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Resoconto dell'Assemblea

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XIX LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 352 di lunedì 23 settembre 2024

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE LORENZO FONTANA

La seduta comincia alle 11.

PRESIDENTE. La seduta è aperta.

Invito la deputata Segretaria a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.

GILDA SPORTIELLO, Segretaria, legge il processo verbale della seduta del 20 settembre 2024.

PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati in missione a decorrere dalla seduta odierna sono complessivamente 87, come risulta dall'elenco consultabile presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto stenografico della seduta odierna (Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell'allegato A al resoconto della seduta odierna).

Discussione del disegno di legge: Disposizioni in materia di lavoro (Testo risultante dallo stralcio, disposto dal Presidente della Camera, ai sensi dell'articolo 123-bis, comma 1, del Regolamento, e comunicato all'Assemblea il 28 novembre 2023, degli articoli 10, 11 e 13 del disegno di legge n. 1532) (A.C. 1532​-bis-A).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge n. 1532-bis-A: Disposizioni in materia di lavoro (Testo risultante dallo stralcio, disposto dal Presidente della Camera, ai sensi dell'articolo 123-bis, comma 1, del Regolamento, e comunicato all'Assemblea il 28 novembre 2023, degli articoli 10, 11 e 13 del disegno di legge n. 1532).

Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato nell'allegato A al resoconto stenografico della seduta del 20 settembre 2024 (Vedi l'allegato A della seduta del 20 settembre 2024).

(Discussione sulle linee generali - A.C. 1532-bis-A​)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.

Il presidente del gruppo parlamentare MoVimento 5 Stelle ne ha chiesto l'ampliamento.

La XI Commissione (Lavoro) si intende autorizzata a riferire oralmente.

Ha facoltà di intervenire la relatrice, deputata Tiziana Nisini.

TIZIANA NISINI , Relatrice. Grazie, Presidente. È all'esame dell'Assemblea il disegno di legge n. 1532-bis-A recante disposizioni in materia di lavoro. Tale disegno di legge è collegato alla manovra di finanza pubblica. Derivante dallo stralcio del progetto iniziale, il suo esame in Commissione ha avuto inizio il 6 dicembre 2023 e si è concluso il 19 settembre 2024. Nel corso dell'esame in sede referente, il testo è stato ampiamente modificato: da iniziali 20 articoli siamo arrivati a 33 articoli. Il provvedimento è finalizzato ad introdurre norme di semplificazione e regolazione che incidono in materia di lavoro e politiche sociali, con particolare riferimento ai temi della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, della disciplina dei contratti di lavoro, dell'adempimento degli obblighi contributivi, nonché degli ammortizzatori sociali.

In materia di tutela e sicurezza del lavoro, il provvedimento prevede: con riferimento alla sorveglianza sanitaria dei lavoratori, che almeno 4 componenti della Commissione per gli interpelli abbiano un profilo professionale giuridico; che il Ministero della Salute aggiorni l'elenco dei medici competenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro in base alla verifica periodica del requisito specifico inerente all'educazione continua in medicina; che l'ipotesi di visita medica preventiva in fase preassuntiva costituisca una delle modalità di adempimento dell'obbligo di visita medica preventiva, intesa a contrastare l'assenza di controindicazioni al lavoro; la soppressione dell'ipotesi che la visita preassuntiva sia svolta dal Dipartimento di prevenzione dell'azienda sanitaria locale, anziché dal medico competente, e che quest'ultimo, nella prescrizione di esami ritenuti necessari in sede di visita preventiva, tenga conto delle risultanze dei medesimi esami e indagini già effettuati dal lavoratore al fine di evitarne la ripetizione, qualora lo ritenga compatibile con le finalità della visita preventiva; che l'obbligo di visita medica precedente alla ripresa del lavoro dopo assenza per malattia superiore a 60 giorni sussista solo qualora la visita sia ritenuta necessaria dal medico competente e, qualora questi non ritenga necessario procedere alla visita, è tenuto a dichiararlo tramite il rilascio di apposito giudizio di idoneità alla ripresa della mansione specifica; il differimento dal 31 dicembre 2009 al 31 dicembre 2024 del termine relativo alla conclusione, previa consultazione delle parti sociali, di un accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, per la definizione delle condizioni e delle modalità per l'accertamento della tossicodipendenza e dell'alcoldipendenza; che in via generale sia l'azienda sanitaria locale l'amministrazione competente per l'esame dei ricorsi contro i giudizi del medico competente; una modifica delle condizioni alle quali è subordinato lo svolgimento di lavori in locali chiusi, sotterranei o semi-sotterranei, tra l'altro sopprimendo la condizione della sussistenza di particolari esigenze tecniche e definendo una procedura amministrativa unica per la possibilità delle lavorazioni nei locali in oggetto; l'abrogazione esplicita di alcune norme relative agli obblighi inerenti alle tessere personali di riconoscimento nei cantieri edili, in considerazione del fatto che tale disciplina è stata successivamente definita dal decreto legislativo n. 81 del 2008, che, con riferimento a tutte le attività svolte in regime di appalto e subappalto, a prescindere dalla sussistenza o meno di un cantiere edile, richiede che i datori di lavoro muniscano i lavoratori dipendenti delle suddette tessere e che i medesimi lavoratori, nonché i lavoratori autonomi, tengano esposte tali tessere sul luogo di lavoro; la redazione da parte del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali di una relazione annuale sullo stato della sicurezza nei luoghi di lavoro, nonché sugli interventi da adottare e sugli orientamenti e i programmi legislativi che il Governo intende adottare al riguardo per l'anno in corso, da presentare alle Camere entro il 30 aprile di ciascun anno, con riferimento all'anno precedente.

Prevede inoltre: la modifica della disciplina per la definizione dei ricorsi in materia di applicazione delle tariffe dei premi per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali; che anche l'INAIL possa recuperare le somme indebitamente versate dallo stesso Istituto successivamente al decesso dei beneficiari; la modifica della disciplina concernente i ricorsi in materia di prestazioni dell'assicurazione contro gli infortuni in ambito domestico, prevedendo che gli stessi siano decisi dalla sede INAIL che ha emesso il provvedimento ritenuto illegittimo e non più dal comitato amministratore del Fondo autonomo speciale istituito ad hoc per la gestione delle prestazioni INAIL in favore dei suddetti lavoratori domestici; che dal 1° gennaio 2025 le comunicazioni di decesso trasmesse all'INPS siano messe a disposizione dell'INAIL (articolo 5).

In materia di ammortizzatori sociali e politiche formative il disegno di legge prevede: che il lavoratore che svolge attività di lavoro subordinato durante il periodo di integrazione salariale non abbia diritto al relativo trattamento per le giornate di lavoro effettuate presso un datore di lavoro diverso da quello che ha fatto ricorso ai trattamenti medesimi (articolo 6); per i fondi di solidarietà bilaterali costituiti successivamente al 1° maggio 2023, una disciplina per il trasferimento, presso i medesimi fondi, di una quota delle risorse finanziarie accumulate nel FIS dell'INPS (articolo 8); la facoltà di utilizzare le risorse del Fondo bilaterale dei lavoratori somministrati per la formazione dei candidati e dei lavoratori (sia a tempo determinato che indeterminato), nonché delle professionalità necessarie per soddisfare i fabbisogni delle imprese e l'attuazione del PNRR (articolo 9).

Inoltre: la possibilità di riconoscere un'indennità ai dipendenti a tempo indeterminato delle regioni che hanno prestato servizio a tempo determinato in attività di comunicazione e informazione per almeno tre anni, anche non continuativi, presso gli uffici stampa delle suddette amministrazioni in data antecedente all'entrata in vigore del contratto collettivo nazionale di lavoro Funzioni locali 2016-2018; l'incremento di 5 milioni di euro per il 2024 delle risorse destinate alla copertura delle spese di amministrazione degli enti privati gestori di attività formative (articolo 16); dal 2024, l'estensione a tutte le tipologie di apprendistato delle risorse destinate annualmente al solo apprendistato professionalizzante (articolo 15); la trasformazione del contratto di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale anche in apprendistato di alta formazione e ricerca, successivamente al conseguimento della qualifica o del diploma professionale (articolo 18); l'istituzione, presso il Ministero dell'Istruzione e del merito, dell'Albo delle buone pratiche dei percorsi per le competenze trasversali e l'orientamento e dell'Osservatorio nazionale per i percorsi per le competenze trasversali e per l'orientamento (articolo 31).

In materia di contratti a termine e di somministrazione, il disegno di legge esclude dal computo dei limiti quantitativi relativi alla somministrazione a tempo determinato di lavoratori - che non può superare il 30 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l'utilizzatore al 1° gennaio dell'anno di stipulazione dei medesimi contratti - i casi in cui la somministrazione a tempo determinato riguardi lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato o lavoratori con determinate caratteristiche o assunti per determinate esigenze; elimina la previsione secondo cui, se il contratto tra agenzia di somministrazione e lavoratore è a tempo indeterminato, non trovano applicazione i limiti di durata complessiva della missione a tempo determinato presso un soggetto utilizzatore e attualmente pari a 24 mesi; definisce le caratteristiche delle attività stagionali che, in base alla normativa vigente, sono escluse dall'ambito di applicazione dei termini dilatori per la riassunzione a tempo determinato di un lavoratore se richiamate nei contratti collettivi.

In materia di rapporto di lavoro il disegno di legge specifica che, fatte salve le previsioni più favorevoli della contrattazione collettiva, la durata del periodo di prova nell'ambito del rapporto di lavoro a tempo determinato è fissata in un giorno di effettiva prestazione per ogni 15 giorni di calendario a partire dalla data di inizio del rapporto di lavoro e, in ogni caso, la durata del periodo di prova non può essere inferiore a 2 giorni né superiore a 15 giorni per i contratti con durata non superiore a 6 mesi e non può essere inferiore a 2 giorni né superiore a 30 giorni per quelli con durata superiore a 6 mesi e inferiore a 12 mesi (articolo 13); prevede che il datore di lavoro comunichi, in via telematica al Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, i nominativi dei lavoratori e la data di inizio e di fine delle prestazioni di lavoro svolte in modalità agile entro 5 giorni dalla data di avvio del periodo, oppure entro i 5 giorni successivi alla data in cui si verifica l'evento modificativo della durata o della cessazione del periodo di lavoro svolto in modalità agile (articolo 14); dispone che l'assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, per un periodo superiore a 15 giorni, comporti la risoluzione del rapporto di lavoro per volontà del lavoratore e che a tale fattispecie non si applichi la disciplina vigente in materia di dimissioni telematiche. Tale previsione non si applica se il lavoratore dimostra l'impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano l'assenza.

In materia previdenziale e contributiva, il provvedimento introduce la possibilità, dal 1° gennaio 2025, di rateizzare fino a un massimo di 60 rate mensili i debiti per contributi, premi e accessori di legge, dovuti all'INPS e all'INAIL e non affidati agli agenti della riscossione, nei casi da definirsi con decreto ministeriale e secondo i requisiti, i criteri e le modalità successivamente stabilite da un atto emanato dal consiglio di amministrazione di ciascuno dei due enti; estende anche al personale a contratto degli uffici all'estero la possibilità già prevista per le PA, al fine dell'estinzione delle eventuali pendenze in materia di versamento dei contributi previdenziali relativi a dipendenti pubblici e concernenti i periodi di paga fino al 31 dicembre 2004, di trasmettere all'INPS le denunce retributive mensili inerenti al periodo suddetto (articolo 24); prevede che, in tutte le controversie in materia contributiva nelle quali l'INPS è parte convenuta, la notifica sia effettuata presso la struttura territoriale dell'ente nella cui circoscrizione risiedono i ricorrenti (articolo 25); consente al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, nonché agli altri organismi giuridici sottoposti a direzione, vigilanza e/o controllo del Ministero stesso, di avvalersi delle prestazioni offerte da INPS Servizi Spa, in conformità con l'oggetto sociale di quest'ultima (articolo 26). All'articolo 27 viene resa strutturale per talune categorie di dipendenti e di pensionati la possibilità di iscriversi alla Gestione unitaria delle prestazioni creditizie e sociali, non prevedendo un termine entro cui tale facoltà debba essere esercitata, come disposto invece dalla normativa vigente.

Ancora, il provvedimento uniforma i tempi di presentazione delle domande di accesso ad Ape sociale e di pensionamento anticipato con requisito contributivo ridotto, stabilendo che tali domande siano presentate entro il 31 marzo, il 15 luglio e, comunque, non oltre il 30 novembre di ciascun anno (articolo 28); prevede la possibilità per il lavoratore dipendente privato, in caso di contributi pensionistici non versati per inadempimento del datore di lavoro e caduti in prescrizione, di richiedere all'INPS, con onere a carico del lavoratore, la costituzione di una rendita vitalizia. Tale possibilità è riconosciuta qualora sia decorso il termine di prescrizione per l'omologa richiesta da parte del datore di lavoro (articolo 29).

