia di cure palliative e terapia del dolore. Sulla base di questo, moltissimi master sono stati pianificati negli anni grazie a specifico decreto.
  Nel primo semestre del 2017 è stato istituito un tavolo, il tavolo tecnico misto MIUR-Ministero della salute, per l'individuazione dei criteri generali per la disciplina degli ordinamenti didattici relativi all'articolo 8. Il tavolo tecnico ha elaborato delle proposte e ha recepito anche la proposta della Conferenza dei direttori di master, che ha espresso nel gennaio 2018 una raccomandazione, su proposta peraltro del presidente Lenzi, a tutti i corsi di laurea magistrali in Medicina e Chirurgia, quella di integrare, a partire dall'anno accademico 2017-2018, con due crediti formativi di tirocinio professionalizzante, ricompresi nei 60 CFU (crediti formativi universitari), denominando un CFU-F cure palliative e un CFU-F terapia del dolore, associandoli ai diversi settori scientifici e disciplinari più opportuni.
  Secondo queste indicazioni – in realtà non sono raccomandazioni – è stato definito che la scelta dei docenti è affidata ad ogni corso di studi e si basa su criteri di qualità, raccomandati dalla Conferenza, riferibili principalmente a indicatori bibliometrici ed esperienza didattica in ambito accademico.
  La stessa Conferenza dei direttori di master nel documento che ha proposto – cito virgolettato e l'ho riportato anche nella memoria – scrive: «Il docente universitario oggi deve ancora affinare la cultura della palliazione e inserirla in maniera sintonica al fianco della cultura tecnica della cura della malattia». Peraltro, ci accorgiamo adesso che si ribadisce «cura della malattia». In cure palliative è fondamentale parlare di cura della persona che ha una malattia.
  Ancora: «È un processo di penetrazione, di affermazione culturale di materia nuova all'interno dell'accademia, che si prospetta inevitabilmente lungo. Il corpo docente quindi deve affrontare ancora qualche passaggio prima di riuscire ad essere completamente solido per affrontare il tema. Però non è possibile attendere ancora, quindi l'idea di corsi dedicati, anche con il contributo di docenti esterni all'Università, è apparsa come una soluzione da percorrere in questo momento».
  Cito ancora dal documento della Conferenza: «L'inserimento delle cure palliative e della terapia del dolore nel corso di laurea in Medicina e Chirurgia pone inevitabilmente la necessità di un confronto del mondo universitario, che si responsabilizza nella formazione in tali ambiti su cui è ancora un po’ acerbo, con quello delle professioni che, soprattutto nell'area delle cure palliative, ha sviluppato temi di applicazione clinica e organizzativa importanti, ma che deve avviare una riflessione interna per definire quale idoneità scientifica e didattica è in grado di offrire a supporto di una formazione universitaria di qualità».
  Ecco, è importante quanto viene riportato anche nel documento della Conferenza dei direttori di master, ossia il riconoscimento che in questo momento storico la competenza per potere formare in cure palliative, come la Conferenza stessa cita, venga in qualche modo normata, alla stregua del provvedimento del maggio ultimo scorso, che norma ad esempio che l'insegnamento di Medicina Generale, sempre nel corso di studi abilitazione della Medicina e Chirurgia, in questo caso come CFU-T, debba essere obbligatoriamente svolto dai medici di medicina generale. È cioè fondamentale che l'insegnamento su temi su cui l'università – per loro stessa ammissione – ancora non è in grado di portare una formazione di qualità, sia affidato a chi porta questa competenza, come è stato normato per i medici di medicina generale. Chi insegna ai nostri studenti di medicina, nel corso di laurea magistrale, la medicina di famiglia e la medicina generale? I migliori medici di medicina generale. Si cerca il professionista che può garantire la massima espressione della medicina generale. Questo è stato normato nel 2018.
  Quello che noi chiediamo è che questo valga anche per il mondo delle cure palliative, laddove, per stessa ammissione della Pag. 5Conferenza dei direttori di master, loro riconoscono di non essere in grado di trasmettere con la massima competenza in questo momento storico.
  D'altra parte, le cure palliative pediatriche, in particolare, e la formazione in cure palliative e in cure palliative pediatriche richiedono un cambiamento di paradigma. Questo è fondamentale. Il paradigma che richiede una medicina e una cura della persona, non una cura della malattia, è profondamente diverso da quello che è stato in passato.
  Pensate che in questo momento noi, come cure palliative, ma il mondo della medicina in genere, proponiamo la scienza della medicina condivisa. La persona, il paziente, anche il bambino, l'adolescente, il sedicenne deve decidere il più possibile sulla base della propria coscienza su una scienza che noi medici abbiamo contribuito a costruire. Per fare in modo che sempre di più le persone possano scegliere in autonomia e libertà, noi medici – e le cure palliative hanno basato la loro attività su questo – dobbiamo fare in modo di offrire, attraverso la nostra competenza di medici, quella scienza in base alla quale le persone possano scegliere in base alla loro coscienza.
  Questo è fondamentale, è la medicina delle scelte condivise ed è il futuro della relazione medico-persona malata, quindi non più medico-paziente. Occorre un cambiamento di paradigma, in particolare relativamente alla multidimensionalità dell'approccio. Non parliamo più solo di terapia del dolore, parliamo di terapia della sofferenza, parliamo della terapia del total pain, del dolore totale. Il dolore di una persona non è solo il dolore fisico, è la paura che venga il dolore, è l'ansia del dolore, è il non capire il motivo per cui questo dolore c'è, perché non si vuole che ci sia questo dolore, perché è quello che sottende il dolore che spaventa. Non è una terapia solo del dolore fisico, che di per sé è una competenza tecnica trasferibile molto facilmente.
  La multidimensionalità dell'approccio, la comunicazione, il superamento dell'approccio paternalistico della medicina vecchia, la multiprofessionalità dell'intervento e la necessità di una formazione di base di mantenimento, che tiene conto quindi non solo degli aspetti tecnici, ma di quegli aspetti emotivi che inevitabilmente interferiscono in maniera sostanziale sull'applicazione della competenza tecnica. Noi sappiamo che spesso quello che noi facciamo non è legato solo a una competenza razionale, competenza tecnica. Io applico, io sono in grado di applicare quello che so razionalmente, solo se ne ho una possibilità emotiva. Le cure palliative lavorano proprio su questo, ed è fondamentale.
