FRONTESPIZIO

RELAZIONE

PROGETTO DI LEGGE
                        Articolo 1
                        Articolo 2
                        Articolo 3
                        Articolo 4
                        Articolo 5

XVIII LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

N. 2565

PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati
GELMINI, MOLINARI, LOLLOBRIGIDA, OCCHIUTO, BALDELLI, COSTA, SISTO, BARTOLOZZI, CASSINELLI, CRISTINA, FERRAIOLI, PITTALIS, SIRACUSANO, ZANETTIN, CALABRIA, D'ETTORE, MILANATO, SARRO, RAVETTO, TARTAGLIONE, MUGNAI, POLIDORI, ROTONDI, VITO, MULE', ANGELUCCI, APREA, BAGNASCO, BARATTO, BARELLI, ANNA LISA BARONI, BATTILOCCHIO, BERGAMINI, BIANCOFIORE, BOND, BRAMBILLA, BRUNETTA, CANNATELLI, CANNIZZARO, CAON, CAPPELLACCI, CARFAGNA, CARRARA, CASCIELLO, CASINO, CATTANEO, CORTELAZZO, DALL'OSSO, D'ATTIS, DELLA FRERA, FASANO, FASCINA, FATUZZO, FIORINI, FITZGERALD NISSOLI, GREGORIO FONTANA, GIACOMETTO, GIACOMONI, LABRIOLA, MANDELLI, MARIN, MARROCCO, MARTINO, MAZZETTI, MUSELLA, NAPOLI, NEVI, NOVELLI, ORSINI, PALMIERI, PELLA, PENTANGELO, PEREGO DI CREMNAGO, PETTARIN, POLVERINI, PORCHIETTO, PRESTIGIACOMO, RIPANI, ROSSELLO, ROSSO, RUFFINO, RUGGIERI, PAOLO RUSSO, SACCANI JOTTI, ELVIRA SAVINO, SANDRA SAVINO, COSIMO SIBILIA, SOZZANI, SPENA, SQUERI, TORROMINO, MARIA TRIPODI, VALENTINI, VERSACE, VIETINA, ZANELLA, ZANGRILLO, ANDREUZZA, BADOLE, BASINI, BAZZARO, BELLACHIOMA, BELOTTI, BENVENUTO, BIANCHI, BILLI, BINELLI, BISA, BITONCI, BOLDI, BONIARDI, BORDONALI, CLAUDIO BORGHI, BUBISUTTI, CAFFARATTO, CANTALAMESSA, CAPARVI, CAPITANIO, CASTIELLO, VANESSA CATTOI, CAVANDOLI, CECCHETTI, CENTEMERO, CESTARI, COIN, COLLA, COLMELLERE, COMAROLI, COMENCINI, COVOLO, ANDREA CRIPPA, DARA, DE ANGELIS, DE MARTINI, D'ERAMO, DI MURO, DI SAN MARTINO LORENZATO DI IVREA, DONINA, DURIGON, FANTUZ, FERRARI, FOGLIANI, LORENZO FONTANA, FORMENTINI, FOSCOLO, FRASSINI, FURGIUELE, GALLI, GARAVAGLIA, GASTALDI, GAVA, GERARDI, GIACCONE, GIACOMETTI, GIGLIO VIGNA, GIORGETTI, GOBBATO, GOLINELLI, GRIMOLDI, GUIDESI, GUSMEROLI, IEZZI, INVERNIZZI, LATINI, LAZZARINI, LEGNAIOLI, LIUNI, LOCATELLI, LOLINI, EVA LORENZONI, LOSS, LUCCHINI, MACCANTI, MAGGIONI, MANZATO, MARCHETTI, MATURI, MINARDO, MOLTENI, MORELLI, MORRONE, MOSCHIONI, MURELLI, ALESSANDRO PAGANO, PANIZZUT, PAOLINI, PAROLO, PATASSINI, PATELLI, PATERNOSTER, PETTAZZI, PIASTRA, PICCHI, PICCOLO, POTENTI, PRETTO, RACCHELLA, RAFFAELLI, RIBOLLA, RIXI, SALTAMARTINI, SASSO, STEFANI, SUTTO, TARANTINO, TATEO, TIRAMANI, TOCCALINI, TOMASI, TOMBOLATO, TONELLI, TURRI, VALBUSA, VALLOTTO, VINCI, VIVIANI, RAFFAELE VOLPI, ZICCHIERI, ZIELLO, ZOFFILI, ZORDAN, ACQUAROLI, BALDINI, BELLUCCI, BIGNAMI, BUCALO, BUTTI, CAIATA, CARETTA, CIABURRO, CIRIELLI, LUCA DE CARLO, DEIDDA, DELMASTRO DELLE VEDOVE, DONZELLI, FERRO, FOTI, FRASSINETTI, GALANTINO, GEMMATO, LUCASELLI, MANTOVANI, MASCHIO, MELONI, MOLLICONE, MONTARULI, OSNATO, PRISCO, RAMPELLI, RIZZETTO, ROTELLI, SILVESTRONI, TRANCASSINI, VARCHI, ZUCCONI

Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sull'uso politico della giustizia

Presentata il 1° luglio 2020

Onorevoli Colleghi! – Dopo il superamento dell'emergenza sanitaria legata al COVID-19, al centro della cronaca sono tornati – se si consente la metafora – i gravissimi sintomi di un'altra malattia, in questo caso istituzionale, del nostro sistema: una patologia conclamata, ma mai adeguatamente indagata e tanto meno curata nelle sue origini, nelle sue manifestazioni, nella sua reale estensione ai gangli vitali dell'ordinamento.
Il riferimento è all'uso politico della giustizia: il fenomeno, seppure circoscritto a cerchie più o meno ristrette di magistrati, rispetto a una larga maggioranza silenziosa che ogni giorno adempie alla sua nobile funzione in posizione terza e imparziale e con encomiabile impegno e dedizione, ha assunto, in particolare nel lasso di tempo intercorso dagli anni Novanta ad oggi, una dimensione sistemica, organizzata e pervasiva. Le sue ramificazioni si sono sviluppate, secondo una preoccupante catena, sia in senso verticale, dalle procure al Consiglio superiore della magistratura, sia in senso orizzontale, coinvolgendo i movimenti politici, il sistema dei media e i poteri economici.
In questo contesto, torna alla mente un celebre aforisma di Piero Calamandrei: «Quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra». Tale considerazione epigrammatica condensa una serie di princìpi davvero coessenziali allo Stato di diritto e alla cultura costituzionalistica.
La funzione giurisdizionale (non a caso definita «ordine giudiziario») si distingue da quelle spettanti, tradizionalmente, al potere legislativo e al potere esecutivo, oltreché in relazione all'oggettivo contenuto delle attribuzioni, ai profili procedimentali e alle tipologie di atti adottabili, per l'assenza di ogni partecipazione alla determinazione dell'indirizzo politico dello Stato e, a maggior ragione, per l'assenza di qualsivoglia indirizzo politico proprio, espressione di opzioni e preferenze di parte o corporative. L'essenza della funzione giurisdizionale risiede nell'applicazione della legge – pur nell'ambito, e nei limiti, delle operazioni valutative implicite in ogni attività ermeneutica –, intesa ampiamente come complesso delle norme che compongono l'ordinamento. E solo alla legge, in questa medesima accezione, la magistratura è soggetta ai sensi dell'articolo 101 della Costituzione: aspetto che vale ad assicurarne l'indipendenza non solo rispetto a interferenze esterne, ma anche contro forme di condizionamento interno.
Ebbene: già qui può cogliersi una prima verità del pensiero di Calamandrei, potendosi concludere che là dove vi sia politica, intesa come indirizzo di parte o pretesa di disporre dell'interesse generale frutto di condizionamenti eteronomi o di moti autonomi, non vi è più giustizia, perché, a ben vedere, non vi è più giurisdizione, come essa deve essere intesa.
Il compito di assicurare l'applicazione della legge, in posizione di terzietà e imparzialità, rispetto agli organi che concorrono a produrla a sua volta è espressivo di due altri capisaldi del costituzionalismo. Ci si riferisce, anzitutto, al principio di legalità, che impone che ogni potere sia esercitato sulla base di una previa norma giuridica, con una netta distinzione – non solo dal punto di vista logico e cronologico, ma anche dal punto di vista degli organi preposti ai diversi segmenti procedurali – fra l'astratto disporre, il concreto provvedere e la valutazione di conformità della seconda attività alla prima. Si allude, poi, al principio di separazione dei poteri, il quale prescrive che le funzioni non siano concentrate in un unico soggetto istituzionale, poiché la concentrazione del potere è il primo e principale veicolo di instaurazione dell'assolutismo e della tirannide, più o meno occulta.
Il secondo risvolto dell'aforisma di Calamandrei è, dunque, la comprensibile conclusione che là dove la magistratura esorbiti dal suo alveo, per debordare nel perimetro delle competenze di altri poteri dello Stato, cessa ogni istanza di giustizia legale. Viene soprattutto dall'insegnamento del liberalismo l'idea che rifiuta ogni figura del giudice legislatore o del giudice amministratore, che, forte della toga, si faccia carico di creare e applicare la sua personale giustizia in terra. Come pure è di matrice liberale l'idea che il processo deve restare il luogo dell'accertamento dei fatti e delle responsabilità individuali, non divenire il mezzo, o il palcoscenico, attraverso cui lo Stato regola i conflitti sociali, governa i flussi di consenso o veicola disegni di moralizzazione pubblica; e neppure il luogo in cui i magistrati perseguono disegni di protagonismo politico o di procacciamento di consensi.