Tra le ulteriori disposizioni del disegno di legge in esame si segnala l'estensione della sospensione della decorrenza dei termini relativi ad adempimenti tributari a carico dei liberi professionisti iscritti ad albi professionali - già prevista per i casi di ricovero ospedaliero, decesso, parto prematuro e interruzione di gravidanza - anche ai casi di ricovero ospedaliero del figlio minorenne che necessita di assistenza da parte del genitore libero professionista o di parto della libera professionista (articolo 7).

L'articolo 17 prevede l'applicabilità del regime forfettario previsto dalla normativa vigente agli iscritti ad albi e/o repertori professionali che esercitino attività libero professionale a favore di datori di lavoro che occupano più di 250 dipendenti, dai quali sono contestualmente assunti a tempo parziale e indeterminato. Segnalo, inoltre, la previsione della possibilità di svolgimento in modalità telematica e mediante collegamenti audiovisivi dei procedimenti di conciliazione in materia di lavoro (articolo 20); l'intervento di coordinamento normativo nell'ambito della disciplina transitoria sulla possibilità di assunzioni a tempo indeterminato, da parte delle pubbliche amministrazioni già utilizzatrici, dei lavoratori socialmente utili e di quelli impiegati in attività di pubblica utilità. L'intervento allinea formalmente il termine temporale del 31 dicembre 2022 con la proroga al 30 dicembre 2023, già disposta da un altro intervento legislativo (articolo 21).

Ancora, il riconoscimento della possibilità per le parti dell'atto di cessione di un bene immobile di dichiarare, in alternativa all'ammontare della spesa sostenuta, il numero della fattura emessa dal mediatore e la corrispondenza tra l'importo fatturato e la spesa effettivamente sostenuta, dovendo in ogni caso indicare le analitiche modalità di pagamento della stessa (articolo 22).

L'articolo 30 prevede che le riunioni degli organi statutari degli enti di diritto privato gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza possano svolgersi, anche in via ordinaria, mediante videoconferenza, anche per una sola parte dei componenti.

Ricordo, inoltre, il riconoscimento della possibilità per i vertici elettivi degli ordini e delle relative federazioni nazionali delle professioni sanitarie, se dipendenti del Servizio sanitario nazionale, di usufruire di permessi non retribuiti sino a un massimo di 8 ore lavorative mensili per la partecipazione ad attività istituzionali per le attività connesse all'espletamento del relativo mandato (articolo 33).

Infine, l'articolo 32 prevede disposizioni volte a potenziare il ruolo dei centri per la famiglia.

PRESIDENTE. Ha facoltà di intervenire il rappresentante del Governo, che rinunzia.

È iscritto a parlare il deputato Scotto. Ne ha facoltà.

ARTURO SCOTTO (PD-IDP). Signor Presidente, onorevoli colleghi, come gruppo del Partito Democratico, ma più in generale tutte le opposizioni, a un certo punto del percorso di questo collegato lavoro, abbiamo pensato di dover ingaggiare un investigatore privato per capire che fine avesse fatto questo testo tanto decantato da parte del Governo, collegato al decreto 1° maggio, che era in qualche modo il manifesto politico, legislativo, di cosa questo Governo volesse fare sulla materia del lavoro.

Abbiamo pensato di ingaggiare un investigatore privato, perché, quando un collegato a una legge di un anno prima viene depositato in Parlamento l'8 novembre del 2023, quando viene svolto un ciclo di audizioni abbastanza intenso, ma non lunghissimo, e si stabilisce il termine degli emendamenti al 23 marzo del 2024, poi, non si capisce francamente perché la Commissione lavoro abbia ricevuto i pareri sugli emendamenti, a spanne, all'inizio del mese di agosto. Lo dico perché so di toccare anche le corde sensibili di molti colleghi del centrodestra, a partire dalla relatrice, che ringrazio per il lavoro complesso che ha dovuto fare.

Lo dico così, signor Presidente, e per suo tramite al Sottosegretario Durigon, presente qui, in Aula: noi non siamo più disponibili a lavorare in queste condizioni soltanto perché tra il Ministero del Lavoro, il Ministero dell'Economia e delle finanze e i relativi uffici non c'è nessun canale di comunicazione aperto. Abbiamo assistito a una gestione quantomeno approssimativa, se non addirittura dilettantesca, da parte della Ministra Calderone, che ha ignorato sistematicamente tutti i tentativi, da parte dell'opposizione, di contribuire al miglioramento di questo testo.

Ne è uscito un testo voluminoso dal punto di vista degli articoli, ma striminzito dal punto di vista dei contenuti, semplicemente un ulteriore contributo alla deregulation del mercato del lavoro, con iniziative non soltanto discutibili, ma persino pericolose. Signor Presidente, se andiamo a vedere i dati, soprattutto quelli che riguardano i giovani di questo Paese, che dovrebbero essere il punto principale sul quale dovrebbe concentrarsi il lavoro di ciascuna e di ciascuno di noi, un assillo, un tormento, noi guardiamo una fuga, un esodo silenzioso: 100.000 ragazze e ragazzi, tra il 2022 e il 2023, che se ne sono andati via. A questi ragazzi, nel corso degli ultimi anni, che cosa è stato garantito? Un po' di lavoro nero, molto lavoro precario, salari da fame.

I dati - sono dati dell'Istat, non sono dati del Partito Democratico - ci dicono che, tra gli under 35, il 54,2 per cento ha svolto, almeno una volta nella vita, un lavoro a nero; il 61,5 per cento ha accettato un lavoro sottopagato e - sono i dati del 2023 - mentre cresce l'occupazione negli under 55, tra i 24 e i 35 anni è un meno 0,6 per cento, tra i 15 e i 24 anni è un meno 0,5 per cento. Ma aggiungo: di questi under 35, il 43 per cento guadagna meno di mille euro al mese. Il tasso di occupazione giovanile generale ci parla del 34,7 per cento dei ragazzi tra i 15 e i 35 anni occupati, mentre nel resto dell'Unione europea è il 50 per cento.

L'80 per cento degli under 30 - e chiudo con i numeri - ha un contratto somministrato, stagionale o intermittente. Sottosegretario Durigon, se questi dati sono veri - e immagino di sì, visto che li danno organismi ufficiali dello Stato -, voi tutto avreste dovuto fare, tranne che liberalizzare ulteriormente il lavoro in somministrazione; tutto avreste dovuto fare, tranne, durante il percorso della Commissione, allargare ulteriormente le maglie della stagionalità; tutto avreste dovuto fare, eccetto superare quella legge, che era una conquista di civiltà, che vietava le dimissioni in bianco; tutto avreste dovuto fare, tranne che intervenire attraverso un sistema di deregolamentazione del mercato del lavoro ancora più forte rispetto a quel cosiddetto decreto Primo Maggio su cui avete costruito una propaganda molto forte e che però, in realtà, degli interessi dei lavoratori si occupava veramente poco.

Perché sfido, signor Presidente, tutti i colleghi che sono seduti qui e anche il Governo ad andare a fare una visita fuori a un call center, andare a parlare con i giovani rider, andare a parlare con gli operai di una fabbrica, andare in un bar, andare in un negozio e chiedere se la misura che liberalizza integralmente i contratti a termine, eliminando le causali - misura introdotta nel decreto Primo Maggio -, è una misura che è considerata di civiltà, quando in tanti altri Paesi europei, a partire dalla Spagna, si va nella direzione di una limitazione drastica dei contratti a termine.

Sfido i colleghi a chiedere un po' in giro che cosa pensano, soprattutto giovani di questo Paese, dei voucher, che avete allargato a dismisura. Quando si toccano le regole del lavoro, bisognerebbe capire innanzitutto a chi si vuole parlare. A me sembra del tutto evidente che si sia deciso di parlare a una parte, a quella più forte, dandole ancora più forza. Guardate che consentire l'eliminazione del tetto sul lavoro somministrato significa che noi ci potremmo trovare, signor Presidente, per paradosso, con una fabbrica che ha il 100 per cento dei lavoratori in somministrazione dove non c'è nessun rapporto diretto tra il datore di lavoro e il dipendente, perché è tutta manodopera intermediata.

Ma voi pensate davvero di far risalire gli indici di produttività di questo Paese con questo livello di disintermediazione del lavoro? Pensate davvero che potete rilanciare la manifattura italiana in grande crisi? Perché, guardate, i dati che raccontate, poi, si scontrano con elementi di realtà. È di oggi il dato che rivede al ribasso le stime del prodotto interno lordo di questo Paese; certo, incide indubbiamente la frenata dell'industria dell'automotive tedesca, però noi non abbiamo attrezzato nessuna armatura per difendere la nostra manifattura, anzi, stiamo contribuendo ulteriormente, attraverso l'inazione di questo Governo, i ritardi, i tentennamenti, a una situazione sempre più complicata.

E quando noi vediamo queste scelte, non soltanto siamo preoccupati. Questo testo, che ha avuto questa gestazione così tortuosa, così complicata, alla fine si compone anche di qualche micro-segnale corporativo, allungamenti e rateizzazioni - chissà perché sempre quando riguardano i contributi per i lavoratori -, qualche altra operazione settoriale. Nulla, per esempio, dal punto di vista delle risposte per tanti lavoratori e tante lavoratrici che svolgono lavori gravosi e usuranti. C'è un collegato lavoro, si interviene su queste fattispecie.

Penso, per esempio, ai lavoratori portuali o ai lavoratori marittimi. Eppure, alle audizioni, questi elementi erano emersi; penso, ad esempio, al fatto che non si sia dato alcun impulso a rafforzare la contrattazione, come tra l'altro voi avevate segnalato in maniera molto forte in sede di discussione sul salario minimo, contrastandolo, e candidandovi come quelli che avrebbero aiutato la contrattazione e, diciamo, inciso in maniera molto significativa sui temi salariali. Invece, per voi la questione salariale nei fatti non esiste, a parte qualche mancia o mancetta che distribuite, a parte un cuneo contributivo che non renderete nemmeno questa volta strutturale, a parte un bonus che arriva fino a 100 euro sulla tredicesima, che riguarda una fascia molto limitata di lavoratori, su richiesta, con mille ostacoli. Lo dico al Sottosegretario Durigon, che spero mi ascolti: risparmiate ai lavoratori e alle lavoratrici di questo Paese, con il cosiddetto bonus tredicesima, qualcosa che assomiglia, almeno dagli annunci che avete dato, a una gara di decathlon; da questo punto di vista, provate a semplificargli la vita, visto che non siete riusciti, nemmeno in questo passaggio, a dare impulso, per esempio, al rinnovo di contratti collettivi nazionali importantissimi (dai metalmeccanici agli edili e ai ferrovieri); o, addirittura, con questo brillantissimo Ministro della Pubblica amministrazione Zangrillo, che ammette che non ci sono, neanche per quest'anno, le risorse per il contratto del pubblico impiego per oltre 3 milioni di lavoratori, ma, contestualmente, dice: sapete, vorrei eliminare il tetto dei 240.000 euro di stipendio annuo per i supermanager della pubblica amministrazione o delle aziende pubbliche.

Consiglio non richiesto: evitate, anche questa volta, di chiedere i sacrifici sempre alle stesse persone. Non è morale aiutare chi è più forte a guadagnare di più e non dare alcun segnale a chi, nel pubblico impiego, in questi anni, ha arrancato rispetto alla crescita impetuosa dell'inflazione e chiede, con il contratto, di recuperare tutta l'inflazione perduta. Accanto a questo, se si presenta un Collegato lavoro, si dovrebbe avere un'idea di come si interviene, ad esempio, rispetto ai vuoti che si stanno aprendo nella pubblica amministrazione. Entro il 2030 (sono dati del Ministero) un milione di lavoratrici e di lavoratori andrà in pensione; sono tanti, rischiano di non essere rimpiazzati, se questo è il ritmo dell'iniziativa del vostro Governo, ritmo troppo lento. Guardate, chi ha fatto l'amministratore, chi conosce il territorio sa benissimo che i comuni oggi soffrono tantissimo i vuoti delle piante organiche e non si possono rimpiazzare con contratti precari a termine o in somministrazione; potrei indicare 100 casi di vertenze aperte presso i singoli Ministeri di lavoro in somministrazione.