  Dal 2002 su Torax è comparsa una revisione di letteratura, parliamo di una rivista dei pneumologi, in cui si definisce che la morfina è alla base della terapia in caso di dispnea, anche non oncologica. Nonostante questa revisione di letteratura ancora oggi moltissimi colleghi pneumologi hanno paura di usare la morfina nel malato con broncopneumopatia cronica ostruttiva o con fibrosi polmonare. Se è comparsa una revisione di letteratura del 2002, che inequivocabilmente dice che la morfina deve essere usata come farmaco d'elezione, com'è possibile che ad oggi, 2018, passati quindici anni, ancora ci sia la paura dell'uso della morfina nel paziente con BPCO (broncopneumopatia cronica ostruttiva) e con fibrosi polmonare? Questo perché c'è una emotività che impedisce che una evidence-based venga applicata nella pratica.
  Le cure palliative, conoscendo questo e dovendo applicare non solo una terapia del dolore farmacologica, ma un approccio di presa in carica totale, un approccio empatico che richiede una competenza veramente specifica, lo sanno da tempo, ed è questo che trasmettono. Sanno anche che le cure palliative non si possono insegnare dopo una lettura di un documento scritto e vissuto da altri. È una competenza che va trasmessa, è una skill che va trasmessa, e può essere trasmessa solo da chi vive quotidianamente quell'esperienza, la sperimenta e lavora su questo.
  Ecco che le cure palliative parlano di multidimensionalità, di interprofessionalità e di transdisciplinarietà. Pag. 6
  Alla luce di quanto sopra riportato, EAPC e SICP sono a proporre quanto segue: perseguire l'obiettivo di creare una disciplina di cure palliative – attualmente la disciplina in cure palliative è riconosciuta solo ai fini concorsuali e fa riferimento alle equipollenze – e una scuola di specializzazione in cure palliative alla stregua di altri Paesi europei, proprio perché teniamo alla qualità della formazione universitaria in cure palliative; quindi perseguire l'obiettivo di creare delle cattedre di cure palliative.
  Il Terzo settore, che sostiene storicamente le cure palliative, che da sempre è sensibile allo sviluppo della formazione di qualità in cure palliative, potrebbe essere interessato al finanziamento di cattedre specifiche. Questo per garantire l'insegnamento in cure palliative da parte di chi da decenni fa ricerca in cure palliative e contestualmente lavora come professionista nelle cure palliative.
  In attesa, ed è l'ultimo punto, che gli obiettivi di cui ho parlato, scuola di specializzazione, cattedra e disciplina in cure palliative, trovino un pieno raggiungimento, bisogna introdurre la figura del professor of practice, un docente poco utilizzato nell'università italiana, ma ampiamente utilizzato nel mondo anglosassone e nei Paesi europei; in virtù della sua competenza professionale, magari non avendo compiti di ricerca, è chiamato a trasmettere queste competenze agli studenti della scuola di medicina.
  Le persone malate e i loro familiari hanno bisogno di cure palliative di qualità e quindi l'insegnamento di cure palliative deve essere di qualità. Non possiamo permetterci in questo momento di proporre un insegnamento che non sia vero, e questo perché dobbiamo evitare che, alla Gattopardo, tutto cambi perché tutto rimanga uguale.

  PRESIDENTE. Grazie, dottoressa Valenti.
  Do ora la parola al dottor Borrometi. Ha dieci minuti a disposizione.

  FABIO BORROMETI, coordinatore del gruppo di studio in Terapia del dolore e Cure palliative pediatriche della SARNePI. Buongiorno a tutti. Cercherò di essere sintetico. Intanto anche io vorrei ringraziare, a nome della Società di anestesia e rianimazione pediatrica, per questa opportunità che ci viene offerta e soprattutto per aver sollevato un tema che fino a oggi è rimasto abbastanza sconosciuto e in un angolino.
  Vorrei brevemente dire perché il dolore nel bambino è diverso e le cure palliative pediatriche sono diverse da quelle dell'adulto. Cerco di dirlo in maniera sempre sintetica e spero chiara. Il bambino è un organismo in via di evoluzione. Le sue esperienze dolorose rischiano di segnarlo in maniera determinante nel corso della sua vita e di condizionare le esperienze dolorose future. Questo vuol dire che più probabilmente svilupperà dolore cronico. Preservare un bambino da un'esperienza dolorosa significa investire sul presente, ma anche sul futuro della sua salute. Questa è una prima caratteristica.
  Per le cure palliative pediatriche non parliamo di terminalità, non parliamo di ultimo periodo della vita; parliamo di patologie inguaribili che, però, spesso, grazie anche ai progressi e alla tecnologia, possono consentire una sopravvivenza di mesi o di anni. Quindi, abbracciare un percorso lungo di vita e sostenere un organismo in via di evoluzione. Possiamo cominciare una cura a due anni e completarla, ahimè, a dieci anni, vedendo tutte le fasi dell'accrescimento. Questa è una peculiarità straordinaria, e si capisce anche perché le cure palliative pediatriche sottendano in maniera determinante anche un sostegno alla famiglia. Pensiamo ai fratellini, per esempio, molto spesso, anche loro coinvolti.
  Vorrei continuare cercando di seguire per punti gli obiettivi che sono suggeriti dalla finalità di questa audizione. Cercherò di essere sintetico e spero chiaro. Come si fa a verificare, in realtà, l'accesso alla terapia del dolore e capire qual è la situazione? La proposta che facciamo è che venga fatto una sorta di censimento, una fotografia dello stato dell'arte, chiedendo a tutti i centri pediatrici, alle pediatrie principali, per esempio quelle di terzo livello, di descrivere – auspicando una sincerità nella risposta – attraverso le direzioni sanitarie, qual è la condizione della misura del dolore in particolare al pronto soccorso e Pag. 7qual è il trattamento che i bambini ricevono in quella sede.
  Si stima che il 60 per cento dei bambini che arrivano al pronto soccorso abbiano, tra gli altri sintomi, o come unico sintomo, il dolore. Quali sono i farmaci realmente utilizzati? Noi abbiamo dato un taglio molto pratico. Associare l'idea dell'esperienza ospedaliera a un'esperienza di dolore è quello che ci condiziona molto.