Infine, occorre considerare il peculiare canale di legittimazione del potere giudiziario. In un sistema edificato sul principio della sovranità popolare, la giurisdizione costituisce un unicum: pur munita di rilevanti poteri, che incidono al cuore i diritti e le libertà fondamentali degli individui, essa è estranea al circuito democratico. Tale anomalia, solo apparente, è in realtà un consapevole congegno, volto ad assicurare in chi è chiamato ad applicare le norme la completa estraneità dall'agone politico, dalle contese di parte, dalla necessità e, al tempo stesso, dalla possibilità di procacciarsi il consenso. L'accesso alla magistratura per concorso e la tendenziale inamovibilità dei magistrati rispondono alla stessa logica, laddove, invece, tutti gli altri organi sono, direttamente o indirettamente, soggetti al giudizio del corpo elettorale.
La giurisdizione è un potere che, sotto il profilo della legittimazione, non si basa sul principio democratico, ma su princìpi diversi: autorevolezza, competenza, terzietà e imparzialità. Il protagonismo giudiziario danneggia in primo luogo la magistratura stessa: questo è l'ultimo corollario dell'affermazione di Calamandrei citata in apertura. Prevenire sia l'uso politico della toga (ossia, evitare che i magistrati esercitino le loro funzioni per propiziarsi la successiva carriera politica o raccogliere il consenso dei politici), sia l'uso giurisdizionale della carica politica, utilizzando l'incarico politico come prolungamento indebito della giurisdizione, con una sorta di pretesa assolutista del giudice «legislatore», è uno sforzo che deve prendere le mosse dalla magistratura stessa, perché tali patologie la delegittimano agli occhi dei cittadini, che non accetteranno decisioni provenienti da soggetti privi di ogni garanzia di imparzialità.
Quando Montesquieu, nell'opera «Lo spirito delle leggi», allude al potere giudiziario «così terribile fra i cittadini» come potere che ha da essere «invisibile e neutro», affinché sia «temuta la magistratura, non i magistrati», intende evocare, fra l'altro, proprio questo: i rilevanti poteri di cui la magistratura dispone, sganciati dal controllo democratico, devono basarsi su un naturale self restraint. Da ciò appare quanto mai lontana la profonda contiguità con una parte dei media, che, sotto la pressione della necessità di fare notizia a ogni costo e con la lusinga di esaltare il protagonismo personale, porta assai spesso la magistratura a usare in maniera distorta le proprie prerogative, alla ricerca di ribalte che hanno per inevitabili vittime i cittadini.
Di fronte a questo scenario così complesso e composito, abbiamo tutti davanti agli occhi, e nelle orecchie, i verbali e le registrazioni delle conversazioni, e per vero delle non meno sconcertanti interviste, che hanno avuto come protagonista Luca Palamara, componente togato del Consiglio superiore della magistratura ed ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, riguardanti il vischioso sistema di conferimento degli incarichi e il distorto pilotaggio delle indagini verso vicende «selezionate» o esponenti politici poco graditi. Emblematico è il caso del senatore Salvini rispetto alla vicenda della nave Diciotti. Tali circostanze hanno lasciato cadere il velo rispetto a un sistema di collusioni assai ampio e profondo, in grado di imporsi o, quantomeno, di condizionare, direttamente o indirettamente, l'azione di settori essenziali della magistratura, secondo quello che, senza timore di smentite, può definirsi un surrettizio e inammissibile indirizzo politico e, ancor peggio, un uso personalistico della funzione giurisdizionale.
Altrettanto gravi sono le rivelazioni emerse con riferimento alle vicende che, nel 2013, hanno portato alla condanna di Silvio Berlusconi e alla sua decadenza da senatore per frode fiscale. Da quanto pubblicato sulle colonne del Riformista, il magistrato Amedeo Franco, all'epoca dei fatti giudice relatore alla Corte di cassazione sul «processo Mediaset», avrebbe affermato, alla presenza di alcuni testimoni, le seguenti, inequivocabili parole, che sono state anche registrate: «Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone! Questa è la realtà... A mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subìto una grave ingiustizia... L'impressione è che tutta questa vicenda sia stata guidata dall'alto. In effetti hanno fatto una porcheria, perché che senso ha mandarla alla sezione feriale? Voglio dirlo per sgravarmi la coscienza, perché mi porto questo peso del... ci continuo a pensare. Non mi libero... Io gli stavo dicendo che la sentenza faceva schifo... Sussiste una malafede del presidente del collegio, sicuramente», sostenendo la tesi secondo cui il magistrato Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Corte di cassazione che emise la sentenza di condanna del 2013, sarebbe stato «pressato» per il fatto che il figlio, anch'egli magistrato, era indagato dalla procura di Milano per «essere stato beccato con droga». La conclusione del relatore della Corte di cassazione, nel colloquio «rubato», è che «si poteva cercare di evitare che andasse a finire in mano a questo plotone di esecuzione, come è capitato, perché di peggio non poteva capitare».