Occorre un piano, occorre un Piano straordinario di assunzioni per salvare il welfare e riformare lo Stato, signor Presidente, provare a salvare tante ragazze e tanti ragazzi dal precariato. Quando è lo Stato che produce precariato, ciò diventa un messaggio devastante: vale nella scuola, vale nella pubblica amministrazione, vale ovunque. Dunque, occorrerebbe intervenire su questo terreno, liberare i concorsi, sbloccare le graduatorie; abbiamo tanti ragazzi e tante ragazze idonei vincitori di concorso che non vanno a lavorare; occorrerebbe un piano, ma non c'è; non c'è un piano su questo terreno, non c'è un'idea, non c'è una scommessa sulla qualità del lavoro; al contrario.

Sulla qualità del lavoro si gioca in maniera drammatica; si gioca liberalizzando la somministrazione, per esempio, bocciando un emendamento del Partito Democratico che prevedeva il principio che, se tu hai lavorato in somministrazione per un certo numero di mesi all'interno di un'azienda, quando poi quell'azienda decide di assumere non in somministrazione hai un minimo di diritto di precedenza. Neanche questo, “zero tituli”, signor Presidente. E allo stesso tempo non si interviene su altri settori; non si interviene, appunto, sulla pubblica amministrazione, né sulla contrattazione; anzi, vi è una certa tendenza - non in questo testo, ma mi pare che questa sia l'aria che tira - a favorire, come sempre, contratti che non sono automaticamente quelli sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative. Abbiamo letto, con un certo stupore, che la Ministra Calderone ha officiato alla firma di un contratto multi-manifatturiero con un livello di rappresentanza di meno dell'1 per cento, facendolo passare come un contratto collettivo tra CONFSAL e CONFIMI - quindi né CGIL, CISL e UIL né, tantomeno, Confindustria - e, dunque, come un esempio della contrattazione.

Guardate che così si va a sbattere; se si pensa di costruire, da questo punto di vista, una contrattazione parallela senza un principio di rappresentanza nel momento in cui al CNEL sono depositati quasi 1.000 contratti, e, lavorando per superare il principio della confederalità si fa dumping salariale, si costruisce, ancora una volta, la strada - o meglio, un'autostrada - per il sottosalario e la deregulation più totale. Occorre, invece, una svolta; occorre una svolta sulla qualità del lavoro, e vado a concludere, Presidente. Significa che il contratto a tempo indeterminato deve costare di meno rispetto ai contratti a termine; significa che bisogna disboscare quella selva di contratti atipici che, invece, in questo Collegato lavoro vengono ulteriormente saltati; bisognerebbe ridurli drasticamente, utilizzarli solo in situazioni eccezionali, e invece voi seguite la strada opposta; bisognerebbe lavorare nella direzione del rafforzamento della stabilità del lavoro, perché stabilità del lavoro significa sicurezza e salute del lavoro; lo dice l'INAIL, affermando che chi è precario in questo Paese muore il doppio sui cantieri rispetto agli altri.

Io penso sia stato un piccolo segnale positivo il fatto che sia stato accolto un emendamento del Partito Democratico che impone al Ministro del Lavoro - noi auspichiamo che non duri molto questa Ministra, questo Governo - l'obbligo, dall'anno prossimo, di venire a relazionare in Parlamento sullo stato della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro. Quella relazione dovrà essere votata così la finiremo anche con la guerra dei numeri, con le interpretazioni di comodo e, forse, il Parlamento potrà, finalmente, dare un contributo, intervenendo in maniera molto più forte su questa materia per provare a spostare in avanti un'iniziativa che cancelli la pandemia dei morti sul lavoro, che sono il principale scandalo della vita democratica di questo Paese.

Per quanto riguarda la politica salariale, mi rivolgo ai colleghi e al Sottosegretario, veramente con grande rispetto.

Nove mesi fa, dopo un dibattito molto forte, molto duro - uno scontro politico vero -, avete cancellato la nostra proposta di legge sul salario minimo (1° dicembre 2023), dopo quasi un anno di dibattito parlamentare, e l'avete sostituita con una delega al Governo.

Già, signor Presidente, mi darà atto che è un po' singolare che una legge presentata dalle opposizioni insieme venga trasformata in una delega al Governo, ma il mondo va così e questa maggioranza ha questo livello di sensibilità democratica. Siccome non siete riusciti a bocciarla, l'avete sostituita. L'avete sostituita, producendo una scelta che comunque andava incontro, a modo vostro, al tema che noi ponevamo. Esiste un'emergenza salariale a partire da 3 milioni e mezzo di lavoratori poveri di questo Paese che guadagnano sotto i 9 euro. Se allarghiamo lo spettro - prima ho dato un po' di numeri -, sono 7 milioni e mezzo, dati della Fondazione Di Vittorio, i lavoratori e le lavoratrici di questo Paese che guadagnano meno di 13.000 euro all'anno.

Quindi, ci troviamo di fronte a dati che raccontano un'emergenza. Voi avete detto, sì, l'emergenza esiste, ma non l'affrontiamo con il salario minimo, l'affrontiamo con una delega al Governo, nella cui delega è scritto che bisogna applicare l'articolo 36 della Costituzione. Può apparire pleonastico, ma non lo è: l'articolo 36 della Costituzione stabilisce che le retribuzioni devono essere dignitose.

Come lei sa, signor Presidente, una delega dura sei mesi, soltanto che per essere applicabile quella delega dovrebbe essere approvata dall'altro ramo del Parlamento, siamo ancora in un regime di bicameralismo paritario. Sono passati nove mesi da quella delega, da quella operazione un po' - mi passi il termine - truffaldina, che aveva superato la proposta delle opposizioni. Nove mesi dopo, questo testo non è stato neanche incardinato nell'altro ramo del Parlamento. Mettiamo che lo facciano domani mattina, magari sulla base dell'appello che facciamo, e decidano di approvarlo in tempi rapidi, anche se credo che in mezzo ci siano altri provvedimenti, forse addirittura più impegnativi, e si vada verso gennaio. Quell'emergenza salariale, di cui anche il Governo si era fatto carico, evidentemente, non esiste dal loro punto di vista. È soltanto una bandierina agitata dal punto di vista propagandistico, perché nel frattempo abbiamo perso due anni, perché 15 mesi per approvare una delega, 6 mesi per esercitarla, mi pare che i tempi non soltanto siano allungati, ma ci portino verso la fine della legislatura.

Per queste ragioni - e concludo - ci troviamo di fronte a un testo che è un po' l'emblema di una svogliatezza, di una sciatteria, di una difficoltà, anche di governo, di processi molto delicati. Quando si tocca il mercato del lavoro, bisogna ascoltare le parti sociali, bisogna lavorare, perché esse si sentano protagoniste, bisogna anche dire da che parte si vuole andare. Mi pare che si voglia andare dalla parte di una deregolamentazione sempre più forte e sempre più spinta. Un'occasione sprecata, soprattutto per quello che non c'è dentro questo testo. Per queste ragioni, ripresenteremo i nostri emendamenti, faremo una battaglia molto forte in Aula. Vogliamo che questa discussione su un testo così debole sia, però, l'occasione per questo Parlamento per fare un punto rispetto a scelte politiche che questo Governo ha messo in campo e che sono il segno della natura di questa destra conservatrice, che passerà alla storia in maniera inequivocabile, perché ha trasformato il mercato del lavoro in un supermarket della precarietà, dello sfruttamento e del sotto salario.

Di fronte a questo lavoro che voi state facendo, di fronte a questa distruzione delle impalcature fondamentali del diritto del lavoro e dei diritti dei lavoratori, ci troverete sempre da un'altra parte, sempre dalla parte di chi difende il lavoro, dalla parte di chi difende il diritto a un'occupazione stabile, dalla parte di chi reclama un salario giusto e dignitoso, a partire al salario minimo legale orario, dalla parte di chi non si rassegna che i conflitti sociali, che la dialettica tra le parti sociali, anziché essere affrontata con la forza della politica, come avete fatto anche nell'ultimo DDL Sicurezza, l'affrontate con la forza dei reati.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Battilocchio. Ne ha facoltà.

ALESSANDRO BATTILOCCHIO (FI-PPE). Grazie, Presidente. Sottosegretario Durigon, onorevoli colleghi, il provvedimento oggi all'esame di quest'Aula è finalizzato a introdurre norme di semplificazione e regolazione che incidono in materia di lavoro e politiche sociali, spaziando tra più settori, dalla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro alla disciplina dei contratti di lavoro, dall'adesione agli obblighi contributivi alle misure in materia di politiche formative.

Nel corso dell'esame referente in Commissione lavoro c'è stato un dibattito ampio tra le parti. Le varie audizioni che si sono susseguite durante l'iter parlamentare hanno contribuito, attraverso i giudizi positivi e attraverso le criticità costruttive, a migliorare il testo di cui oggi discutiamo. Il disegno di legge risulta pienamente conforme agli indirizzi e alle politiche dell'Unione europea, finalizzate alla definizione di migliori condizioni di vita e di lavoro nell'Unione europea, definite nel pilastro europeo dei diritti sociali e nel correlato piano di azione.

Il provvedimento reca alcune novelle in materia di salute e sicurezza sul lavoro, prevedendo una procedura di comunicazione da parte del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, ovvero un aggiornamento dell'elenco dei medici competenti in tale materia, in base alla verifica periodica del requisito specifico relativo alla educazione continua in medicina.

Sono introdotte, inoltre, varie modifiche in materia di sorveglianza sanitaria dei lavoratori, riguardanti la visita medica preventiva e la visita medica precedente alla ripresa del lavoro dopo un'assenza. Dal 1° gennaio 2025, le comunicazioni di decesso trasmesse all'INPS dai medici necroscopici saranno messe a disposizioni dell'INAIL, con modalità concordate tra i due enti. Viene modificata l'attuale disciplina relativa alla compatibilità dei trattamenti ordinari o straordinari di integrazione salariale, con lo svolgimento di attività lavorativa, sia subordinata che autonoma, e di obbligo di comunicazione da parte del lavoratore dello svolgimento di tale attività lavorativa.

Di rilievo, anche l'estensione della sospensione della decorrenza dei termini relativi ad adempimenti tributari a carico dei liberi professionisti iscritti ad albi professionali - prevista per i casi di ricovero ospedaliero, decesso, parto prematuro e interruzione della gravidanza - anche ai casi di ricovero ospedaliero del figlio minorenne che necessita di assistenza da parte del genitore libero professionista e alla gravidanza della libera professionista. Di grande rilievo anche la parte riguardante la previsione dell'inapplicabilità della causale per il contratto a tempo determinato per i lavoratori in mobilità, in disoccupazione, svantaggiati e molto svantaggiati, onde favorirne l'assunzione, nonché la previsione che, in caso di assunzione del lavoratore somministrato con contratto di lavoro a tempo indeterminato nell'ambito di una somministrazione a termine, è possibile superare il limite di durata, pari a 24 mesi, per un nuovo contratto.

Il testo reca, inoltre, una norma di interpretazione autentica, riferita alla disciplina sull'esclusione delle attività stagionali dall'ambito di applicazione dei termini dilatori per la riassunzione a tempo determinato di un lavoratore. Viene, inoltre, specificata la durata del periodo di prova nell'ambito del rapporto di lavoro a tempo determinato, fissato in un giorno di effettiva prestazione per ogni 15 giorni di calendario a partire dalla data di inizio del rapporto di lavoro. Il DDL reca misure in materia di politiche formative nell'apprendistato, nonché un incremento delle risorse destinate alle spese generali di amministrazione degli enti privati gestori di attività formative, con un incremento per il 2024 di 5 milioni di euro. Vengono, poi, ridotte alcune deroghe al divieto dell'applicazione del regime forfettario previsto per le persone fisiche che esercitano attività prevalentemente nei confronti del datore di lavoro.

Mi soffermo, inoltre, sulla parte che dispone che l'assenza ingiustificata del lavoratore, protratta oltre un dato termine, quello previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro, o per un periodo superiore a 15 giorni, comporti la risoluzione del rapporto di lavoro per volontà del lavoratore, salvo che lo stesso dimostri l'impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano l'assenza. Questo, lo ricordo, è frutto di un emendamento di Forza Italia in Commissione. Sempre nell'ottica di uno snellimento procedurale, si dispone che i procedimenti di conciliazione in materia di lavoro possano svolgersi in modalità telematica.

Per quanto riguarda l'ambito sociale, appaiono positive alcune misure, quali il rafforzamento dei centri per la famiglia, che svolgono importanti funzioni di supporto e di informazione alle famiglie e che costituiscono un importante punto di riferimento per queste ultime: un luogo accogliente, che fornisce risposte ai bisogni di cura, relazione, educazione e organizzazione familiare. Viene, poi, introdotta la possibilità di forme di rateizzazione, dal 1° gennaio 2025, fino a un massimo di 60 rate mensili, dei debiti per contributi, premi e accessori di legge, dovuti all'INPS e all'INAIL e non affidati agli agenti della riscossione. Ciò contribuisce alla realizzazione di una semplificazione procedimentale per il richiedente e, nel contempo, ha come obiettivo quello di ridurre i costi amministrativi.