  I bambini hanno paura, le famiglie pure. Si dovrebbe intervenire anche per la punturina, il prelievo, il punto di sutura e così via in maniera determinante in modo da cancellare questa esperienza e quindi inquadrare i pazienti e dare sostegno, se è possibile, anche con terapie non farmacologiche, che nei bambini sono straordinariamente efficaci, e chiedersi qual è la misura del dolore dei bambini nei reparti a maggiore prevalenza di esperienza dolorosa ed infine auspicare che ci sia perlomeno un medico, un infermiere, uno psicologo per i grossi centri pediatrici che sia di riferimento per tutti, anche dal punto di vista culturale oltre che pratico.
  Infine, bisogna valutare qual è il trattamento e l'assistenza per il dolore dei pazienti oncologici o con gravi patologie che si associano al dolore. Prima di tutto bisogna conoscere lo stato dell'arte e poi la misura del dolore. Anche qui vorrei coinvolgervi di più, spiegandovi che senza una misura il dolore non esiste, perché non viene riportato nelle cartelle e finisce per essere trasparente. Magari una persona si ricovera con un dolore e poi nessuno sa com'è stata la sua evoluzione. Poi, in maniera analoga a quella che è la misura della temperatura, qualunque intervento che voglia curare il dolore deve avere una riprova della sua efficacia: così come si misura la temperatura dopo la somministrazione di un antipiretico, così dovrebbe essere fatto sempre.
  La misura del dolore, che può sembrare un po’ un aspetto accessorio della cura stessa, invece, è determinante, anche perché, ancora una volta, il bambino è diverso. La capacità di esprimere il dolore, che è un'esperienza soggettiva, come capite bene, per un bambino di un anno, due o tre, è molto difficile. Per cui bisogna utilizzare delle scale, dei sistemi indiretti che ci permettano di dedurre qual è la sua esperienza dolorosa. Nell'adulto si usa, di norma, una scala numerica semplice, da zero a dieci. Nel bambino bisogna prendere confidenza. Quindi, bisogna promuovere la diffusione e la cultura di scale diverse in ragione del tipo di età.
  Permettetemi, esiste una certa fascia di popolazione, maggiormente rappresentata nell'ambito delle cure palliative, di pazienti con deficit cognitivo. Questi bambini paradossalmente hanno esperienze dolorose quanto e più dei loro coetanei, ma per la loro difficoltà di comunicazione rimangono inespresse. Esistono delle scale per misurare la capacità di dolore anche in questi bambini, che altrimenti resterebbero doppiamente penalizzati. Anche questo va promosso: la cultura della misura per tutti loro.
  Come si fa a contrastare la carenza dei protocolli? Intanto, bisogna diffondere quelli che ci sono – e non sono pochi – nazionali o internazionali, promossi e redatti da società scientifiche come la nostra e numerose altre. Quindi, c'è materia su cui lavorare. L'Organizzazione mondiale della sanità recentemente ha licenziato (nel 2012, è relativamente recente), tradotti in italiano, i riferimenti della terapia del dolore cronico nel bambino, con tutte le informazioni relative. Ricordiamo che è stata un'iniziativa del Ministero della salute di alcuni anni fa quella di preparare un libro sul dolore nel bambino, che è stato distribuito gratuitamente a tutti i pediatri ed è scaricabile dal sito.
  Quindi, le informazioni le abbiamo. Cosa si deve fare nella pratica? Penso di parlare anche per la mia esperienza. Molte lezioni frontali a un grande numero di persone probabilmente non danno quello che noi vogliamo. Nei protocolli bisogna raccogliere piccoli gruppi, possibilmente con professionalità diverse, e poi suggerire, proporre di produrre un documento da cui fare una linea guida operativa condivisa. In realtà, dove falliscono le linee guida? Quando vengono percepite come cadute dall'alto e non condivise. Basta che uno del Pag. 8gruppo – perché si tratta di un lavoro di équipe – sia in qualche modo poco coinvolto perché le linee guida falliscano di fatto. E poi occorre prevedere un controllo a distanza di sei mesi o un anno per poter fare un bilancio. Se è vero che viene fatta la misura del dolore, basta misurare il dolore e vedere la prevalenza che aveva prima dell'introduzione di un protocollo rispetto al momento successivo. Questo sistema può essere efficace e può diventare anche una sfida, una competizione tra i diversi reparti. Bisogna coinvolgere la gente. Questo tema va vissuto.
  Passo al quarto punto: l'uso degli oppioidi. Se n'è già parlato. Esiste l'oppiofobia, che è diffusa – attenzione – tra i medici, tutti, come abbiamo detto. È diffusa un po’ di più tra i pediatri, che hanno meno dimestichezza con questi farmaci perché nella loro vita professionale hanno a che fare meno, probabilmente, per i motivi che immaginate, con pazienti con gravi sindromi dolorose. È molto diffusa anche nella popolazione. Voglio dire che può anche verificarsi che il medico prescriva un oppioide e la famiglia lo rifiuti. Non possiamo negare che la parola «morfina» in qualche modo inquieta tutti, anche per gli aspetti medico-legali. Esiste un ricettario e così via. Questo scoraggia tantissimo.
  Innanzitutto, bisogna prendere confidenza con questi farmaci e poi bisogna produrre documenti che confermino che non esiste un rischio di salute, un rischio di depressione respiratoria, che è quella più temuta di tutti. Non ci sono questi rischi. Io non ho conoscenze, non ho mai sentito nessuno che mi abbia riportato che un farmaco del genere, utilizzato nelle dosi giuste, abbia dato un effetto negativo – prima se ne parlava – eppure il pregiudizio è ciò che va contrastato. Sembra un modo di dire, ma è proprio così. Bisogna, quindi, superare questo e cancellare anche l'idea, perché non esiste nessuno studio di letteratura che lo confermi, che un paziente che ha ricevuto degli oppioidi per finalità terapeutiche sviluppi per definizione tossicodipendenza se non ne ha altre caratteristiche. Bisogna innanzitutto combattere questo, fare degli incontri e verificare, attraverso lo storico del consumo degli oppioidi, se si è fatto un passo avanti. È una lotta di cultura – questo mi sembra sia stato detto – che passa attraverso i livelli, e fra un attimo parleremo anche di quelli accademici, ma che deve crescere dal basso.
  È mia opinione che noi vinceremo questa battaglia quando saranno i genitori dei bambini a sollecitare la somministrazione, la prescrizione di analgesici, oltre che il medico stesso a proporli. Dobbiamo incontrarci a questo livello.
