FRONTESPIZIO

RELAZIONE

PROGETTO DI LEGGE
                        Articolo 1
                        Articolo 2

XVIII LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

N. 313

PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati
MELONI, CIRIELLI, RAMPELLI, ACQUAROLI, BELLUCCI, BUCALO, BUTTI, CARETTA, CIABURRO, CROSETTO, LUCA DE CARLO, DEIDDA, DELMASTRO DELLE VEDOVE, DONZELLI, FERRO, FIDANZA, FOTI, FRASSINETTI, GEMMATO, LOLLOBRIGIDA, LUCASELLI, MASCHIO, MOLLICONE, MONTARULI, OSNATO, RIZZETTO, ROTELLI, SILVESTRONI, TRANCASSINI, VARCHI, ZUCCONI

Norme per l'attribuzione a soggetti pubblici
della proprietà della Banca d'Italia

Presentata il 23 marzo 2018

  Onorevoli Colleghi! — Con il decreto-legge 30 novembre 2013, n. 133, recante «Disposizioni urgenti concernenti l'IMU, l'alienazione di immobili pubblici e la Banca d'Italia», convertito, con modificazioni, dalla legge 29 gennaio 2014, n. 5, il Governo era intervenuto in maniera sostanziale sull'assetto della Banca d'Italia procedendo, di fatto, alla sua privatizzazione.
  Questo era avvenuto in spregio alla dichiarata vocazione pubblica del principale istituto bancario italiano, che non solo è definito quale istituto di diritto pubblico dalla legge, ma che, soprattutto, svolge delicatissimi compiti istituzionali, e nonostante la fortissima opposizione parlamentare alle norme riguardanti la Banca d'Italia contenute nel decreto-legge.
  La qualificazione della Banca d'Italia come «istituto di diritto pubblico» è stata sancita con una legge del 1936, adottata in seguito alla cosiddetta grande depressione americana e contestualmente agli interventi di nazionalizzazione delle principali banche e aziende del Paese. Sino ad allora, infatti, la Banca d'Italia, nata nel 1893 in seguito alla fusione della Banca nazionale del Regno d'Italia con la Banca nazionale toscana e con la Banca toscana di credito, aveva mantenuto la sua caratteristica di istituto finanziario privato, nonostante il fatto che a partire dal 1926 già detenesse il monopolio nell'emissione di moneta e le fossero stati assegnati i primi compiti di vigilanza sul sistema creditizio.
  Nel 1936, invece, la Banca d'Italia divenne pubblica, i suoi azionisti privati furono espropriati e le quote del capitale furono distribuite tra le banche ormai nazionalizzate. Al contempo l'istituto fu obbligato ad abbandonare le normali operazioni commerciali con clienti non bancari e furono rafforzati i suoi compiti di vigilanza nei confronti del sistema, che frattanto veniva suddiviso – sull'esempio del Glass-Steagall Act americano – tra banche di credito a breve termine e banche di credito a lungo termine.
  Nel modello creato, quindi, non esisteva commistione tra pubblico e privato, posto che gli stessi azionisti erano di natura pubblica, un requisito perso nel corso degli ultimi decenni, durante i quali la parziale privatizzazione delle banche pubbliche è avvenuta tramite la creazione delle fondazioni e la quotazione della maggioranza del capitale in borsa.
  Il processo di trasformazione delle banche pubbliche in società per azioni, verificatosi nel corso negli anni novanta a opera della legge 30 luglio 1990, n. 218, ha poi influito, di fatto, sulla titolarità delle quote di partecipazione al capitale della Banca d'Italia, e, infine, l'articolo 27 del decreto legislativo 17 maggio 1999, n. 153, ha disciplinato la partecipazione al capitale della Banca d'Italia da parte delle fondazioni bancarie, enti di diritto privato che avevano effettuato il conferimento delle aziende bancarie alle società nate dai processo di trasformazione delle banche pubbliche.
  Tra questi due provvedimenti si situa, inoltre, il testo unico delle disposizioni in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, con il quale è stato riformato l'intero sistema bancario attraverso l'eliminazione della separazione tra credito a breve termine e credito a lungo termine e la conseguente reintroduzione del modello della «banca universale», nonché attraverso l'adozione di sistemi di vigilanza uniformi a livello europeo.
  Infine, con l'adesione all'euro, la Banca d'Italia ha cambiato ancora una volta il proprio ruolo, divenendo al tempo stesso compartecipe ed esecutrice (a livello nazionale) delle decisioni di politica monetaria prese dalla Banca centrale europea (BCE) e perdendone la responsabilità esclusiva per l'Italia, nonché perdendo anche la responsabilità esclusiva della vigilanza sui principali gruppi bancari italiani, anch'essa conferita alla BCE.