Andando a ritroso nel tempo, negli ultimi venticinque anni, come è noto, non mancano ulteriori e ancora più sconcertanti casi di uso politico della giustizia, ritagliati attraverso sapienti congegni «a orologeria», a carico di esponenti di tutte le parti politiche, che negli anni della cosiddetta «Tangentopoli» sono addirittura arrivati a decapitare una parte del sistema partitico: vicende che ormai appartengono alla storia, irrefutabilmente documentate. Si passa dai fatti che hanno coinvolto Craxi e Citaristi, passando per la famosa consegna dell'avviso di garanzia, anticipato al Corriere della Sera, all'allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi mentre presiedeva la Conferenza dell'ONU sulla criminalità.
L'uso politico della giustizia e la cultura giustizialista di cui esso si è spesso alimentato, che ha avuto con l'inchiesta «Mani pulite» la sua prima e più tangibile manifestazione, sono stati una delle radici dei populismi di oggi, di cui troviamo tutti gli elementi: la gogna mediatica, i toni strillati, l'appello al popolo in funzione di giudice supremo, l'irrazionalismo, la presunzione di colpevolezza. Tutto è cominciato con la trasformazione iperbolica di una serie di inchieste giudiziarie su fatti pur gravi di corruzione politica e di degenerazione nell'amministrazione della cosa pubblica in una sorta di «soluzione finale» del sistema politico e della democrazia dei partiti. Alla scoperta delle «armi nucleari» degli avvisi di garanzia e delle potenzialità distorte delle aderenze con il sistema dei media è seguito non solo il crollo del vecchio sistema politico, ma anche la creazione di uno nuovo sotto la perenne spada di Damocle dell'inchiesta giudiziaria.
In questo vuoto del sistema politico si è inserita la magistratura, quella al suo interno fortemente politicizzata, almeno negli organismi di vertice. Ma la magistratura, in un sistema democratico, non può diventare il baricentro dello Stato: infatti, il sistema democratico si basa, per quanto già detto, sulla sovranità popolare, che è imperniata sulla riconducibilità diretta o indiretta dei governanti al popolo e sulla possibilità per quest'ultimo di controllarne l'operato e farne valere la responsabilità nel momento elettorale. Chiaramente, questo principio vale per gli organi del circuito politico-rappresentativo, che devono stabilire l'indirizzo politico. La magistratura, al contrario, non deve decidere gli indirizzi politici del futuro, ma applicarli «al passato», cioè applicare la legge; la magistratura – va ribadito – è soggetta soltanto alla legge, e non a forme di controllo e responsabilità democratica. Se la magistratura assume su di sé i poteri politici, si crea una situazione fortemente antidemocratica, perché questa è un organo acefalo e fuori di ogni controllo popolare. È illusorio pensare che la politica, contro cui si levano strali tanto alti, sia solo quella fatta dai partiti e dai movimenti; ogni aggregato umano fa politica, quando scende in campo per incidere sui processi di decisione collettiva. Anche la magistratura, essendo composta da uomini, fa politica, è naturale; ma, nel momento in cui pretende di elaborare indirizzi politici, deve accettare le regole del gioco democratico e diventare responsabile. Non si può pretendere di «giocare al politico» conservando l'immunità del magistrato: occorre scegliere fra un ruolo e l'altro.
Senza bisogno di rievocare accadimenti purtroppo ben noti, è oggi della massima urgenza un intervento profondo sui fenomeni in discussione, invocato, peraltro, alla luce delle soglie parossistiche e intollerabili in uno Stato di diritto informato alla separazione dei poteri, al principio democratico e alla sovranità popolare da essi raggiunte, anche dal Presidente della Repubblica, il quale ha espresso, con riferimento al Consiglio superiore della magistratura e alla luce del caso Palamara, «grave sconcerto e riprovazione per quanto accaduto», rispetto a una «degenerazione del sistema correntizio e [al]l'inammissibile commistione fra politici e magistrati» tale da richiedere una nuova normativa in materia, da condividere nell'ambito di un dialogo aperto tra tutti gli attori politici.
I costi dell'uso politico della giustizia sono enormi per il nostro sistema.
È sotto gli occhi di tutti che la strumentalizzazione dell'ufficio e della funzione giurisdizionale come prosecuzione della politica con altri mezzi produce un danno incalcolabile all'immagine e alla legittimazione delle istituzioni. Il vulnus più grave si produce, paradossalmente, in danno della stessa magistratura: gli abusi di cui la «correntocrazia» e l'uso politico della giustizia sono alla base ledono, in primo luogo, il potere giudiziario, il quale si legittima e giustifica – come detto – in base alla sua autorevolezza, competenza, terzietà e imparzialità. Più in generale, non è compatibile con il principio della separazione dei poteri, con il principio democratico e con il principio della sovranità popolare, già richiamati, che la giurisdizione si faccia strumento per perseguire indirizzi politici particolari e autonomi, per interferire con il circuito democratico-rappresentativo e per condizionare l'esercizio delle attribuzioni degli organi costituzionali, peraltro, secondo logiche ricattatorie e oscure.