  Le proposte, quindi, e arrivo all'ultimo punto, quali sono? Innanzitutto eventi rivolti alla popolazione, la lotta al dolore inutile, spiegando che il dolore si può vincere, che bisogna usare in maniera appropriata i farmaci. In Italia c'è un uso sproporzionato di antinfiammatori con finalità analgesica. Questo è il nostro messaggio e, debbo dire, anche la nostra esperienza per alcune iniziative che abbiamo fatto. Bisogna spiegare che combattere il dolore nel bambino è importante molto più che nell'adulto, perché rischiamo – come ho detto prima – di segnare la sua vita.
  Questo vuol dire anche che, per esempio, negli studi pediatrici o negli ospedali potrebbe esserci un'informativa sulla legge n. 38, che è esaustiva da questo punto di vista. Come si dice, la norma ce l'abbiamo, basterebbe applicarla. Bisognerebbe anche diffondere il testo della legge, che è rivolta al cittadino. È bene che loro sappiano che cosa possiamo fare, aggiungendo anche quali sono i riferimenti pratici, i recapiti dei centri di terapia del dolore pediatrico più vicini o quali sono le figure in quell'ospedale – come spiegavo prima – a cui rivolgersi. Offriamo al cittadino questa opportunità.
  Si potrebbe preparare una campagna. Abbiamo proposto anche uno slogan, che abbiamo inserito qui, nella nostra memoria. Un bambino senza dolore non è solo un bambino più felice, ma è anche un bambino che guarisce prima. Io lancio questa proposta a nome della SARNePI. Ci sono state alcune iniziative. Lo abbiamo fatto in occasione della Giornata del sollievo dalla sofferenza che si celebra nel mese di maggio. Pag. 9 Lo abbiamo fatto nelle scuole. Abbiamo delle esperienze in tal senso.
  Se guidati dai professori, dagli insegnanti, e condividendo questi percorsi con i genitori, che sono molto sensibili su temi delicati come quelli del dolore e delle cure palliative, possiamo dare un messaggio chiaro. Noi che lavoriamo con i bambini lo sappiamo. Io dico che sono più intelligenti di noi e riescono a cogliere il giusto di questa informazione. Inoltre, un bambino che torna a casa con una maglietta, un cappellino, un dépliant eccetera, di fatto informa anche i genitori, i fratelli e tutti gli altri. Quindi, un intervento nelle scuole pensiamo sia molto importante.
  Ritorno, a questo punto, a un tema già affrontato: l'insegnamento nel corso di laurea e l'insegnamento nei corsi di specializzazione, perlomeno nelle specializzazioni in pediatria, in anestesia e rianimazione. Inoltre, bisogna promuovere insegnamenti che prevedano l'obbligo di frequenza in un hospice pediatrico. Bisogna toccare con mano. Non basta chiacchierarne o leggere libri.
  Voglio, inoltre, ricordare – e mi avvio veramente alla conclusione – che in Italia esistono solo tre sedi di master in cure palliative pediatriche: a Padova, a Firenze e a Bologna. Un altro lo abbiamo fatto noi a Napoli sugli aspetti biopsicosociali. È poca cosa, però, se pensiamo all'importanza di questa materia e a tutta la realtà sanitaria nazionale. Bisogna, quindi, promuovere master in cure palliative pediatriche e terapia del dolore del bambino di primo e secondo livello ed eventi formativi obbligatori, organizzati dalle aziende sanitarie, rivolti a medici.
  Attenzione, è necessario cancellare, mai come per le cure palliative pediatriche, la prospettiva medicocentrica. Bisogna coinvolgere, quindi, anche infermieri, psicologi, farmacisti, assistenti sociali, tutte le figure che ruotano intorno a un bambino e spiegare, negli aspetti clinico-assistenziali, che non abbiamo bisogno di curare il dolore solamente tramite un farmaco, ma che abbiamo bisogno di un sostegno psicologico rivolto al bambino per una visione olistica del suo benessere. Grazie per l'attenzione.

  PRESIDENTE. Grazie a lei, dottor Borrometi.
  Chiedo se vi siano domande da parte dei colleghi deputati.

  GIORGIO TRIZZINO. Ringrazio i nostri ospiti. Vorrei spendere due parole veloci anche per fare una precisazione. La dottoressa Valenti ha diretto uno degli hospice più importanti in Italia, l’hospice di Bentivoglio. Ci conosciamo da tanti anni e lavoriamo insieme nel settore delle cure palliative. È una persona che veramente ha raccontato con passione il suo lavoro, il suo impegno nel contenitore hospice, facendolo diventare non soltanto un contenitore statico, ma fortemente dinamico, aperto soprattutto alla formazione.
  Arrivo alla domanda. Lei ritiene che oggi in Italia questi contenitori residenziali, di cui Bentivoglio non è l'unico, per fortuna, ma anche i contenitori domiciliari riescano e possano esprimere le competenze necessarie – indispensabili, direi, a questo punto – per supportare il ruolo dell'università, che non c'è, che non è nelle condizioni, oggi, di erogare formazione, se non a livelli molto contenuti? Riescono a surrogare, a supplire, secondo lei, per quello che conosce della dimensione italiana, in questa fase a metà tra quello che avverrà e quello che c'è adesso? Penso soprattutto alle cure palliative pediatriche, dove la carenza è ancora più evidente. I pediatri non sono ancora nelle condizioni di fare questo balzo culturale verso le cure palliative.
  Al collega, invece, voglio porre una domanda più diretta. Secondo lei, la misura del dolore effettivamente, oggi, nei nostri ospedali pediatrici, viene effettuata correttamente, con le competenze necessarie sia nei pronto soccorsi che nei reparti di degenza? Noi parliamo sempre della formazione medica, ma per quanto riguarda gli infermieri, che sono l'asse portante delle cure palliative, lo sono sempre stati storicamente in tutto il mondo, anche nel nostro Paese, a che punto siamo sulla crescita formativa e sull'offerta formativa specifica nelle cure palliative?
  Un'ultima domanda la rivolgo alla dottoressa Valenti. È un grande risultato quello di essere riusciti ad avere i due crediti Pag. 10formativi universitari, ma io mi pongo una domanda: perché nelle università non vengono attivate le ADO (attività didattiche opzionali), ossia quelle materie complementari, forse più facilmente autorizzabili dalle singole università? Perché non vengono favorite queste forme di insegnamenti complementari, che addirittura comportano tre crediti formativi durante la laurea? Lei è al corrente di questa ipotesi?
  Grazie ancora per il lavoro che svolgete, veramente. Siete grandi.

  PAOLO SIANI. Ringrazio moltissimo i colleghi per le notizie che hanno comunicato oggi, che rispondono molto a quello che noi ci aspettavamo di sentire dai nostri auditi.