Nell'ottica della trasparenza, il provvedimento reca disposizioni relative alla dichiarazione della spesa sostenuta per attività di mediazione in caso di cessione di immobili, per favorire una leale concorrenza in ambito lavorativo tra gli operatori professionali del settore specifico, oltre a tutelare l'autonomia contrattuale dei cittadini nel concordare la provvigione con il professionista. Inoltre, il DDL introduce disposizioni in materia di percorso per le competenze trasversali e per l'orientamento presso le istituzioni scolastiche.

Concludo, Presidente, sottolineando che questo provvedimento riveste grande importanza, perché incide su aree particolarmente rilevanti, come la sicurezza sul lavoro, che è un tema prioritario reso ancora più urgente dai fatti di cronaca, anche recenti e purtroppo molto gravi, integrando la normativa già esistente e introducendo nuove misure specifiche. Siamo davanti a una sfida importante e l'approvazione di questo DDL rappresenterà un importante passo in avanti per migliorare la sicurezza sul lavoro e la tutela dei lavoratori, grazie all'impegno del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, il sostegno dell'INAIL e l'introduzione e attuazione di nuove misure.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Tucci. Ne ha facoltà.

RICCARDO TUCCI (M5S). Grazie, Presidente. Presidente, se me lo permette, vorrei dare un titolo a questo mio intervento. Il titolo è: cosa avete da esultare? Colleghi, ormai da qualche tempo sentiamo i toni trionfalistici del Governo in merito ai dati sul lavoro, senza però capirne i reali motivi. Infatti, il Governo riconduce a sé improbabili meriti per numeri su cui le vostre misure nulla hanno a che vedere. Ci domandiamo cosa ci sia, dunque, da esultare. Infatti, i veri numeri, nonché gli unici numeri su cui il Governo, il vostro Governo, poteva e doveva intervenire, ve li elenco a breve, e dopo vedremo insieme di capire se avete la risposta alla domanda: cosa avete da esultare?

Il vostro modo di intendere il lavoro è un concetto arcaico, a favore del padrone. Guardandovi, guardandovi lavorare, mi sembra di essere tornato agli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, quando c'erano le lotte degli operai contro i padroni, quando c'erano gli scioperi nelle fabbriche, dove una parte della politica si schierava a favore dei lavoratori e un'altra parte della politica si schierava a favore delle imprese. Erano anni diversi, c'erano motivi diversi ed erano tempi diversi, anche la politica era diversa. Tuttavia, il vostro modo di intenderla ci riporta in quegli anni lì, in cui quella parte di politica faceva sempre ed esclusivamente provvedimenti a favore dei potenti, sottomettendo i poveri operai. Io non ho mai condiviso, ovviamente, questo modo di operare e, soprattutto, non lo posso condividere nel 2024. Non posso pensare che, nel 2024, si tenda ancora a creare delle sacche di precariato e a creare un lavoro di qualità, evidentemente, scarsissima; un lavoro di qualità che oggi gli imprenditori, invece, cercano. Oggi l'imprenditore non cerca più un dipendente da schiavizzare, da manipolare e da pagare poco, oggi gli imprenditori, in tutta Italia, dal Sud al Nord, cercano qualità. Se ci si mette a ragionare con l'imprenditore, oggi ci si rende conto che nessun imprenditore si lamenta dello stipendio o del fatto che vorrebbe pagare di meno; gli imprenditori si lamentano del fatto che non riescono a trovare qualità. Vede, Presidente - e attraverso lei mi rivolgo anche al Sottosegretario qui presente -, oggi l'impresa cerca la qualità e la qualità non gliela si dà, se non c'è la garanzia per il lavoratore di essere, in qualche modo, riconosciuto o appagato dal suo lavoro. Nessun dipendente darà mai il massimo, se non si sente valorizzato all'interno dell'azienda in cui lavora.

Il vostro metodo - e permettetemi una breve parentesi su un qualcosa che, in qualche modo, mi tocca, perché ci ho lavorato da parlamentare ed è un qualcosa su cui ci siamo battuti - è perfettamente rappresentato da una situazione che riguarda due categorie di lavoratori presenti oggi al Sud d'Italia e, in particolare, in Calabria: sono i lavoratori socialmente utili - che sicuramente il Sottosegretario ricorderà - e la categoria dei cosiddetti tirocinanti. Ebbene, se guardate la storia di queste due categorie, vi renderete conto che, nella scorsa legislatura, quando noi eravamo al Governo, nel cosiddetto “Conte 2”, in relazione ai primi - i lavoratori socialmente utili - noi abbiamo lavorato, abbiamo combattuto e siamo alla fine riusciti a stabilizzarli e a dare loro un lavoro vero, uno stipendio vero e la possibilità di arrivare a fine mese in modo più tranquillo e sereno; soprattutto, abbiamo dato loro la possibilità di arrivare a fine anno, senza la spada di Damocle, che pendeva sulla loro testa, del mancato rinnovo dei contratti, perché questo è successo per tantissimi anni. Ebbene, noi abbiamo combattuto e li abbiamo stabilizzati. L'altra categoria - i cosiddetti tirocinanti - si trova, invece, suo malgrado, da voi rappresentata. Andateli a vedere! Vi invito ad andare a vedere gli annunci dei vostri colleghi di maggioranza e, ogni qualvolta si parla dei tirocinanti, si parla solo ed esclusivamente di proroga del loro contratto di lavoro - un contratto che neanche esiste, se vogliamo essere pignoli - e del loro operato. Mai nessuno di voi - e avete la responsabilità di Governo, a livello nazionale e regionale! - si è battuto per dar loro un lavoro stabile e a tempo indeterminato.

Il modo, per l'appunto, di intendere il lavoro da parte vostra e da parte nostra è perfettamente, a mio avviso, rappresentato da queste 2 categorie: da una parte chi si occupa e si batte per dare stabilità e tranquillità; dall'altra chi si batte - si fa per dire - per continuare a dare semplicemente lavoro precario. Tornando al provvedimento, il Governo e questa maggioranza hanno dimostrato un'assoluta incapacità di gestire le risorse e le esigenze del Paese. Ricordiamolo: questo è un testo collegato alla legge di bilancio del 2022. Siamo rimasti in una situazione di stallo per mesi, uno stallo per giunta ingiustificabile, considerata la situazione del nostro mercato del lavoro, che non è per l'appunto quella che viene descritta da questo Governo.

Perché, vi dico, non è questa? Perché, secondo i dati pubblicati da Istat nel rapporto annuale del 2024, il tasso di occupazione in Italia è del 62 per cento, ovvero 8 punti in meno rispetto alla media europea. Inoltre vantiamo dei tristi primati: vantiamo il primato sul numero di inattivi; vantiamo il primato sul numero di donne e di giovani senza lavoro; vantiamo il primato del part time involontario; vantiamo il primato delle basse retribuzioni; vantiamo il primato della scarsa produttività, del lavoro povero, sommerso e del lavoro autonomo. Anche qui, sul lavoro autonomo, da 20 anni rappresenta una sacca di lavoro precario fantasma. Allora vi ripeto la domanda: cosa avete da esultare?

Anche in base ai dati Eurostat del 2023, l'Italia è il Paese con il tasso di occupazione più basso fra i Paesi dell'Unione europea e registra una crescita più lenta rispetto ai Paesi europei, anche sul fronte dei salari, che, fatti i dovuti calcoli con l'inflazione, sono addirittura scesi negli ultimi 30 anni. I salari in Italia sono più bassi rispetto a quelli che erano nel 1992. Istat, ad esempio, ci dice che negli ultimi 20 anni l'occupazione italiana è cresciuta in valore assoluto da 22 a 24 milioni di occupati ed è passata dal 57 al 62 per cento, ma anche qui siamo ai dati più bassi d'Europa.

Nello stesso arco temporale, basti pensare questo, in Germania il tasso è salito di 13 punti; quindi da noi è salito di 5 punti, da loro è salito di 13 punti. L'occupazione stabile, a tempo indeterminato, ci dice sempre l'Istat, è aumentata solo fra gli over 50, mentre in tutte le altre fasce d'età è diminuita, anche per un fattore demografico. Questo cosa significa? Che l'Italia invecchia e fa meno figli. Cosa avete da esultare, ripeto la domanda? C'è stato poi - e qui si aggrava la situazione - un incremento del lavoro a tempo determinato, sono incrementati i voucher, la somministrazione, il lavoro a chiamata e le collaborazioni occasionali. Se la quota in Italia è in linea con il resto d'Europa, il 16 per cento, così come il part time, il 18 per cento, più o meno nella media europea, il nostro Paese è primo per il part time involontario.

Attenzione, il part time involontario è il part time non voluto, cioè è rappresentato da quelle persone che sono costrette ad accettare un tempo di lavoro part time, quindi non è una ricerca, e siamo primi in Europa. La cosa più grave è che, spesso, il part time involontario è subito dalle lavoratrici. Basti considerare che per il 53 per cento degli occupati a tempo parziale è imposto, quindi è costretto ad accettare questo tipo di lavoro.

Andando avanti, il triste primato italiano si concretizza anche in quella che Istat chiama la doppia vulnerabilità, ovvero contratti di lavoro di collaborazione a tempo determinato e part time: cioè non solo non hai un lavoro stabile, ce lo hai a tempo determinato, precario e part time. Quindi immaginate che tipo di stipendio può vedersi riconosciuto un dipendente. Questa parte dei lavoratori italiani è quella con i salari più bassi, sia quelli annuali sia quelli orari, è la cosiddetta sacca di lavoro povero, quella che avrebbe beneficiato, in parte, del salario minimo. Sì, proprio quel salario minimo che questo Governo ha ostinatamente combattuto, che questo Governo in nessun modo vuole applicare.

Abbiamo sentito anche battutacce da parte di alcuni massimi esponenti di questo Governo che hanno detto: abbiamo bisogno del salario massimo in Italia, non del salario minimo. Quindi ci stanno indirettamente dicendo che dobbiamo aumentare lo stipendio a chi già sta bene e fregarcene di chi, invece, guadagna 2, 3 o 4 euro all'ora. Proprio quel salario minimo che avrebbe ridato dignità a circa 4 milioni di lavoratori, 4 milioni di persone. Volete ridere? Purtroppo - purtroppo per voi - parte di questi 4 milioni di lavoratori che oggi percepiscono uno stipendio così basso da essere considerati lavoratori poveri sono gli stessi che percepivano il reddito di cittadinanza come misura di integrazione al loro stipendio.

Per voi erano divanisti, nella migliore delle ipotesi, salvo addirittura criminalizzarli; li avete criminalizzati perché percepivano il reddito e andavano a lavorare. Non vi siete resi conto che era proprio quella la cosa grave: dover essere costretti a percepire il reddito di cittadinanza come misura di integrazione perché lo stipendio che percepisci è troppo basso. Quello è il fallimento dello Stato sociale. Noi, inserendo il salario minimo e il reddito di cittadinanza, avremmo permesso agli stessi lavoratori poveri di fare a meno del reddito di cittadinanza, quindi gradualmente avremmo abbassato e abbattuto la spesa sul reddito di cittadinanza per poter far sì che venissero aumentati gli stipendi di questi lavoratori poveri.

Purtroppo, la visione politica che abbiamo è, evidentemente, completamente diversa. Andando avanti, in Italia, inoltre, ormai la flexicurity è diventata precarietà cronica senza sicurezza: non è stato dato più valore al lavoro e, pertanto, si è scivolati nella competizione globale con il cosiddetto dumping salariale, spesso diventando fornitori di lavoro a basso costo. I dati di oggi sull'occupazione in crescita non ci devono trarre in inganno. Il punto, infatti, non è solo più lavoro; il punto è la qualità di lavoro, perché, laddove aumenta l'occupazione in virtù di un basso costo del lavoro, allora ne consegue il mancato aumento dei salari.

Cosa significa? Significa che, a regole attuali, più aumenta l'occupazione in determinati posti, più significa che in quel posto i salari sono bassi, perché le imprese investono lì dove i salari sono bassi, e questo è un fattore gravissimo, perché la qualità viene meno. Non solo la qualità del lavoro, ma anche la qualità dell'eventuale prodotto o servizio che quelle imprese dovrebbero fornire. Noi ci troviamo in alcuni casi addirittura a farci concorrenza, ad esempio, nel settore dei call center.