Con specifico riguardo alla disciplina del Consiglio superiore della magistratura, l'esigenza da soddisfare è quella di ridimensionare le distorsioni patologiche legate al peso preponderante assunto dalle correnti non solo nel momento «genetico», cioè in sede di individuazione dei candidati destinati a concorrere all'elezione, ma anche successivamente, nel quotidiano esercizio delle proprie attribuzioni costituzionali da parte dell'organo.
Non è inutile rammentare come già in sede di Assemblea costituente fosse stato massimo lo sforzo di trovare un punto di equilibrio fra i due principali e contrapposti rischi sottesi alle regole di composizione dell'organo. È noto che, da un lato, si agitava il timore che le ragioni esterne della politica si infiltrassero nelle dinamiche del Consiglio superiore della magistratura, tramite un potere di nomina eventualmente troppo ampio affidato alle istituzioni del circuito democratico-rappresentativo, a cominciare dal Parlamento. È altrettanto noto, però, che un timore speculare era quello di creare uno «Stato nello Stato», una «casta chiusa e intangibile» (onorevole Preti), «separata e irresponsabile» (onorevole Dominedò), un «mandarinato» (onorevole Persico), un organo del tutto separato dagli apparati amministrativi dello Stato e sottratto al controllo dell'organo di rappresentanza popolare, dei mezzi d'informazione e della pubblica opinione (onorevole Cappi). La stessa designazione del Presidente della Repubblica al vertice rispondeva all'obiettivo di impedire che il Consiglio superiore della magistratura diventasse «un corpo chiuso e ribelle», una specie di «cometa che possa uscire per conto suo dall'orbita costituzionale» (onorevole Calamandrei).
La disciplina congegnata dal Costituente, se sotto molti profili ha assicurato un'egregia composizione degli interessi in campo, non ha impedito che, nelle sue maglie ampie, rimesse alla legislazione attuativa e alle concrete dinamiche della prassi, si prefigurasse un terzo rischio, che, per certi versi, è un ibrido fra i due paventati dai Costituenti: vale a dire, la politicizzazione interna alla magistratura stessa.
Una questione di prima grandezza che oggi è emersa davanti all'opinione pubblica come una vera e propria patologia democratica. Ma il problema giustizia è più vasto e complesso: l'Italia registra infatti oltre mille casi all'anno di innocenti finiti in carcere che vengono risarciti, ed è solo la punta dell'iceberg, perché in realtà sono almeno il doppio. Questo significa che l'aver coscienza di non aver commesso alcun atto contrario alla legge non esclude affatto l'ipotesi che un cittadino possa trovarsi nella posizione dell'accusato. Dunque la questione della scelta sia delle persone chiamate a giudicarci, sia di quelle cui viene attribuito il potere di metterci sotto accusa riguarda la libertà di tutti. Ed è molto importante per ciascuno di noi che i magistrati svolgano le loro funzioni in condizione di assoluta indipendenza e serenità, senza essere condizionati da circostanze esterne, cioè senza avere riguardo alla fede religiosa, alla posizione sociale o all'appartenenza politica.
È nell'interesse generale che chi svolge la funzione giudicante nel processo penale non subisca il benché minimo condizionamento, nemmeno psicologico, dal magistrato che svolge la funzione della pubblica accusa. Proprio in questo sta l'indipendenza del magistrato.
Ebbene, dopo gli ultimi avvenimenti è più che lecito quindi porsi la domanda se il sistema attuale di organizzazione della giustizia, anziché garantire l'indipendenza dei magistrati, crei invece un contesto ambientale dove tale indipendenza o si affievolisce o, addirittura, scompare del tutto. Il riferimento inevitabile è al ruolo del Consiglio superiore della magistratura, organo di rilevanza costituzionale che, con i poteri di nomina o trasferimento e disciplinari, stabilisce chi e dove comanda tra i magistrati. Per la stessa credibilità della giustizia è doveroso fare chiarezza su quanto recentemente affermato dal dottor Palamara, per anni presidente dell'Associazione nazionale magistrati, che getta una lunga ombra sul principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, descrivendolo come un usbergo dietro il quale si nasconde in realtà il massimo della discrezionalità dei pubblici ministeri. Una fictio iuris, insomma, che consente alle procure di decidere se, come e chi indagare, quali indizi considerare e quali no, quali intercettazioni utilizzare e quando accendere o spegnere i trojan. Con un corollario che non è certo un dettaglio: l'assoluta prevalenza della magistratura inquirente nella gestione dell'Associazione nazionale magistrati e dello stesso Consiglio superiore della magistratura, l'organo di autogoverno che controlla le carriere di tutti i magistrati, anche di quelli giudicanti, potendo così condizionare – questo almeno si evince da un'intervista di Palamara al Riformista – anche l'esito di certe sentenze.