  Vorrei rivolgere una domanda alla dottoressa Valenti. Dovremmo capire come strutturare questa formazione, che tutti considerano decisiva. Io vi riporto un'esperienza fatta a Napoli nell'ambito della formazione di uno specializzando in pediatria del primo anno affinché formasse i suoi colleghi nel corso dei suoi cinque anni e che il tutto terminasse con la sua tesi di specializzazione. È un sistema empirico, però avevamo bisogno di far passare l'idea che l'università dovesse occuparsi di tale questione. Dal momento che non si accettava che se ne occupasse un medico formato all'esterno, abbiamo pensato di farlo fare agli specializzandi, però formati con il corso della professoressa Benini. Questa, quindi, potrebbe essere un'idea.
  Il secondo punto riguarda gli infermieri. Quando la mia caposala ha capito che il dolore era fondamentale la formazione è terminata là. Lo sa fare lei, e lo fa lei. È lei che ci dice che bisogna fare la morfina, oppure «dobbiamo far fare questa cosa al bambino». Quando l'infermiera capisce che questo è il suo lavoro ed è una parte importantissima del suo lavoro, perché non si tratta solo del dolore fisico, ma anche di quello che c'è dietro (l'infermiera, in genere, è anche una mamma), entra in empatia con la mamma, quindi tutto è più semplice. Il problema è farlo capire all'infermiera. Il problema è far capire all'infermiera che il tempo che lei dedica al dolore, che è un tempo da lei ritenuto, a oggi, perso, è un tempo guadagnato. Risparmierà tempo per tutto quello che farà a quel bambino. Il vero cambiamento negli ospedali, quindi, è formare gli infermieri, perché sono coloro i quali trascinano il cambiamento radicale.
  Per quanto riguarda la morfina sono d'accordissimo con voi, però la morfina ha in più l'idea che stiamo facendo qualcosa che creerà dipendenza nel bambino. Quindi, c'è una resistenza in più. Tutte le linee guida, però, in tutto il mondo, per qualsiasi patologia, se non vengono calate nella realtà restano linee guida. Noi non riusciamo a curare la bronchiolite senza il cortisone. Tutto il mondo sostiene sia inutile. Si figuri la morfina.
  Sono molto interessanti, invece, le tre proposte di Fabio Borrometi. Voglio porre una domanda. Andiamo, per esempio, a misurare il consumo solo di oppioidi negli ospedali? L'ospedale Gaslini o l'ospedale Santobono nel 2015 quanti oppiacei ha consumato? E nel 2018? C'è solo quello o un altro marker di farmaco che ci può aiutare a capire se è applicata o no la terapia del dolore?
  Vorrei chiedere un'ultima cosa. Credo sia molto importante informare la popolazione che si può non avere dolore, ma non solo il dolore della malattia, anche il dolore per mettere due punti se ci si è rotti la testa e quindi si ha il diritto di non avere dolore.
  Ricordo quando mi fratturai il polso, frattura ridotta, da collega a collega, sveglio. Mi ricordo molto bene il dolore che ho sentito, nel mio ospedale. Se la mamma sa che c'è un sistema per non avere dolore, è lei che lo richiede. Non basta, forse, Fabio, mettere questa informazione negli ospedali questo. Bisognerebbe metterla nelle metropolitane, sui treni, nei pullman, farla apparire in televisione, far capire che esistono delle cose semplici, anche senza presidi medici. Gonfiare il palloncino mentre si fa un prelievo può essere una svolta per far sì che la legge n. 38 non rimanga una legge senza essere calata nella realtà.
  Mi pare di aver detto tutto. Ci tengo molto a capire come strutturare la formazione, perché capisco che entrare nel mondo Pag. 11universitario a piedi uniti è difficile e rischiamo di romperci tutti e due i piedi.

  LUCA RIZZO NERVO. Anche io vorrei ringraziare la dottoressa Valenti e il dottor Borrometi per i loro interventi e le loro relazioni. Credo che, senza nulla togliere agli auditi precedenti, con questa audizione siamo entrati ancor di più negli obiettivi che ci eravamo dati con questa richiesta di approfondimento tramite audizioni, che erano proprio quelli di capire, come veniva detto un attimo fa anche dall'onorevole Siani, come una legge importante possa non rimanere semplicemente una declaratoria, ma possa via via strutturarsi nella quotidianità dei nostri ospedali, dei nostri reparti e ancor più, e mi pare uscito in maniera evidente oggi, in una cultura diffusa e di cui la popolazione deve essere pienamente partecipe, che ancora non è pienamente acquisita.
  Ho trovato fondamentale, tra i tanti utili richiami della dottoressa Valenti, il quello al cambio di paradigma da una medicina con un approccio, al di là anche qui del dichiarato, nella prassi, ancora troppo spesso paternalistico, che fa dell'affidamento acritico la premessa, eventualmente, a un'alleanza terapeutica che, però, a quel punto, si fonda su presupposti che ne limitano l'efficacia, a una medicina condivisa. Il richiamo che pare talvolta un richiamo ideale e generale, a un approccio multifattoriale, a non considerare l'organo che vive una patologia, ma a prendere in considerazione la persona nella sua dimensione multifattoriale, deve, invece, diventare una prassi sempre più condivisa.
  In questo, e mi è parso molto evidente, si è evidenziato anche un gap culturale della stessa scienza medica e degli stessi percorsi universitari che ancora deve essere recuperato, come il pregiudizio sugli oppioidi, che veniva ricordato in ultimo dal dottor Borrometi, e il gap fra le evidenze scientifiche ormai largamente consolidate e la prassi. Tra l'altro, la prudenza, il pregiudizio, la paura e a volte anche la medicina difensiva intorno al tema del dolore parte finanche prima della nascita dei bambini. Nella partoanalgesia già ci sono titubanze, a volte resistenze o comunque un racconto che cerca di segnalare come un certo grado di dolore sia un fatto positivo.
  Vengo alle domande. La formazione è un elemento decisivo. C'è un gap molto evidente anche su questo. In generale, se penso al dolore, se penso al tema della morte, nei percorsi universitari uno studente rischia di non trovarselo mai di fronte, se non come l'esito rispetto al quale il suo compito è finito. Il prima, il come ci si arriva, il come si gestisce il dolore «verso» è un qualcosa che non attraversa quasi mai l'esperienza formativa di uno studente universitario di Medicina e di uno specializzando.