Pensateci, ognuno riceve o è costretto a dover usufruire di call center in merito a dei contratti di abbonamento che ha in casa su servizi TV o servizi telefonici. Quante volte abbiamo a che fare con stranieri che rispondono al telefono e spesso non capiscono, non riusciamo nemmeno a comprenderci, perché non parlano neanche bene l'italiano? Vedete, se ci fate caso, ultimamente cosa sta succedendo? Che questi stranieri sono sempre di meno e il servizio, gradualmente, sta rientrando in Italia.

Ma questo, per assurdo e paradossalmente, non è un dato positivo. Quando quel servizio, che spesso è fornito dall'Albania, dalla Polonia o dalla Romania, rientra, vuol dire che l'impresa ha trovato maggiore beneficio economico a portarlo in Italia. Tradotto in italiano, significa che lo stipendio che dà al dipendente italiano è più basso di quello che darebbe al dipendente albanese.

Ecco perché vi dico che il dato oggettivamente e semplicemente numerico non dovete guardarlo solo sul numero, ma dovete, anzi, dobbiamo cercare anche di capire se è o meno un dato di qualità.

Io l'avevo già citato in un mio precedente intervento - se lo ricorderà il Sottosegretario Durigon - quando, a distanza di un anno dall'entrata in vigore del decreto Dignità, era aumentato il dato dei contratti di lavoro a tempo indeterminato e la garanzia della qualità del lavoro. Ecco, quello adesso è aumentato, ma con lo stipendio più basso. Ai tempi - lo ricordo benissimo - erano anche parificati gli stipendi, allo stesso livello di servizio. Lei lo ricorda meglio di me, Sottosegretario. Mi scusi, Presidente.

Quindi, all'aumentare dell'occupazione, consegue un mancato aumento dei salari, come del reddito e della distribuzione, ovverosia, un mancato incremento corrispondente in termini di PIL e di crescita reale per il sistema Paese.

Le misure previste da questo provvedimento in nessun modo andranno a risolvere i dannosi e annosi problemi che affliggono questo mercato e il nostro mercato del lavoro; anzi, siamo certi che avranno dei peggioramenti. Basti pensare alla liberalizzazione selvaggia della somministrazione del lavoro, che non porterà altro che ulteriori sacche di precariato o, peggio, basti pensare alla reintroduzione delle cosiddette dimissioni in bianco, mascherate da licenziamento a seguito di un tot di giorni di assenza. Lì, avete bocciato degli emendamenti che, in qualche modo, avrebbero azzerato questa norma. Noi, comunque, li ripresenteremo e li porteremo con forza avanti, perché è bene che tutti sappiano cosa significa reintrodurre le dimissioni in bianco. Così torniamo un'altra volta agli anni Sessanta e Settanta: all'epoca, chi assumeva si faceva contestualmente firmare le dimissioni in bianco; questo non è possibile nel 2024.

Quindi, questo provvedimento è l'ennesima dimostrazione di una mancanza di competenza e di visione strategica che non possiamo più tollerare. È il momento di cambiare rotta in modo deciso per il bene del Paese e dei suoi cittadini. Alla luce di tutto ciò, ora vi chiedo e rispondete alla mia domanda: cosa avete da esultare?

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Volpi. Ne ha facoltà.

ANDREA VOLPI (FDI). Presidente, Governo, onorevoli colleghi, il provvedimento in discussione è l'ennesimo tassello di un mosaico che rappresenta l'insieme delle azioni, delle misure e dei provvedimenti che il Governo Meloni ha attuato sul fronte lavoro. Un disegno di legge del Governo, collegato al DL Lavoro del 1° maggio 2023, che interviene, ancora una volta, sulla sicurezza sul lavoro, aumentando i controlli e potenziando le dotazioni di uomini e mezzi degli ispettorati. Il collegato Lavoro è il veicolo con cui portiamo avanti un percorso iniziato più di un anno fa.

Il raggio d'azione del provvedimento è ampio e al suo interno trovano posto le nuove regole sulla compatibilità di cassa integrazione allo svolgimento delle attività lavorative, il potenziamento dei poteri ispettivi INPS, la costituzione dell'Albo delle buone pratiche di scuola-lavoro, oltre all'Osservatorio nazionale costituito ad hoc.

Ad una sinistra che racconta di un provvedimento sconnesso dalla realtà, che favorisce i contratti precari e i licenziamenti facili e che, ad oggi, ha tutte le soluzioni - compresa quella del salario minimo - per risolvere i problemi del lavoro, è sufficiente contrapporre il record di assunzioni raggiunto nei primi due anni di Governo a guida Fratelli d'Italia.

Da quando è in carica il Governo Meloni, infatti, gli occupati sono cresciuti quasi di 800.000 unità: dati facilmente leggibili, se si confrontano i 23.225.000 occupati di novembre 2022 con i 24.009.000 di luglio 2024. Possiamo affermare con soddisfazione che nel nostro Paese non vi è stato mai così tanto lavoro. Lo dimostra il tasso occupazionale, che è pari al 62,3 per cento e, ancor di più, il tasso occupazionale femminile che ha raggiunto la quota del 53,6 per cento.

Al crescere del tasso occupazionale segue il calo della disoccupazione: anche in questo caso, a rendere forti queste dichiarazioni corrono in nostro soccorso i numeri.

Con i primi due anni di Governo Meloni il tasso di disoccupazione è sceso al 6,5 per cento, così com'è sceso anche il tasso di disoccupazione giovanile. L'efficacia delle azioni sul settore ha prodotto incrementi in tutte le forme di lavoro, ma a crescere di più è il lavoro stabile, quindi, i lavoratori a tempo indeterminato: aumento che, negli ultimi 12 mesi, ha realizzato un più 437.000 unità.

L'andamento dell'occupazione parla chiaro: il mercato del lavoro ha ripreso a muoversi in direzione positiva, apportando un grande supporto all'intero sistema economico dell'Italia, tanto che, tra i Paesi dell'Unione europea, siamo la Nazione con i dati migliori.

Ma non sono solo le iniziative volte all'aumento dell'occupazione ad essere rilevanti nel raggiungere questi risultati: una spinta altrettanto importante è, senza dubbio, arrivata grazie al taglio del cuneo fiscale. Una misura, questa, auspicata dai datori di lavoro, raccomandata dall'Europa e che è fondamentale per sostenere le imprese e le famiglie, nonché il potere di acquisto delle loro retribuzioni: pertanto, il Governo Meloni punta a renderla strutturale e continua per i redditi fino a 35.000 euro.

Tutte le azioni in tema di lavoro, promosse in questi due anni, hanno un unico comune denominatore e, cioè, promuovere il lavoro e la produttività e rimettere in moto l'economia circolare, senza concedere sussidi fini a se stessi. L'Italia, per noi, resta una Repubblica fondata sul lavoro e non sui bonus e sui sussidi. In particolare, il provvedimento in esame si occupa di svariati ambiti collegati al mondo del lavoro: tutela e sicurezza, ammortizzatori sociali, politiche formative, contratti a termine e di somministrazione, rapporti di lavoro in materia previdenziale e contributiva.

Senza dubbio, il tema della salvaguardia della salute e della sicurezza dei lavoratori rappresenta, per il Governo, una priorità e, fin dall'insediamento, si è intervenuti per arginare il fenomeno delle morti bianche e dei gravi infortuni sul lavoro, pensando, non solo ai lavoratori di oggi, ma anche a quelli di domani.

Si sono introdotti interventi trasversali che guardano al mondo del lavoro, delle imprese e della scuola, con linee di azione chiare che riguardano la prevenzione, la formazione, la sensibilizzazione e l'osservanza delle regole, con la specifica previsione di strumenti efficaci: azioni urgenti e doverose volte a dare un segnale forte non solo ai datori di lavoro, ma anche ai lavoratori stessi. Investimenti che hanno la chiara vocazione di tutelare gli infortunati sul lavoro ma, ancor di più, di prevenire gli incidenti, di contrastare il lavoro sommerso, di tutelare la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro.

Gli interventi su questo fronte sono stati diversi: si è partiti con l'approvare una legge che introducesse l'insegnamento del diritto al lavoro e della sicurezza nei luoghi di lavoro tra le materie di studio delle scuole di secondo grado, affinché questo tema non resti solo una materia confinata ai cantieri. È fondamentale ribaltare quel paradigma che vede gli investimenti sulla sicurezza solo un costo e non un'opportunità e per farlo è necessario parlare ai giovani, ai ragazzi.

E in questa direzione va anche la patente a crediti: misura auspicata e richiesta da decenni, soprattutto dalle rappresentanze sindacali, e che vedrà la sua applicazione a partire dal prossimo ottobre. Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto attuativo del Ministero del Lavoro contenente il regolamento, infatti, si potrà far partire questo nuovo metodo di incentivazione per le aziende, utile a migliorare gli standard di sicurezza.

La sfida di un mondo del lavoro più sicuro sarà vinta solamente quando la cultura della prevenzione si diffonderà in modo capillare. Per tale motivo, è giusto sostenere le aziende - quelle virtuose - anche attraverso politiche di premialità. Lo stanziamento, infatti, di un miliardo e mezzo assieme all'INAIL va proprio in questa direzione.

Tuttavia, le iniziative messe in campo in questi due anni non riguardano solo la formazione e la prevenzione, ma anche azioni concrete che, da subito, hanno mostrato risultati tangibili: una su tutte, lo sblocco delle assunzioni presso l'Ispettorato del lavoro, attraverso un piano che prevede un incremento del numero delle ispezioni già entro la fine del 2024, con una maggiorazione del 20 per cento delle ispezioni.

Secondo le stime, con questo nuovo organico, già nel 2024 sarà possibile effettuare il 40 per cento in più delle ispezioni realizzate nel 2023: nel 2023, infatti, sono stati 92.658 gli accessi ispettivi, dei quali 20.755 inerenti alla vigilanza in materia di salute e sicurezza, con un incremento di 3.720 ispezioni rispetto all'anno precedente.

Per il comparto edile, le irregolarità registrate hanno fatto segnare una cifra pari al 76,48 per cento, con un tasso di irregolarità media che supera l'85,2 per cento nel caso di aziende impegnate in lavori collegati al superbonus 110 per cento.

Sempre restando in materia di sicurezza, voglio segnalare che all'interno del disegno di legge in discussione l'articolo 1 prevedeva misure aventi come obiettivo quello di promuovere un'efficace strategia di contrasto al fenomeno del caporalato. L'articolo è stato soppresso non perché il tema non stesse a cuore a questa maggioranza, ma perché la stesura del DL Agricoltura per motivi temporali ed emergenziali ha risposto in modo concreto a quella che, negli ultimi tempi, si è rivelata una vera e propria emergenza. A sostegno dell'attenzione che questo Governo pone sul tema giova ricordare che, in seguito al caso di Latina, è stata condotta la più grande operazione di vigilanza in agricoltura mai svolta in un'unica giornata e ciò è stato possibile solamente con l'attività effettuata, in maniera congiunta, dal Comando carabinieri per la tutela del lavoro e dall'Ispettorato nazionale del lavoro.

Tornando all'esame del collegato Lavoro, sempre in tema di tutela dei lavoratori all'articolo 1 si interviene sul miglioramento dell'organizzazione della sorveglianza sanitaria dei lavoratori, non solo promuovendo commissioni più competenti, ma anche attraverso l'aggiornamento, da parte del Ministero della Salute, dell'elenco dei medici competenti in base alla verifica periodica del requisito specifico inerente all'Educazione Continua in Medicina e con maggiori accorgimenti nelle visite mediche, sia prima di un'assunzione sia alla ripresa del lavoro.

Sempre in merito agli interventi in materia di tutela e sicurezza del lavoro, mi preme sottolineare alcune semplificazioni, quali la modifica delle condizioni alle quali è subordinato lo svolgimento di lavori in locali chiusi, come sotterranei o semisotterranei, sopprimendo le condizioni della sussistenza di particolari esigenze tecniche e definendo una procedura amministrativa unica per la possibilità delle lavorazioni nei locali in oggetto, oltre all'abrogazione di alcune norme relative agli obblighi inerenti le tessere personali di riconoscimento nei cantieri edili.

Nel provvedimento si interviene, poi, in materia di ammortizzatori sociali e di politiche formative, in materia di contratti a termine e di somministrazione, in materia di rapporti di lavoro e in materia previdenziale e contributiva.

In conclusione, questo provvedimento si occupa di diversi aspetti del sistema lavoro, aspetti che agli occhi di alcuni possono sembrare secondari ma che risultano, invece, fondamentali affinché la strada intrapresa da questo Governo in tema di politiche per l'occupazione continui a raggiungere i risultati conquistati già in questi primi due anni. I dati parlano chiaro e le mistificazioni delle opposizioni lasciano il tempo che trovano.