  Ciò premesso, sino all'adozione del citato decreto-legge, la struttura della governance della Banca d'Italia, per quanto singolare, era riuscita a garantire l'indipendenza dai privati (vigilati) grazie ad alcuni meccanismi «di salvaguardia»: in primo luogo il fatto che la nomina del Governatore, dei membri del Direttorio e dei principali dirigenti era sottratta agli azionisti e al Consiglio superiore (espressione di questi ultimi); in secondo luogo perché ciascun azionista, indipendentemente dalle quote detenute, non poteva esprimere più di 50 voti su un totale di 535; in terzo luogo perché gli utili erano distribuiti proporzionalmente alla quota percentuale di capitale detenuta da ciascun azionista e con precise limitazioni imposte al dividendo complessivo, che non poteva superare la somma tra un importo non superiore al 6 per cento del capitale sociale (allora pari a 156.000 euro), un ulteriore importo non superiore al 4 per cento del capitale sociale, un ulteriore importo non superiore al 4 per cento delle riserve di capitale (pari a 23 miliardi di euro), comunque, non superiore «ai frutti annualmente percepiti sugli investimenti delle riserve», e per prassi non si è mai superato il limite dello 0,5 per cento pari, nell'ultimo esercizio, a 70 milioni di euro. Infine, l'ultimo elemento che garantiva il funzionamento del meccanismo era il fatto che il trasferimento delle quote di partecipazione al capitale doveva avvenire «su proposta del Direttorio, solo previo consenso del Consiglio superiore, nel rispetto dell'autonomia e dell'indipendenza dell'istituto e della equilibrata distribuzione delle quote» e, infatti, il trasferimento non si è mai verificato se non in caso di fusione tra soggetti già partecipanti.
  Fino al 2013, quindi, mai nessuna banca partecipante al capitale della Banca d'Italia aveva preso seriamente in considerazione né l'ipotesi di vendere la propria quota, né quella di attribuire ad essa un valore superiore a quello, simbolico, allora calcolato sul capitale complessivo di circa 156.000 euro.
  Con il decreto-legge n. 133 del 2013, invece, l'assetto della Banca d'Italia è stato modificato e tale quadro è mutato profondamente e certamente non in meglio.
  In particolare, il decreto-legge ha stabilito nuove norme riguardanti sia il capitale, sia gli organi dell'istituto; con riferimento al capitale, si prevede che la Banca d'Italia possa effettuarne una rivalutazione mediante utilizzo delle riserve statutarie sino a 7,5 miliardi di euro e che potrà distribuire dividendi annuali per un importo non superiore al 6 per cento del capitale. Se si rammenta che il previgente valore del capitale della Banca d'Italia, ai sensi dell'articolo 20 del regio decreto-legge n. 375 del 1936 (abrogato dall'articolo 6, comma 2, del decreto-legge n. 133 del 2013) era di 300 milioni di vecchie lire, ci si può rendere conto della prima scandalosa operazione commessa con questo provvedimento. La revisione degli asset proprietari, infatti, conviene solo alle stesse banche azioniste che, a fronte di un capitale della Banca d'Italia pari a 7 miliardi di euro, con un tasso di dividendi del 6 per cento, secondo la stima contenuta nello studio degli esperti incasseranno un flusso di dividendi pari a circa 450 milioni di euro all'anno, a fronte dell'attuale dividendo annuo di 50-70 milioni di euro. Inoltre, per effetto della normativa introdotta, le banche azioniste saranno anche autorizzate a includere le quote nel patrimonio di vigilanza, rinforzando la propria patrimonializzazione, utile ai fini dell’asset quality review che la BCE effettuerà l'anno prossimo.
  La rivalutazione del capitale della Banca d'Italia è stata effettuata sulla base di uno studio svolto da una commissione di esperti, che ha stimato il nuovo valore della Banca d'Italia, mentre si è dato per scontato che le riserve valutarie, stimate in oltre 100 miliardi di euro, siano di proprietà non della Banca ma dello Stato, anche se il Governo non ha neanche precisato con chiarezza quali attivi siano della Banca d'Italia e quali invece siano da considerare solo in sua custodia.
  Peraltro, in merito alla valutazione effettuata dalla Commissione di esperti, la BCE, nell'esprimere il parere sul citato decreto-legge, ha sostenuto che una valutazione così a lungo termine, in cui sono formulate supposizioni in merito ai futuri dividendi nell'arco di un periodo superiore a venti anni, implica l'utilizzo di dati congetturali in ordine alla quantificazione dei parametri chiave, ritenendo auspicabili ulteriori dettagli sui presupposti quantitativi alla base della valutazione.