  Anche a me interessava – è già stato detto – un ulteriore approfondimento su come strutturare la formazione, immaginando scuole di specializzazione specifiche nelle cure palliative. È di questi giorni una discussione sull'accesso alla formazione universitaria dove più voci ci hanno detto che il tema non è l'apertura indiscriminata della possibilità di entrare a Medicina, ma aumentare le borse di specializzazione e quindi superare l'imbuto formativo fra la prima formazione di laurea e la specializzazione.
  Nell'affrontare questo tema anche l'individuazione di nuovi ambiti, come l'ambito delle cure palliative, può essere assolutamente un modo per tradurre, come stiamo per fare, in un impegno l'approfondimento che stiamo facendo.
  L'altro tema – mi ha anticipato il collega Siani e mi associo a quanto ha detto – è il ruolo e il percorso formativo delle professioni sanitarie.

  NICOLA PROVENZA. Cercherò di essere brevissimo, anche perché penso che le audizioni di oggi abbiano sollecitato molto le nostre sensibilità, al di là della nostra attività istituzionale e di Commissione. Intanto sottolineo l'uso delle parole, e di questo vi ringrazio, ringrazio soprattutto la dottoressa Valenti, perché ha messo al centro due parole fondamentali, che sono curare la persona e non la malattia, invitandoci a conservare e a far risuonare anche all'interno di queste aule delle parole importanti nella nostra quotidianità. Pag. 12
  Riguardo alla formazione, l'accenno al discorso che molti formatori possono essere anche al di fuori del mondo universitario, possono portare il proprio vissuto esperienziale, mi sembra un'idea non solo di buonsenso, ma di efficacia. Vengo, però, a un tema che il collega che mi ha preceduto ha in qualche modo toccato e che riguarda l'accesso alla facoltà di Medicina.
  Quando voi parlate di percorsi universitari, della necessità di inserire nei percorsi formativi determinati passaggi vi riferite, ovviamente, alla vostra attività. Immagino, e voi ne siete sicuramente consapevoli, che questo avviene anche per altre specialità. C'è un'istanza molto diffusa rispetto a riformare questi percorsi. Per esempio, ne ho conoscenza, c'è la necessità di formare i nostri studenti anche relativamente alla comunicazione, a come si comunica con il paziente. Ci sono dei dati sconvolgenti da questo punto di vista, nel senso che non c'è questo insegnamento se non poche ore in pochissimi atenei.
  Vengo al punto. Siamo ancora convinti che i test che possono dare accesso alla facoltà di Medicina non taglino fuori determinate sensibilità, che sono quelle che possono portare molti giovani ad avvicinarsi a questa professione e portare un contributo in linea con quello che è stato il vostro messaggio di oggi? Vi pregherei di dare un vostro contributo anche su questa sollecitazione.

  PRESIDENTE. Do la parola alla dottoressa Valenti e al dottor Borrometi per le repliche.

  DANILA VALENTI, membro del Board of Directors dell'European Association for Palliative Care (EAPC). Grazie delle domande, perché colgono il core del problema. Nella pagina formato A4 che ho lasciato come memoria mi sono concentrata su alcuni aspetti, lasciando agli allegati l'importanza dei temi che avete toccato.
  Per noi – per rispondere all'onorevole Trizzino – la formazione sul campo è una formazione fondamentale. Il mondo professionale può supportare la formazione universitaria attraverso le strutture domiciliari, gli hospice? Ci siamo posti questi problemi.
  Consideriamo il numero degli studenti. Se pensiamo solo a Bologna, erano 300 nell'anno accademico precedente e non sappiamo quanti saranno il prossimo anno. Differenziamo la formazione tra formazione nel corso di laurea magistrale, quindi nei sei anni di Medicina per intenderci, e formazione post-graduate, formazione post-laurea, che in questo momento è impostata sui master, ma che noi chiediamo possa essere individuata in un corso di specializzazione specifica in cure palliative. Per gli studenti del corso di Medicina magistrale nei sei anni, considerato il numero dei pazienti, è fondamentale. Ecco il perché del CFU-F non tirocinante, ma professionalizzante, attraverso delle modalità seminariali frontali, perché nelle nostre strutture, soprattutto in quelle di cure palliative pediatriche, ovviamente non possiamo fare fronte al numero degli studenti dei sei anni di Medicina, se non, cosa che non vogliamo fare, tradendo i princìpi stessi che noi proponiamo. Quando facciamo formazione sul campo, quando facciamo consulenza nei reparti o facciamo una visita ambulatoriale di cure palliative precoci al massimo vicino a noi professionisti abbiamo uno studente, un professionista che si sta formando, e un componente di un'altra professione, che normalmente è l'infermiere. Al massimo sono in tre.
  Noi non possiamo tradire l'attenzione, la delicatezza, il rapporto medico-persona, équipe-persona, che è molto delicato e quindi non può richiedere il «codazzo», per intenderci. Io non posso affrontare temi così delicati come le problematiche esistenziali di una persona, che fanno parte della nostra attività quotidiana, con dieci persone che mi seguono. Io tradisco in questo modo il principio stesso che sto cercando di trasmettere, e non ce lo possiamo permettere, perché sarebbe una falsa formazione che tradisce i princìpi stessi che vogliamo formare.
  Per quel che riguarda i sei anni del corso di laurea magistrale, noi proponiamo proprio per questo una formazione frontale Pag. 13 nell'ambito del CFU-F, che deve, però, avere la capacità di sollecitare quelle domande che lo studente deve porsi. Chi è in grado di suscitare queste domande in maniera profonda è chi questa attività professionale la svolge.
  In questo momento, per loro stessa ammissione, il mondo universitario, i docenti universitari, non avendo mai fatto cure palliative... Ho utilizzato una pagina delle due pagine che avevo a disposizione per citare quello che l'università stessa ammette, ovvero di non avere la competenza, e non può averla nemmeno per trasmetterla in otto ore di formazione frontale, che sono le ore di formazione frontale che il CFU di 25 ore in qualche modo permette. Ecco perché è fondamentale che sia richiesto, per procedimento normativo, che venga effettuato dal mondo professionale, che ha la possibilità di trasmettere questi contenuti e suscitare quella curiosità che porterà poi lo studente di Medicina a voler approfondire in un futuro.