La scelta di abolire i bonus a pioggia e i sussidi fini a se stessi, favorendo misure di inclusione, di formazione e di incentivazione alle assunzioni si è rivelata vincente. Questo provvedimento è solo un altro dei lastroni che compongono la strada su cui l'Italia ha ricominciato a correre.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Ghirra. Ne ha facoltà.

FRANCESCA GHIRRA (AVS). Grazie, Presidente. Onorevoli colleghe e colleghi, signor Sottosegretario, questo disegno di legge, collegato alla legge di bilancio, ha avuto un percorso lungo e travagliato, dilatato non tanto dagli emendamenti delle opposizioni quanto dal ritardo dei Ministeri nel fornire i pareri; preciso segno a nostro avviso delle enormi contraddizioni in seno al Governo e alla maggioranza. Per verificarlo basta prendere in considerazione il consistente numero degli articoli soppressi o aggiunti in corso d'opera. Ora ci si trova di fronte a un testo quasi completamente modificato, stravolto dagli emendamenti della relatrice, del Governo e della maggioranza, ma che non rappresenta affatto una riscrittura soddisfacente, perché, da una parte, non affronta i nodi del lavoro povero e precario e, dall'altra, ripropone agevolazioni e riduzioni per i datori di lavoro che non sono stati in regola con il pagamento dei contributi previdenziali, percorrendo o continuando a percorrere una strada che non garantisce i frutti sperati neanche rinunciando a parti consistenti dei contributi evasi.

Entrando nel merito del provvedimento, segnalo che, con la soppressione dell'articolo 1, si è persa l'occasione di produrre un passo avanti nel contrasto al caporalato e allo sfruttamento, ancora relegati al solo settore agricolo, quando, invece, in questo disegno di legge si sarebbe potuto estendere il sistema informativo per la lotta al caporalato e allo sfruttamento, oggi, appunto, finalizzati al solo settore agricolo, anche ad altri settori che ugualmente vedono forme di caporalato e di sfruttamento, quali la logistica o la distribuzione commerciale, segnate da una forte esposizione allo sfruttamento. Questo è stato impedito con la motivazione che l'istituzione del sistema informativo era già prevista dall'articolo 2-quater del decreto-legge n. 63 del 2024, recante disposizioni urgenti per le imprese agricole, della pesca e dell'acquacoltura, nonché per le imprese di interesse strategico nazionale. Questa cosa è senz'altro vera, ma non ostava all'estensione ad altri settori per quanto riguarda l'analisi, il monitoraggio e la vigilanza sullo sfruttamento.

È del tutto evidente che si tratta di una decisione politica per non affrontare uno dei tanti nodi e una delle maggiori criticità nel mondo del lavoro.

All'articolo 2, che interveniva su modifiche al decreto legislativo n. 81 del 2008, si è giustamente prodotta la soppressione della lettera b), punto 1), in materia di rappresentanza dei lavoratori, che aveva destato forti perplessità tanto sul fronte sindacale che su quello datoriale. Il Governo proponeva di sostituire le organizzazioni comparativamente più rappresentative con la dicitura “maggiormente rappresentative”, aprendo la strada e, di fatto, sostenendo accordi pirata. In questo caso sono state accolte le proposte di soppressione dei sindacati presentate dalle opposizioni.

Per quanto attiene alle norme di cui alla lettera e), il Governo è intervenuto sull'articolo 65 del decreto legislativo n. 81 del 2008, semplificando l'utilizzo dei locali chiusi sotterranei o seminterrati quando le lavorazioni non diano luogo a emissioni di agenti nocivi. Si tratta di un intervento dai possibili effetti pericolosi e negativi, secondo la CGIL ma anche secondo noi e su cui hanno manifestato perplessità numerosi esperti.

Il Governo in questo modo propone pericolose deroghe in tema di disciplina dei lavori di sottosuolo, minando la sicurezza dei lavoratori stessi. Infine, si aggiunge la modifica all'articolo 304, con la quale sono abrogate le previsioni, simili a quelle dell'articolo 26, comma 8, del decreto legislativo n. 81 del 2008, che, però, si riferisce alle sole attività svolte in regime di appalto o subappalto e non in via generale a tutti i cantieri edili, che impongono ai datori di lavoro di munire il personale occupato di apposita tessera di riconoscimento corredata di fotografia. Le opposizioni hanno proposto emendamenti per sopprimere questa disposizione e impedire che si elimini l'obbligo della tessera di riconoscimento per i lavoratori nei cantieri nell'ambito degli appalti e dei subappalti.

Nell'ambito della discussione sull'articolo 2 sono stati poi bocciati anche emendamenti che proponevano di istituire il documento di regolarità lavorativa in tutti i settori al fine di un efficace contrasto al lavoro nero. Tra questi segnalo quelli del gruppo di Alleanza Verdi e Sinistra, che proponevano che l'INAIL garantisse alle persone con disabilità da lavoro l'accompagnamento per la formazione e la riqualificazione professionale, destinando alla persona risorse spendibili per la fruizione di servizi di formazione professionale e di accompagnamento al lavoro, nonché per l'accesso a tirocini formativi. Allo stesso modo abbiamo proposto l'incremento del Fondo vittime di gravi infortuni sul lavoro e, infine, che i trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari, incluse carte di debito, percepiti da amministrazioni pubbliche ed erogati ai superstiti di vittime di infortuni e malattie professionali siano esclusi dal reddito di questi ai fini ISEE.

Sempre all'articolo 2 si segnala l'approvazione di un emendamento dell'opposizione attraverso il quale si dispone che il 30 aprile di ciascun anno il Ministro del Lavoro e delle politiche sociali renda alle Camere comunicazioni sullo stato di sicurezza nei luoghi di lavoro con riferimento all'anno precedente, nonché sugli interventi da adottare per migliorare le condizioni di salute e di sicurezza nei luoghi di lavoro e sugli orientamenti e i programmi legislativi che il Governo intende adottare al riguardo per l'anno in corso, nei limiti, ovviamente, delle risorse disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

A questo articolo il gruppo AVS aveva presentato altri emendamenti, ovviamente bocciati, e tra questi alcuni riguardavano la soppressione della lettera e), in quanto la modifica legislativa proposta determinerebbe una situazione di totale confusione per la quale la competenza sugli adempimenti ai sensi degli articoli 63 e 67 rimarrebbe in capo alle ASL, mentre quella ai sensi dell'articolo 65 passerebbe in capo all'INL. Inoltre, verrebbe meno la gestione unitaria del processo autorizzativo che riguarda aspetti di igiene e sanità pubblica, urbanistici e di salute e sicurezza sul lavoro, oggi possibile perché svolta all'interno dello stesso Dipartimento di prevenzione della ASL.

Allo stesso modo avevamo proposto per gli invalidi del lavoro e le vittime di malattie professionali, ai quali è riconosciuto da parte dell'INAIL l'assegno di incollocabilità, ovvero quella particolare prestazione integrativa legata all'impossibilità di essere reinseriti al lavoro attraverso il collocamento mirato, riservato alle persone con disabilità, un assegno, che è un'ulteriore forma di sostegno riconosciuta a fronte di un danno gravissimo che la persona ha subito nell'esercizio della propria attività lavorativa. Attualmente il beneficio cessa di essere erogato all'età di 65 anni, in quanto non coordinato con gli adeguamenti dell'età pensionabile intervenuti nel corso del tempo per effetto dei quali il diritto all'assegno dovrebbe essere analogamente esteso a 67 anni. Era proprio questo il senso della proposta emendativa, volta a non lasciare privi di tutela i lavoratori incollocabili che non hanno ancora raggiunto il diritto alla pensione.

Altro emendamento presentato - e ovviamente bocciato - è stato quello che prevedeva di finanziare per 15 milioni di euro il Fondo di sostegno per le famiglie delle vittime di gravi infortuni sul lavoro, da erogare da parte dell'INAIL.

L'articolo 5, che dispone modifiche alla disciplina in materia di somministrazione di lavoro, è un articolo pericoloso e, purtroppo, in continuità con il percorso avviato dal Governo. Liberalizza, infatti, escludendo dai limiti percentuali contrattuali o di legge, ossia il 30 per cento come sommatoria tra contratti a termine somministrati a tempo determinato, il contratto di somministrazione a tempo indeterminato con missione a termine. La modifica è in linea, come detto, con quanto già previsto nelle precedenti modifiche normative che avevano stabilito l'esenzione dai limiti quantitativi per la somministrazione a tempo indeterminato ex staff-leasing dei soggetti svantaggiati. Il combinato disposto determina che, per legge, un'impresa possa teoricamente operare interamente con la somministrazione di lavoro a tempo determinato e a tempo indeterminato. La motivazione addotta dal Governo è stata quella di incentivare i datori di lavoro a offrire un'occupazione stabile ai lavoratori altrimenti destinatari di soluzioni lavorative più precarie e con maggiore esposizione al rischio di interruzione. Ma questo confligge con la realtà dei contratti di somministrazione a tempo indeterminato, in cui i diritti di recesso legati alla natura commerciale dell'intesa tra somministratore e utilizzatore prevalgono e aggirano costantemente i diritti che al lavoratore spetterebbero per la fattispecie indeterminata del contratto. Permane il nostro giudizio già espresso in passato in merito al decreto-legge n. 48 del 2023, recante interventi sui contratti a termine, sulla somministrazione di lavoro e sulle prestazioni occasionali. Si tratta, a nostro avviso, di un percorso sbagliato, perché accompagnare la crescita dell'occupazione significa attuare un cambiamento radicale che guardi al superamento strutturale delle forme contrattuali precarie, così come al contrasto alla povertà lavorativa e, casomai, all'ulteriore potenziamento di diritti e tutele per l'accesso al lavoro stabile. Parliamo di questioni che sono completamente estranee al provvedimento in esame che, invece, ci sarebbero dovute rientrare a pieno titolo. Ma sappiamo bene che non sono temi di vostro interesse.

Su questo articolo, abbiamo presentato, unitariamente agli altri gruppi di opposizione, un emendamento soppressivo e, proposto, come Alleanza Verdi e Sinistra, emendamenti aggiuntivi che prevedevano una limitazione della disciplina in materia di contratti di lavoro a tempo determinato, prevedendo in particolare che il termine di durata superiore a 12 mesi, ma comunque non eccedente i 24 mesi, poteva essere apposto ai contratti di lavoro subordinato solo qualora si verifichino specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di lavoro. Così come, siamo intervenuti sui contratti a termine, cercando di porre un freno a quelle che, nel mondo del lavoro, sono due delle maggiori criticità che alimentano il precariato.

Un'altra estrema criticità è rappresentata dall'articolo 9, che riguarda modifiche in materia di risoluzione del rapporto di lavoro, che, nel testo originario, intendeva rispondere alle associazioni datoriali che lamentano fenomeni di inadempimenti contrattuali da parte dei lavoratori, sulle quali - si deve dire - non esistono dati certi. L'intervento proposto nel testo originario contrastava con quanto definito in sede di contrattazione collettiva che ha normato l'assenza ingiustificata che legittima il licenziamento con preavviso in alcuni casi, o concretizza la giusta causa di recesso in altri, una disposizione che non rende affatto manifesta l'intenzione del lavoratore, ma attribuisce senza alcun fondamento un'interpretazione autentica a un certo comportamento, in contrasto, peraltro, con i più recenti orientamenti dalla stessa Corte di cassazione, che, con la sentenza n. 27331 del 2023, ha escluso ogni margine di valutazione circa gli effetti scaturenti da condotte o intenzioni palesate fattualmente dal prestatore di lavoro.

Riteniamo inaccettabile il potere di recesso che la norma attribuiva alla parte datoriale, così come definita, senza i tempi e le procedure necessarie al reale accertamento della volontà del lavoratore assente. Il Governo, in questo modo, apre alla possibilità di un uso strumentalizzato della nuova disposizione, a discapito dei soggetti più vulnerabili per poca padronanza della lingua o scarsa consapevolezza delle norme contrattuali. Del resto, il datore di lavoro può già ampiamente esercitare il proprio potere discrezionale, sospendendo i lavoratori assenti senza giustificazione per il periodo previsto dal contratto collettivo di riferimento, avviando la procedura di contestazione disciplinare prevista allo scopo di attivare tutte le iniziative utili ad accertare, senza ombra di dubbio e senza alcuna coercizione, la reale volontà del lavoratore. Si tratta, di fatto, di un tentativo del Governo di sdoganare le dimissioni in bianco, proprio quello strumento che il Presidente della Repubblica Mattarella ha citato tra le cause che impediscono la crescita dell'occupazione femminile. Un articolo, quindi, che non può che vedere la nostra ferma contrarietà. Anche su questo articolo, ovviamente, il gruppo Alleanza Verdi e Sinistra ha presentato un emendamento soppressivo. C'è stato un duro confronto tra maggioranza e Governo con le opposizioni. L'unico risultato ottenuto è stata l'approvazione di una riformulazione di un emendamento dell'opposizione al comma 7-bis da parte del relatore che prevede che, in caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato oppure in mancanza di previsione contrattuale, tale termine debba essere superiore a 15 giorni, modificando così il termine fissato a 5 giorni. Una riformulazione, comunque, insoddisfacente, cui proporremo ulteriori modifiche nel corso dell'esame in Aula.