  Con riferimento alla proprietà del capitale della Banca d'Italia invece, con le nuove norme è previsto che ciascun partecipante ad esso non potrà possedere – direttamente o indirettamente – una quota superiore al 3 per cento e che per favorire il rispetto di tale limite la stessa Banca potrà acquistare temporaneamente le quote di partecipazione in possesso di altri soggetti. Inoltre, il decreto-legge ha ampliato il novero dei soggetti italiani che potranno detenere quote del capitale, allargandolo anche ai fondi pensione, oltre che alle banche, fondazioni, assicurazioni, enti e istituti di previdenza, già abilitati ad acquisire le quote di partecipazione. Infine, in base alle nuove norme, tutte le banche potranno partecipare al capitale dell'Istituto, mentre precedentemente solo le banche succedute nelle posizioni giuridiche delle aziende creditizie considerate dal regio decreto-legge n. 375 del 1936 (casse di risparmio, istituti di credito di diritto pubblico, banche di interesse nazionale) risultavano pienamente legittimate al possesso delle quote.
  E qui si pone una delle criticità fondamentali del nuovo assetto: le banche e le assicurazioni sono private e la loro nazionalità non è più difendibile a priori, con la conseguenza che la Banca d'Italia potrebbe in futuro diventare a maggioranza di azionisti esteri, quindi non solo privata ma anche a proprietà straniera.
  E le ombre della nuova normativa non sono ancora finite: una di queste è certamente rappresentata dal fatto che pur essendo previsto che non saranno distribuiti agli azionisti gli utili derivanti dal signoraggio, cioè dall'emissione di banconote, non è chiara la destinazione degli utili derivanti dall'acquisto di titoli (di Stato o no) in momenti di stress di mercato, operazioni sinora effettuate dalla Banca d'Italia, come qualsiasi altra banca centrale, proprio in virtù del fatto che era «garantita» dai contribuenti italiani e che a questi ultimi venivano liquidati, ma l'accentuata natura privata della Banca potrebbe imprimere un cambio di destinazione a tali utili.
  Infine, si pone con forza il tema delle riserve auree: l'Italia è il terzo Paese al mondo per consistenza di riserve auree (dopo Stati Uniti d'America e Germania) con 2.451,8 tonnellate di oro, pari oggi a una somma di circa 110 miliardi di euro che, pur con qualche oscillazione, cresce tendenzialmente di anno in anno, e pur mantenendo la natura giuridica pubblicistica della Banca d'Italia, la sostanziale privatizzazione dell'istituto operata dal decreto-legge solleva più di qualche perplessità in ordine al destino delle stesse riserve.
  Queste ultime, tuttavia, appartengono senza ombra di dubbio allo Stato italiano e al popolo italiano e questa è l'opinione anche di illustri costituzionalisti, che hanno avuto modo di affermare che «l'analisi della normativa sinora vigente induce a ritenere che si tratti di beni pubblici di natura quasi demaniale, destinati ad uso di utilità generale, che Bankitalia non avrebbe più titolo per detenere, essendo la sua funzione monetaria confluita in quella affidata ormai alla Banca centrale europea; l'oro, insomma, sarebbe degli italiani e dovrebbe pertanto essere restituito allo Stato».
  In realtà tutta la ricchezza accumulata dalla Banca d'Italia è degli italiani e qualunque sia il suo valore effettivo, essa deve ritornare in possesso pubblico. Per mero opportunismo politico, invece, il Governo allora in carica ha devoluto ai privati, senza alcuna garanzia sugli asset proprietari del futuro, un patrimonio inestimabile, rappresentato dalla Banca d'Italia, che dovrebbe essere, invece, per eccellenza «azienda» pubblica, posto che le attività di regolamentazione, vigilanza e politica monetaria richiedono la massima indipendenza della banca centrale rispetto ai soggetti regolati.
  Con la presente proposta di legge si intende restituire la Banca d'Italia all'esclusiva proprietà pubblica, riproponendo la norma contenuta nella legge n. 262 del 2005 e abrogata dal decreto-legge n. 133 del 2013, che prevedeva appunto il ritorno in mano pubblica della proprietà delle quote dell'istituto.

PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

  1. A decorrere dal 1° marzo 2019, le quote di proprietà della Banca d'Italia detenute da soggetti privati sono acquisite dal Ministero dell'economia e delle finanze al loro valore nominale, stabilito dall'articolo 20 del regio decreto-legge 12 marzo 1936, n. 375, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 marzo 1938, n. 141. Il Ministero dell'economia e delle finanze può cedere le proprie quote esclusivamente a soggetti pubblici.
  2. Con regolamento da adottare ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono disciplinate le modalità di trasferimento delle quote di cui al comma 1 del presente articolo.

Art. 2.

  1. Gli articoli 4, 5 e 6 del decreto-legge 30 novembre 2013, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 gennaio 2014, n. 5, sono abrogati.

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