Se a questo si aggiunge la più volte affermata necessità di una «supplenza» della magistratura nei confronti della politica, oltre alle circostanze ormai storicizzate di inchieste finite poi nel nulla, ma che hanno tuttavia determinato conseguenze politiche irreparabili, con le dimissioni di Governi di ogni colore politico, ci sono tutti gli elementi per il varo di una Commissione parlamentare di inchiesta che possa far luce sui rapporti intercorsi tra magistratura e politica negli ultimi trent'anni. Un'esigenza certificata anche da un autorevole esponente della sinistra come Luciano Violante, ex magistrato ed ex presidente della Camera dei deputati, il quale in un'intervista del 23 dicembre 2009 disse testualmente: «L'indipendenza dei magistrati dai poteri esterni è cresciuta sino a toccare livelli sconosciuti a qualsiasi altro Paese. Sull'altro versante, la politica e l'amministrazione hanno perso tutti gli scudi che preservavano l'una e l'altra dall'attivismo giudiziario. E i pubblici ministeri fanno notizia perché sono in grado di incidere sul consenso che costituisce il fondamento della democrazia».
Oggi più che mai, dunque, l'Italia non può permettersi e non può tollerare che dubbi di tale portata continuino ad aleggiare sulla vita politica e sulle istituzioni. Occorre comprendere in profondità quanto è accaduto per evitare che si ripeta, anche se con nuovi protagonisti.
È necessario quindi consentire al Parlamento, centro della sovranità popolare, di indagare in ossequio al dovere di trasparenza e di lealtà verso il popolo italiano.
Rispetto a tutti questi fattori, e nella necessaria prospettiva di adottare un insieme di riforme ormai indifferibili, è imprescindibile che si faccia finalmente piena chiarezza sui rapporti fra la politica e la magistratura. Solo conoscendo la realtà che si aspira a riformare, nei suoi risvolti patologici e morbosi, è possibile aspirare a offrire risposte normative e, forse, anche culturali efficaci, facendo i conti con una pagina ancora non del tutto scritta degli ultimi trent'anni della storia politica italiana.
In questa prospettiva, con la presente proposta di legge si propone l'istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta bicamerale, con l'obiettivo, a 360 gradi e facendo attenzione a ogni possibile curvatura, di accertare: a) lo stato dei rapporti tra le forze politiche e la magistratura; b) lo stato dei rapporti tra la magistratura e i media; c) se esistano correnti interne alla magistratura organizzate in funzione del perseguimento di preponderanti obiettivi politici o ideologici, ovvero collegate a partiti od organizzazioni politiche parlamentari ed extraparlamentari; d) l'influenza, diretta o indiretta, delle correnti politiche esistenti all'interno della magistratura sui comportamenti delle autorità giudiziarie inquirenti e giudicanti; e) l'influenza, diretta o indiretta, delle correnti politiche esistenti all'interno della magistratura sul conferimento degli incarichi direttivi e sullo svolgimento dell'azione disciplinare da parte dell'organo di autogoverno della magistratura; f) l'esistenza di casi concreti di esercizio mirato dell'azione penale o di direzione od organizzazione dei dibattimenti o dei procedimenti penali in modo selettivo, discriminatorio e inusuale; g) l'esistenza di casi concreti di mancato o ritardato esercizio dell'azione penale a fini extragiudiziari, in violazione del principio costituzionale dell'obbligatorietà dell'azione penale; h) l'esistenza di casi concreti di influenza esterna nella determinazione di quello che dovrebbe essere il giudice naturale, nella composizione degli organi giudicanti e nella definizione dei calendari, con particolare riguardo ai procedimenti nei quali siano coinvolti capi politici ed esponenti politici di partiti; i) se e in quale misura singoli esponenti o gruppi organizzati all'interno della magistratura abbiano svolto attività in contrasto con il principio della separazione dei poteri, con il principio democratico e con il principio della sovranità popolare, in particolar modo dirette a interferire con l'attività parlamentare e di Governo e, più in generale, con l'esercizio delle funzioni di organi costituzionali; l) se e in quale direzione debba essere riformato il quadro normativo riguardante l'ordinamento giudiziario e i procedimenti giurisdizionali penali, civili, amministrativi, tributari e contabili al fine di garantire il funzionamento equo, celere e imparziale della giustizia.

PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.
(Istituzione e funzioni della Commissione)

1. È istituita, ai sensi dell'articolo 82 della Costituzione, per la durata della XVIII legislatura, una Commissione parlamentare di inchiesta sull'uso politico della giustizia, di seguito denominata «Commissione», con il compito di accertare:

a) lo stato dei rapporti tra le forze politiche e la magistratura;

b) lo stato dei rapporti tra la magistratura e i media;

c) se esistano correnti interne alla magistratura organizzate in funzione del perseguimento di preponderanti obiettivi politici o ideologici, ovvero collegate a partiti od organizzazioni politiche parlamentari ed extraparlamentari;

d) l'influenza, diretta o indiretta, delle correnti politiche esistenti all'interno della magistratura sui comportamenti delle autorità giudiziarie inquirenti e giudicanti;

e) l'influenza, diretta o indiretta, delle correnti politiche esistenti all'interno della magistratura sul conferimento degli incarichi direttivi e sullo svolgimento dell'azione disciplinare da parte dell'organo di autogoverno della magistratura;

f) l'esistenza di casi concreti di esercizio mirato dell'azione penale o di direzione od organizzazione dei dibattimenti o dei procedimenti penali in modo selettivo, discriminatorio e inusuale;

g) l'esistenza di casi concreti di mancato o ritardato esercizio dell'azione penale a fini extragiudiziari, in violazione del principio costituzionale dell'obbligatorietà dell'azione penale;

h) l'esistenza di casi concreti di influenza esterna nella determinazione di quello che dovrebbe essere il giudice naturale, nella composizione degli organi giudicanti e nella definizione dei calendari, con particolare riguardo ai procedimenti nei quali siano coinvolti capi politici ed esponenti politici di partiti;

i) se e in quale misura singoli esponenti o gruppi organizzati all'interno della magistratura abbiano svolto attività in contrasto con il principio della separazione dei poteri, con il principio democratico e con il principio della sovranità popolare, in particolar modo dirette a interferire con l'attività parlamentare e di Governo e, più in generale, con l'esercizio delle funzioni di organi costituzionali;

l) se e in quale direzione debba essere riformato il quadro normativo riguardante l'ordinamento giudiziario e i procedimenti giurisdizionali penali, civili, amministrativi, tributari e contabili al fine di garantire il funzionamento equo, celere e imparziale della giustizia.

2. La Commissione riferisce alle Camere annualmente, con singole relazioni o con relazioni generali, e ogniqualvolta ne ravvisi la necessità e, comunque, al termine dei suoi lavori.