Altro articolo critico, che rende l'idea dell'approccio del Governo rispetto ai diritti dei lavoratori, è l'articolo 15 che dispone una dilazione del pagamento dei debiti contributivi, percorrendo la stessa strada dell'articolo precedente, il 14, opportunamente soppresso, in quanto prevedeva proprio una semplificazione per il pagamento rateale dei debiti contributivi, attribuendo, previo apposito decreto ministeriale che detta i principi e i criteri generali, direttamente all'INPS e all'INAIL, con regolamento dei rispettivi consigli di amministrazione, le modalità per la concessione della rateazione contributiva sino a 60 rate. In questo modo, il Governo semplifica il meccanismo che prevede la dilazione fino a 24 rate a cura dell'INPS e prevede un intervento ministeriale per la dilazione da 24 a 36 rate, fino a 60 rate.

Come per l'ex articolo 14, si allentano, quindi, le maglie, favorendo i datori di lavoro che non sono in regola con il versamento dei contributi.

Sorprendente, mi viene da dire, alcune disposizioni sono pure condivisibili. Penso all'articolo 7 che interviene sul termine della comunicazione obbligatoria relativa al lavoro agile. In questo caso, si introduce positivamente un termine puntuale entro il quale occorre dar corso alla comunicazione da esprimere in via telematica al Ministero del Lavoro e delle politiche sociali; o, ancora, l'articolo 8, che reca misure in materia di politiche formative nell'apprendistato, appare senza criticità e trasla in norma ciò che già oggi avviene, con il trasferimento alle regioni delle risorse in capo al Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, definite dalle diverse leggi di bilancio nel tempo intervenute. L'articolo 20 prevede la possibilità per i cosiddetti lavoratori precoci di presentare la domanda di pensionamento anticipato in corrispondenza delle tre scadenze fissate per l'Ape sociale: 31 marzo, 15 luglio e comunque non oltre il 30 novembre di ciascun anno. Si tratta, in questo caso, di un intervento positivo richiesto da tempo, ma la positività termina qui, visto che non sembra che il Governo intenda stanziare alcun nuovo finanziamento della misura. Al contrario, siamo di fronte a un Governo che, al di là dei continui annunci, da tempo continua a tagliare risorse per questa misura, partendo dalla legge di bilancio del 2023 fino all'ultima per il 2024, dove sono stati sottratti ulteriori 10 milioni di euro.

L'articolo 22 reca disposizioni per lo svolgimento mediante videoconferenza in modalità mista delle riunioni degli organi degli enti previdenziali di cui al decreto legislativo n. 509 del 1994 e al decreto legislativo n. 103 del 1996. Tale previsione appare positiva e opportuna a garantire la piena operatività. Infine, in relazione all'articolo 23, che istituisce l'albo delle buone pratiche in materia di percorsi per le competenze trasversali e per l'orientamento presso le istituzioni scolastiche, ci troviamo di fronte all'istituzione dell'ennesimo Osservatorio, con la riproposizione del refrain “senza oneri per la finanza pubblica”, che rischia di avere lo stesso destino dei precedenti in altri campi. Se l'Osservatorio davvero funzionasse e diventasse attivo e realmente di sostegno alle attività e ai percorsi, sarebbe per noi positivo e non possiamo certo avere una posizione di principio contraria. Le perplessità nascono dal fatto che, spesso, di questi osservatori si perde traccia subito e nessun riscontro è reso noto. Infatti, un osservatorio che funzioni efficacemente dovrebbe assumersi responsabilità e compiti di qualità, nonché essere articolato in una composizione trasparente e rappresentativa. Il rischio che paventiamo anche questa volta è di costituire un organismo di sola investitura per poi assegnare i lavori a enti esterni non accessibili. Inoltre, non è chiaro a chi sia destinato all'albo. Le scuole fronteggiano un'organizzazione che dipende da tanti fattori territoriali e dalla disponibilità altrui all'accoglienza. Sarebbe opportuno che l'Osservatorio mettesse a disposizione della scuola e delle famiglie le connessioni tra l'attività didattica dell'indirizzo di studi e la sua concreta integrazione con le attività progettate fuori dalla scuola, che troppo spesso, a causa dell'obbligatorietà dei PCTO, sono realizzate come mero adempimento e scarsamente funzionali ai percorsi di istruzione. Quello che temiamo, però, è che l'albo possa perseguire una finalità esterna, ossia quella di fare emergere esperienze di eccellenza e buone pratiche che interessano e attirano il mondo produttivo. Il gruppo AVS ha poi presentato emendamenti riguardo al mancato riconoscimento dell'indennità di disoccupazione alle lavoratrici domestiche.

Il decreto legislativo n. 151 del 2001, all'articolo 54, comma 1, dispone che le lavoratrici non possano essere licenziate dall'inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi d'interdizione dal lavoro, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino. Durante tale periodo, ai sensi dell'articolo 55, comma 1, la lavoratrice può presentare dimissioni volontarie, che danno diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento.

L'articolo 62, sul quale interveniva il nostro emendamento, proponeva che le lavoratrici e i lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari avessero diritto al congedo di maternità e di paternità. Tra le disposizioni normative previste non sono richiamati gli articoli 54 e 55 del decreto legislativo n. 151 del 2001. Questo determina che dette norme non trovino applicazione per le lavoratrici e i lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari, nonostante nel merito si sia anche espressa la Corte di cassazione, con la sentenza n. 17433 del 2015, determinando un'inaccettabile discriminazione attraverso il rigetto delle domande di accesso alla NASpI e, in alcuni casi, la richiesta di restituzione delle somme inizialmente riconosciute a tale titolo.

Un altro emendamento del nostro gruppo aggiungeva un articolo, il 23-bis, riguardo l'indennità per i lavoratori a tempo parziale con sospensione ciclica. La legge n. 234 del 2021, all'articolo 1, comma 971, al fine di introdurre nell'ordinamento un sostegno economico in favore dei lavoratori titolari di un contratto di lavoro a tempo parziale, che prevede periodi non lavorati dovuti a sospensione ciclica, ha istituito un Fondo per il loro sostegno, con una dotazione di 30 milioni di euro per il 2022 e il 2023. Il sostegno economico è stato successivamente regolamentato con il decreto-legge n. 50 del 2020 e, successivamente, il DL n. 145 del 2023 ha introdotto una norma di carattere interpretativo a risoluzione delle criticità che limitavano l'accesso alla prestazione degli aventi diritto. Con l'emendamento chiedevamo semplicemente di garantire il finanziamento del Fondo di sostegno anche per le annualità 2024 e 2025 per l'accesso alle prestazioni relative a eventi verificatesi nel 2023 e nel 2024, con una spesa di poche decine di milioni di euro. Come già evidenziato, a lato dell'introduzione della misura è comunque necessaria la sua evoluzione verso una diversa misura di carattere strutturale, per garantire adeguato sostegno al reddito per i rapporti di lavoro a tempo parziale con sospensione ciclica.

I nostri emendamenti, ovviamente, sono stati bocciati e li ripresenteremo in Aula, confidando che possa esserci una maggiore apertura di maggioranza e Governo.

Abbiamo presentato anche un emendamento che intendeva prorogare, per il biennio 2024-2025, a pari condizioni di utilizzo del biennio 2022-2023, il contratto di espansione, uno strumento di supporto per la riorganizzazione delle imprese, basato su esodo anticipato, formazione, riqualificazione dei lavoratori e possibilità di agevolare il turnover generazionale di competenze. Ma neanche questo è stato accolto.

Non di minore importanza è stato l'emendamento che abbiamo presentato in merito all'esclusione dei tavoli di monitoraggio in corso presso il Ministero delle Imprese e del made in Italy per le crisi di impresa: tavoli di crisi comunque convocati e censiti in sede ministeriale, rispetto ai quali non si comprende su quale fondamento normativo si basi l'esclusione. Questo sta determinando l'impossibilità di accesso a “Opzione donna” a decine di lavoratrici in possesso della totalità dei requisiti individuali richiesti, operando un'inaccettabile discriminazione.

Infine, non poteva mancare la ciliegina finale, con l'approvazione di un emendamento della relatrice, che propone di potenziare il ruolo dei centri per la famiglia. Esprimiamo il nostro dissenso rispetto a questo emendamento e abbiamo proposto, non a caso, un emendamento alternativo, che riscrive la lettera e) del comma 1250 della legge n. 296 del 2006, volto invece alla valorizzazione e al potenziamento dei consultori.

Insomma, Presidente, come avrà capito e come espliciterà meglio il collega Franco Mari in sede di dichiarazione di voto, non potremo assolutamente esprimere il nostro assenso all'ennesima occasione persa, che fa fare un ulteriore passo indietro alle lavoratrici e ai lavoratori del nostro Paese.

PRESIDENTE. Ne approfittiamo per salutare studentesse, studenti e docenti dell'Istituto omnicomprensivo Dante Alighieri, di Nocera Umbra, in provincia di Perugia, che sono oggi in visita a Palazzo Montecitorio e stanno assistendo ai lavori dell'Aula dalle tribune del pubblico. Benvenuti (Applausi).

È iscritta a parlare l'onorevole D'Orso, che però non vedo presente. Si intende, quindi, che abbia rinunciato. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche - A.C. 1532-bis-A​)

PRESIDENTE. Prendo atto che la relatrice, la deputata Nisini, e il Governo rinunciano a intervenire in sede di replica. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Discussione della proposta di legge: Chiesa ed altri: Riconoscimento del relitto del regio sommergibile "Scirè" quale sacrario militare subacqueo (A.C. 1744​).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della proposta di legge n. 1744: Riconoscimento del relitto del regio sommergibile "Scirè" quale sacrario militare subacqueo.

Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (Vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali - A.C. 1744​)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.

La IV Commissione (Difesa) si intende autorizzata a riferire oralmente.

Ha facoltà di intervenire la relatrice, deputata Paola Maria Chiesa.

PAOLA MARIA CHIESA , Relatrice. Grazie, Presidente. Sottosegretario Isabella Rauti, onorevoli colleghi, la proposta di legge, composta da tre articoli, è volta al riconoscimento del relitto del regio sommergibile “Scirè”, come sacrario militare subacqueo (articolo 1).

A tal fine, l'articolo 2 reca una modifica all'articolo 275 del codice dell'ordinamento militare, integrando l'elenco dei sacrari nominati tramite l'inserimento del sacrario militare subacqueo del regio sommergibile “Scirè” della baia di Haifa. Ricordo, infatti, che la disciplina dei sepolcreti di guerra, compresi i sacrari, è regolata dal codice dell'ordinamento militare (articoli da 265 a 275).

L'articolo 3, infine, contiene la clausola di invarianza finanziaria, disponendo che dall'attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Neutralità finanziaria confermata dalla Commissione bilancio, che, dopo aver chiesto ai Ministeri competenti le opportune verifiche, ha espresso parere favorevole.

Lo “Scirè” era stato varato a La Spezia, nei cantieri del Muggiano, nell'aprile del 1938. L'inizio delle ostilità, nel giugno 1940, lo vide impegnato in tre missioni di agguato a naviglio mercantile nemico, l'ultima delle quali, al largo dell'Asinara, fu coronata da successo, con l'affondamento di un piroscafo francese, del quale peraltro soccorse l'equipaggio.

Il suo glorioso destino comincia a prendere forma quando, nell'agosto del 1940, viene assegnato all'allora 1ª Flottiglia MAS speciale, come trasportatore dei siluri a lenta corsa, in gergo chiamati “maiali”, i mezzi speciali segreti degli assaltatori della Regia Marina. Per assolvere a tale compito, il regio sommergibile fu sottoposto a radicali lavori di trasformazione, i quali fecero dello “Scirè” un condensato di innovazioni tecnologiche e operative, che all'epoca non avevano eguali al mondo, e lo trasformarono nel più letale tra gli strumenti bellici impiegati dalla Regia Marina nel corso di tutta la Seconda guerra mondiale, avviandolo verso la leggenda.