  D'altra parte, sappiamo che la formazione universitaria in questo momento non dà più contenuti, ma dà una modalità di apprendimento di contenuti che sono talmente imponenti da non poter essere trasmessi come nozioni. La formazione di queste otto ore di CFU nei sei anni di Medicina non può essere nozionistica, ma deve essere di trasmissione di una curiosità, di una competenza che deve essere acquisita, ed è per questo che ci vuole il mondo professionale.
  Sicuramente la formazione nell'ADO è uno strumento, ma proprio per questo è opportuno che ci sia la possibilità, da parte degli studenti, di avere chi li stimola nella ricerca di questa formazione aggiuntiva, questi ADO. Se non c'è lo stimolo, la curiosità a questo tema, la volontà di affrontare un tema che mina il vecchio concetto di medico, per cui il medico era formato per guarire, non si ottiene nulla.
  L'onorevole Rizzo Nervo diceva che non si parla di morte, non si parla di comunicazione. Nella nostra formazione universitaria la comunicazione è un insegnamento facoltativo in cui non si parla mai di morte, perché il medico è formato per guarire. Nel momento stesso in cui il medico non sarà in grado di guarire e noi avremo un mondo di persone con patologie croniche avremo medici frustrati e non capaci di affrontare in maniera adeguata, dal punto di vista tecnico e dal punto di vista emotivo, il compito che sono chiamati a svolgere. Ecco perché la formazione in toto deve cambiare. Le cure palliative sono un'occasione per poterla veramente cambiare da questo punto di vista, ma gli studenti devono essere stimolati con insegnamenti derivanti da chi svolge queste attività.
  Non so se sto rispondendo a tutto. Quale formazione? Nei core curricula che abbiamo allegato nella memoria di due pagine, che abbiamo lasciato, noi abbiamo formato, come società scientifiche, sette core competence per professionisti. Abbiamo fatto il core competence del medico palliativista, dell'infermiere, dell'assistente sociale, dell'OSS (operatore socio sanitario), del fisioterapista, del medico di medicina generale in cure palliative, dividendo la formazione in tre livelli. Il primo è un livello base. Il livello di cure palliative di base è una formazione che tutto il mondo sanitario deve ricevere, che richiede certe competenze. Abbiamo, poi, un secondo livello, ossia il livello specialistico. Il core del livello specialistico deve essere posseduto da chi svolge questa attività di cure palliative come specialista. Abbiamo, poi, un terzo livello, ossia il livello dirigenziale, il livello formativo. È suddiviso, quindi, in tre livelli con delle competenze specifiche – i curricula sono strutturati, abbiamo dato proprio alcuni suggerimenti – che permettono di costruire l'architettura dei diversi elementi formativi.
  Nel primo core curriculum che abbiamo fatto insieme avevamo messo come condizione fondamentale che i master, che si stavano strutturando da lì a breve, fossero multiprofessionali. «Multiprofessionalità» vuol dire che io, medico, nella stessa aula sto con l'infermiere, sto con lo psicologo, sto con l'assistente sociale.
  Io ho frequentato un master in management sanitario. Il master in management sanitario che forma i direttori generali è multiprofessionale. Io ero in classe con Pag. 14colleghi infermieri, colleghi psicologi, colleghe assistenti sociali. Se un master in management sanitario che forma i direttori generali può essere multiprofessionale, un master in cure palliative che vedono nella multiprofessionalità la base del proprio operare – come diceva il collega – è possibile che non sia stato costruito multiprofessionale e ci sia stato detto che non è possibile? È possibile. Il fatto è che a volte non c'è la cultura nell'università di costruire veramente in maniera multiprofessionale la risposta che viene data. È su questo che abbiamo bisogno di un aiuto da parte della politica, per far passare alcuni princìpi di base che permetteranno la sanità del futuro, in cui veramente le figure professionali lavorano insieme perché hanno da subito iniziato ad imparare insieme.
  Avevamo proposto alcuni master cosiddetti «ad anfora», in cui ci sono delle parti comuni e delle parti in cui diversi professionisti possono approfondire alcuni temi più specificamente medici o più specificamente assistenziali, tenuto conto, però, per rispondere all'onorevole Siani, che per quello che riguarda la terapia del dolore è fondamentale che l'infermiere – come ha detto perfettamente – sia competente. Pensate che nel mondo anglosassone, in Inghilterra, in Irlanda, gli infermieri hanno diversi livelli di formazione professionale, l'ultimo dei quali prevede che l'infermiere prescriva la morfina. È chiaro che l'Irlanda e l'Inghilterra hanno una cultura di cure palliative, ma anche una scuola di specializzazione in cure palliative, una disciplina in cure palliative, che ha permesso che la cultura di base in qualche modo aumentasse.
  Tutto questo può fare veramente la differenza non per noi, ma per i bambini, che veramente vivono il dolore, per i pazienti e per le famiglie, che sono le persone con cui lavoriamo tutti i giorni. Scusate per il tempo che ho preso.

  FABIO BORROMETI, coordinatore del gruppo di studio in Terapia del dolore e Cure palliative pediatriche della SARNePI. Cerco di rispondere punto per punto, magari sovrapponendo in alcuni passaggi le risposte. Iniziamo dalla misura del dolore...

  PRESIDENTE. Specifico solamente che è iniziata l'Aula e devono ancora dare i venti minuti. Se è possibile, le chiedo di utilizzare meno di venti minuti.

  FABIO BORROMETI, coordinatore del gruppo di studio in Terapia del dolore e Cure palliative pediatriche della SARNePI. Farò molto presto. Quello della misura del dolore è un problema trasversale che si presenta anche in altri Paesi. Il paradosso è che, siccome si parte dall'assunto «si vede se un bambino ha dolore, quindi perché lo devo misurare» oppure «si vede che non ha dolore, è inutile misurarlo», come a volte si misura la febbre a bambini in apparente benessere, bisogna capire che bisogna farlo.
  Siccome c'è uno strumento, che è la legge, che prevede in maniera esplicita che la misura del dolore venga segnata in cartella, io credo che purtroppo, in maniera bonaria, con delle ammonizioni, se non con delle punizioni, si debba fare una ricerca a campione e dire «gentili signori, questa è la legge, nelle cartelle non c'è, ne prendiamo atto» e così via. Magari si potrebbe prevedere un sistema premiante, non so. Comunque, bisogna focalizzare l'attenzione e tirare le orecchie a chi non lo fa. Spontaneamente non ci arriveremo, per i motivi che ho detto, ma adesso non vorrei dilungarmi molto.