Art. 2.
(Composizione della Commissione)

1. La Commissione è composta da venti senatori e da venti deputati, scelti rispettivamente dal Presidente del Senato della Repubblica e dal Presidente della Camera dei deputati, in proporzione al numero dei componenti dei gruppi parlamentari, comunque assicurando la presenza di un rappresentante per ciascun gruppo esistente in almeno un ramo del Parlamento.
2. Il Presidente del Senato della Repubblica e il Presidente della Camera dei deputati convocano la Commissione, entro dieci giorni dalla nomina dei suoi componenti, per la costituzione dell'ufficio di presidenza.
3. L'ufficio di presidenza, composto dal presidente, da due vicepresidenti e da due segretari, è eletto dai componenti della Commissione a scrutinio segreto. Per l'elezione del presidente è necessaria la maggioranza assoluta dei componenti della Commissione; se nessuno riporta tale maggioranza si procede al ballottaggio tra i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti. È eletto il candidato che ottiene il maggior numero di voti. In caso di parità di voti è proclamato eletto o entra in ballottaggio il più anziano di età.
4. Per l'elezione, rispettivamente, dei due vicepresidenti e dei due segretari, ciascun componente della Commissione scrive sulla propria scheda un solo nome. Sono eletti coloro che hanno ottenuto il maggior numero di voti. In caso di parità di voti si procede ai sensi del quarto periodo del comma 3.
5. Le disposizioni dei commi 3 e 4 si applicano anche per le elezioni suppletive.

Art. 3.
(Poteri e limiti della Commissione)

1. La Commissione procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell'autorità giudiziaria. La Commissione non può adottare provvedimenti attinenti alla libertà e alla segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione nonché alla libertà personale, fatto salvo l'accompagnamento coattivo di cui all'articolo 133 del codice di procedura penale.
2. La Commissione ha il potere di:

a) acquisire copia di atti e documenti relativi a procedimenti e inchieste in corso presso l'autorità giudiziaria o altri enti pubblici nonché copia di atti e documenti relativi a indagini e inchieste parlamentari anche se coperti dal segreto. In tale ultimo caso la Commissione garantisce il mantenimento del regime di segretezza;

b) ordinare, quando occorra, il sequestro di atti e documenti nonché accertamenti tecnici;

c) esaminare le persone che possano fornire notizie utili ai fini dell'inchiesta.

3. Per i fatti oggetto dell'inchiesta, alla Commissione non può essere opposto il segreto d'ufficio né il segreto professionale o quello bancario, fatta eccezione per il segreto tra difensore e parte processuale nell'ambito del mandato. Per il segreto di Stato si applica quanto previsto dalla legge 3 agosto 2007, n. 124.
4. Per le testimonianze davanti la Commissione si applicano le disposizioni degli articoli 366 e 372 del codice penale.
5. La Commissione stabilisce quali atti e documenti non devono essere divulgati, anche in relazione a esigenze attinenti ad altre istruttorie o inchieste in corso. Devono in ogni caso essere coperti dal segreto gli atti e i documenti attinenti a procedimenti giudiziari nella fase delle indagini preliminari.

Art. 4.
(Obbligo del segreto)

1. I componenti della Commissione, il personale addetto alla stessa e ogni altra persona che collabora con la Commissione o compie o concorre a compiere atti di inchiesta, oppure ne viene a conoscenza per ragioni di ufficio o di servizio, sono obbligati al segreto per tutto quanto riguarda gli atti e i documenti di cui all'articolo 3, comma 5.
2. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, la violazione del segreto di cui al comma 1 nonché la diffusione in tutto o in parte, anche per riassunto o informazione, di atti o documenti del procedimento di inchiesta dei quali è stata vietata la divulgazione sono puniti ai sensi dell'articolo 326 del codice penale.

Art. 5.
(Organizzazione interna)

1. L'attività e il funzionamento della Commissione sono disciplinati da un regolamento interno approvato dalla Commissione stessa prima dell'inizio dei lavori. Ciascun componente può proporre la modifica delle norme regolamentari.
2. La Commissione può organizzare i propri lavori anche attraverso uno o più comitati, costituiti secondo il regolamento di cui al comma 1.
3. Le sedute della Commissione sono pubbliche. Tuttavia, tutte le volte che lo ritenga opportuno, la Commissione può riunirsi in seduta segreta.
4. La Commissione può avvalersi dell'opera di ufficiali e agenti di polizia giudiziaria nonché di tutte le collaborazioni e le consulenze che ritenga necessarie.
5. Per l'espletamento delle sue funzioni la Commissione fruisce di personale, locali e strumenti operativi messi a disposizione dai Presidenti delle Camere, d'intesa tra loro.
6. Le spese per il funzionamento della Commissione sono stabilite nella misura massima di 50.000 euro per l'anno 2020 e di 100.000 euro per ciascuno degli anni successivi e sono poste per metà a carico del bilancio interno del Senato della Repubblica e per metà a carico del bilancio interno della Camera dei deputati.

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