  Comunque, le figure centrali – qui comincio a riallacciarmi ai discorsi della collega – sono gli infermieri, non solo perché probabilmente rientra nelle loro mansioni, nella loro attività (non vorrei restringere il discorso a un mansionario di vecchia memoria), ma perché sono quelli che hanno più a lungo relazione con il bambino e con i genitori, che sono parte importante con le loro testimonianze. Quindi, vanno formati e va promossa un'azione in questa direzione.
  Per quanto riguarda l'esperienza del dolore, un altro pregiudizio inevitabile nel corso dei ricoveri in ospedale è che andare al pronto soccorso e sentire un po’ di dolore è forse nelle memorie di tutti noi quando siamo stati bambini, quando ci raccontavano – lo abbiamo vissuto – il punticino, la farfallina, il prelievo, la siringa. Pag. 15 Quindi, sono convinto anch'io che la prima tappa sia combattere il dolore del pronto soccorso e cancellare questo pregiudizio, questa idea che sia inevitabile.
  Per quanto riguarda gli indicatori sull'utilizzo dei farmaci analgesici, è molto più semplice per gli oppioidi, sicuramente, e meno per altri farmaci analgesici, ma si possono scegliere degli indicatori. Si concorda prima su come pensiamo di volerlo misurare nella nostra realtà, il consumo storico di oppioidi e anche di altri farmaci analgesici. Poi si può anche lavorare sulla misura del dolore e sul percepito della famiglia e del paziente rispetto al trattamento del dolore. È un sistema indiretto, che però secondo me può rappresentare un'opportunità di riflessione, perché se noi interveniamo sul dolore e ci riteniamo soddisfatti, ma non lo è il paziente che lamenta quel dolore, o viene percepito come scarsa attenzione, comunque lo considererei un insuccesso.
  Infine, fra cure palliative pediatriche e formazione, voglio dire che le cure palliative in genere e quelle pediatriche coprono una zona grigia dell'assistenza. Ben detto, noi non abbiamo imparato a confrontarci con la morte se non per contrastarla e promuovere la vita (peraltro, io sono un rianimatore). Occorre riuscire a fare cultura, capire che c'è tanto da fare, come diciamo noi, quando non c'è più nulla da fare, e lavorare in questa direzione importante, vincendo il pregiudizio di questo corto circuito per cui le cure palliative vengono apparentate in maniera ingiustificata e inspiegabile all'eutanasia o a percorsi di altra natura. Quindi, dobbiamo ridare loro la dimensione corretta e promuoverla.
  Devo però precisare, scusatemi, che non solo ci sono pochi master in cure palliative pediatriche, ma di fatto ci sono pochissimi hospice pediatrici. In Italia in questo momento ci sono quattro hospice pediatrici: uno a Napoli, uno a Padova, uno a Firenze, uno a Torino, e inaugurerà a breve Genova. In totale venti posti letto nel territorio nazionale: avete idea cosa vuol dire? È scandaloso.
  Per quanto riguarda l'applicazione della legge esiste molto deliberato e poco fatto. Bisognerebbe intervenire su questo, perché la formazione ha validità, mai come in questo caso, se ci sono due punti, che sono stati ben detti ma voglio riconfermarli. Innanzitutto la multiprofessionalità: le cure palliative pediatriche non si possono fare da soli, non esiste; quale che sia la disciplina, se non si lavora tutti insieme e se non vi sono, come recita peraltro la legge e come indica l'Organizzazione mondiale della sanità, il sostegno attivo al bambino e alla famiglia, il discorso non funziona. Non si può pensare di affrontare temi e momenti della vita così delicati del bambino e della famiglia senza avere il supporto di uno psicologo, senza poter lavorare insieme a tutti i sostegni sociosanitari, e mi potrei dilungare su questo. Quindi cosa occorre? La lezione frontale, molto bene. Lo abbiamo fatto – io partecipo come docente a numerosi master – ma dobbiamo anche dare la possibilità di praticare, di avere un'esperienza concreta, e in questo momento gli hospice presenti sono pochi.
  Questo la dice lunga sulla difficoltà che abbiamo. Bisogna anche sforzarsi – scusate, ritorno al tema precedente, ho preso degli appunti – per riflettere su che cos'è la qualità della vita, che non è la salute come assenza di malattia, ma una considerazione di benessere rispetto alle proprie condizioni in quel momento, nell'assenza di dolore o di altri sintomi, la capacità di relazione e la possibilità di vivere una vita più semplice e normale. Questo oggi è considerato salute e qualità della vita, non solo l'assenza di malattia. Anche su questo dico che dovremmo crescere tutti.
  Per quanto riguarda i test di ammissione, non me la sento di sbilanciarmi. Non so dirvi – non ho questa esperienza – chi tagliano fuori. Probabilmente tagliano fuori persone con una maggiore sensibilità su questi temi? Io questo non posso escluderlo, però dico che saper comunicare è un'arte difficile. Diversi studi hanno dimostrato che fino all'85 per cento di quello che diciamo ai nostri pazienti e ai genitori passa attraverso il non verbale. Dobbiamo imparare a usare le parole che non siano il Pag. 16«medichese» e su questo già ci sarebbe molto da dire. Ci caschiamo sempre con l'uso del termine tecnico che aumenta la distanza, oltre la scarsa comprensione.
  Ancora, bisogna imparare, attraverso corsi specifici, a dare le cattive notizie e a comunicare. Ma permettetemi l'analogia con l'insegnamento che riceviamo nelle case. Dobbiamo andare in un ambiente in cui questa prassi è consolidata. Per dirla in maniera un po’ semplice, deve farlo chi è più anziano di me; io devo imparare nella prassi come ci si rivolge e come si ha rispetto. Non so se sono chiaro: queste cose si apprendono vivendole, difficilmente in maniera frontale, anche con corsi di due o tre giorni – ho fatto anche quello – con la simulazione, il role playing, tutto quello che volete. Devo tornare in un ambiente dove viene data la dignità a chi ci ascolta ed essere sicuro che la nostra comunicazione è stata efficace, ancorché magari dolorosa, e che abbiamo avuto rispetto per le emozioni degli altri e che abbiamo trasmesso loro un minimo – un minimo, per l'amor di Dio, siamo professionisti – di empatia rispetto a quello che comunichiamo. Una comunicazione fredda, anche usando le parole giuste, rappresenta sempre un fallimento. Spero di aver risposto a tutto.

  PRESIDENTE. Vi ringrazio per il vostro contributo a nome di tutta la Commissione e vi auguro una buona giornata.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 10.40.