In un anno, dal settembre 1940 al settembre 1941, il regio sommergibile “Scirè” svolse ben quattro temerari attacchi alla roccaforte inglese di Gibilterra, infiltrandosi e scivolando sul fondo del mare sino a poche centinaia di metri dalla base navale inglese, per rilasciare gli assaltatori italiani con i loro mezzi speciali. L'esito di queste operazioni - che ancora oggi sono analizzate e insegnate nelle scuole dei sommergibilisti e nelle accademie navali delle maggiori Marine del mondo e citate in tutti i libri di storia navale - fu di ben tre unità navali avversarie affondate. Ma l'operazione che consacrò definitivamente la valenza operativa dello “Scirè” avvenne nel dicembre 1941, quando, dopo aver attraversato indenne tutto il Mediterraneo orientale, arrivò a rilasciare tre mezzi speciali davanti all'imboccatura della base navale britannica di Alessandria d'Egitto, ritenuta inviolabile dai comandi inglesi. L'attacco degli assaltatori italiani ottenne uno spettacolare successo.

In otto missioni di guerra, lo “Scirè”, con il suo equipaggio e con gli incursori imbarcati, aveva fino a quel momento affondato e gravemente danneggiato otto unità navali avversarie, tra le quali due corazzate. Nessuna unità navale al mondo ha mai ottenuto un tale risultato.

Nel luglio del 1942 lo “Scirè” lascia nuovamente La Spezia, al comando del capitano di corvetta Bruno Zelik, con 48 uomini di equipaggio. L'obiettivo questa volta è Haifa, base navale a terminale petrolifero nella Palestina britannica, oggi Stato di Israele. A Lero, isola dell'Egeo, all'epoca possedimento italiano, imbarca 11 incursori trasferiti per via aerea dall'Italia e il 6 agosto del 1942 riparte per l'avvicinamento finale al proprio obiettivo. Dopo un'ultima comunicazione alle ore 4 del 10 agosto, lo “Scirè” non dà più notizie di sé.

La missione era stata scoperta dai servizi segreti inglesi e tutte le difese del porto di Haifa erano pronte a far fallire l'azione dello “Scirè”. Il sistema subacqueo antisommergibile inglese rivelò la sua presenza e una corvetta, con l'impiego di bombe di profondità, lo danneggiò, costringendolo a riemergere. Bersagliato dal tiro delle batterie costiere, lo “Scirè” affondò. Per completarne la distruzione, sebbene il sommergibile giacesse ormai inerme sul fondo, due cacciatorpedinieri inglesi effettuarono un ultimo passaggio, con il lancio di tre cariche di profondità. Fu una vera ecatombe.

Con lo “Scirè” perirono, oltre al comandante Bruno Zelik, altri 6 ufficiali, 15 sottufficiali, 19 sottocapi, 8 marinai dell'equipaggio e 2 ufficiali, 4 sottufficiali, 2 sottocapi e 3 marinai incursori. In totale, 60 marinai italiani caduti nell'adempimento del loro dovere al servizio dell'Italia. Per la portata delle operazioni svolte e il valore dimostrato dal suo equipaggio, allo “Scirè” è stata conferita la medaglia d'oro al valor militare, onorificenza concessa a sole 3 unità della Marina italiana.

Dopo la guerra, la posizione del relitto dello “Scirè”, adagiato su un fondale di 33 metri, a poche miglia dall'ingresso del porto di Haifa, venne scoperta e segnalata dalla Marina israeliana agli italiani. Negli anni Sessanta, un primo tentativo di recupero del relitto da parte di un'impresa incaricata dell'operazione non ebbe successo, e si decise, dunque, di lasciarlo in situ, come, peraltro, è tradizione delle maggiori Marine occidentali, compresa quella italiana, che ritengono di onorare i propri caduti direttamente nel luogo dell'affondamento.

A partire dagli anni Settanta, però, il relitto fu fatto oggetto di continue immersioni e incursioni al suo interno da parte di subacquei civili, subendo l'asportazione di varie parti dello scafo e di materiali in esso contenuti. Per tali ragioni, nel 1984, il Governo italiano diede mandato alla nostra Marina militare di intervenire per sigillare le vie d'accesso all'interno del relitto stesso, recuperando, nel contempo, i poveri resti dell'equipaggio. Con il consenso dello Stato di Israele, che ha sempre riconosciuto all'Italia l'immunità sovrana sul relitto dello “Scirè”, la relativa spedizione fu svolta nei mesi di settembre e ottobre dello stesso anno dalla nave “Anteo”, con gli uomini del Comando Raggruppamento Subacquei e Incursori.

In tale circostanza, la Marina militare italiana non solo provvide a sbarrare le vie d'accesso ai locali interni del relitto per impedire che potesse essere facilmente penetrato, ma svolse anche una capillare azione di ricerca e di recupero dei resti mortali dell'eroico equipaggio, nel corso della quale furono estratte dal sommergibile le spoglie di 42 marinai. Nel corso della stessa spedizione, inoltre, altri due corpi, trovati spiaggiati dagli inglesi all'indomani dell'affondamento e tumulati nel cimitero cristiano di Haifa, furono restituiti all'Italia dalle autorità israeliane. Attualmente, tali resti riposano nel Sacrario dei caduti d'oltremare di Bari.

All'interno del relitto sono rimaste, dunque, le spoglie mortali di 16 marinai italiani, rimasti in una parte del relitto resa inaccessibile dalle deformazioni e dal collassamento dello scafo al momento dell'affondamento. Tale circostanza individua la necessità che lo stesso regio sommergibile “Scirè” sia elevato al rango di sacrario ed è l'origine della presente proposta di legge. È opportuno peraltro segnalare che, successivamente alla citata spedizione del 1984, il Governo italiano ha organizzato tre ulteriori spedizioni nel 2002, nel 2015 e nel 2019 (portando il totale degli interventi a 6: due nel 1963 e, poi, nel 1984, nel 2002, nel 2015 e nel 2019), le quali si resero necessarie per ulteriori lavori di consolidamento dei precedenti interventi.

In entrambe le occasioni fu colta anche l'occasione per commemorare i caduti, con sobrie cerimonie svolte sulla nave “Anteo”. Oltre al doveroso riconoscimento del valore e del sacrificio, si auspica, quindi, che il riconoscimento del relitto quale sacrario possa contribuire a sensibilizzare le coscienze per proteggere e preservare quanto rimane dello “Scirè”, a beneficio delle generazioni future e nel rispetto che i caduti della Marina militare italiana meritano.

PRESIDENTE. Ha facoltà di intervenire il rappresentante del Governo: rinuncia.

È iscritto a parlare il deputato Bicchielli. Ne ha facoltà.

PINO BICCHIELLI (NM(N-C-U-I)-M). Signor Presidente, onorevoli colleghi, signora Sottosegretario, la memoria di una Nazione ha bisogno, oltre che di una storia condivisa, anche di luoghi, di riti, di veri e propri memoriali. Tutte queste realtà servono a testimoniare le gesta degli uomini, i loro sacrifici, gli atti che hanno segnato la storia, che hanno fatto la storia. Ed è per questo che ho sostenuto immediatamente in Commissione difesa, con convinzione, la proposta di legge, a prima firma della collega Paola Chiesa, che dispone il riconoscimento del relitto del regio sommergibile “Scirè” quale sacrario militare subacqueo.

Come è noto, il 10 agosto del 1942, il regio sommergibile “Scirè”, battello di appoggio dei reparti d'assalto della Regia Marina italiana, durante una missione di attacco al porto di Haifa, nell'allora Palestina britannica, oggi Stato di Israele, venne affondato a poche miglia dall'imboccatura del porto. Lo “Scirè”, varato a La Spezia, nel cantiere del Muggiano, nell'aprile del 1938, prese parte, nel giugno del 1940, a tre successive missioni di agguato al naviglio mercantile nemico, l'ultima delle quali, al largo dell'Asinara, venne caratterizzata dall'affondamento di un piroscafo francese, del quale, mi preme sottolineare, signor Presidente, soccorse tutto l'equipaggio.

Per assolvere al compito di trasportatore dei siluri a lenta corsa - quelli che noi comunemente chiamiamo i “maiali”, cioè quei mezzi speciali segreti degli assaltatori della Regia Marina -, nell'agosto del 1940 il sommergibile fu sottoposto a radicali lavori di trasformazione, che fecero dello “Scirè” un condensato di innovazioni tecnologiche ed operative senza eguali al mondo, trasformandolo nel più efficace tra gli strumenti bellici impiegati dalla Regia Marina nel corso di tutta la Seconda guerra mondiale.

Lo “Scirè” fu protagonista di alcune fra le operazioni militari più temerarie e di successo. Tra il 1940 e il 1941, svolse ben quattro attacchi alla roccaforte inglese di Gibilterra, infiltrandosi e scivolando sul fondo del mare, sino a poche centinaia di metri dalla base navale inglese, per rilasciare gli assaltatori italiani con i loro mezzi speciali. Queste operazioni, come ha detto anche la relatrice, che è anche prima firmataria della proposta di legge, ancora oggi sono analizzate e insegnate nelle scuole dei sommergibilisti e nelle accademie navali delle maggiori Marine del mondo e sono citate in tutti i libri di storia navale.

Ma l'operazione che consacrò definitivamente la valenza operativa dello “Scirè” avvenne nel dicembre del 1941, quando, dopo avere attraversato indenne tutto il Mediterraneo orientale, arrivò a rilasciare tre mezzi speciali davanti all'imboccatura della base navale britannica di Alessandria d'Egitto, ritenuta inviolabile dai comandi inglesi. L'attacco degli assaltatori italiani ottenne uno spettacolare successo, con l'affondamento di ben due corazzate inglesi, la “Valiant” e la “Queen Elizabeth”, l'affondamento anche della nave cisterna “Sagona” e il danneggiamento del cacciatorpediniere “Jervis”.

In otto missioni di guerra, lo “Scirè”, con tutto il suo equipaggio e con gli incursori imbarcati, aveva sino a quel momento affondato o gravemente danneggiato otto unità navali avversarie, tra le quali due corazzate, come abbiamo detto prima. Nessuna unità navale al mondo ha mai ottenuto questo risultato.

Si tratta certamente di successi militari, ma bisogna, però, sottolineare che era il risultato di una grande capacità industriale e tecnologica della cantieristica italiana che, ancora oggi, rappresenta una eccellenza nel mondo.

Nel luglio del 1942 lo “Scirè” lascia nuovamente La Spezia, al comando del capitano di corvetta Bruno Zelik, con 48 uomini di equipaggio. L'obiettivo questa volta è Haifa, base navale e terminale petrolifero nella Palestina britannica. A Lero, isola dell'Egeo all'epoca possedimento italiano, imbarca 11 incursori trasferiti per via aerea dall'Italia e, il 6 agosto del 1942, riparte per l'avvicinamento definitivo al proprio obiettivo. Dopo un'ultima comunicazione, come è stato anche ricordato, alle ore 4 del 10 agosto, lo “Scirè” non dà più notizie di sé. I servizi segreti inglesi avevano scoperto la missione e avevano attivato tutte le difese del porto di Haifa; il sistema subacqueo antisommergibile rilevò la presenza dello “Scirè” e la corvetta Islay, con l'impiego di bombe di profondità, lo danneggiò, costringendolo ad emergere. Bersagliato, allora, dalle batterie costiere, lo “Scirè” affondò definitivamente. Per essere sicuri della distruzione dello “Scirè” e del suo totale affondamento, il sommergibile fu colpito da due cacciatorpedinieri inglesi, il Tetcott e il Croome, che effettuarono un vero e proprio ultimo passaggio con il lancio di altre 6 cariche di profondità.

Fu una vera ecatombe. Con lo “Scirè” perirono, oltre al comandante, appunto, Bruno Zelik, altri 6 ufficiali, 15 sottufficiali, 19 sottocapi, 8 marinai dell'equipaggio e 2 ufficiali, 4 sottufficiali, 2 sottocapi e 3 marinai incursori. In totale, parliamo di 60 marinai italiani caduti nell'adempimento del loro dovere al servizio dell'Italia. Erano ragazzi che combattevano, erano ragazzi che in quel momento difendevano la patria. Si tratta di un sacrificio che, secondo noi, merita di entrare di diritto nella memoria e nella coscienza collettiva.

Anch'io voglio ricordare le parole del sergente Lodati, il marconista dello “Scirè”, che scrisse appunto - cito testualmente -: “(…) perché sono certo che questa volta non sarà come le altre e lo “Scirè” non farà ritorno (…). Si parte ugualmente, si deve partire per tener fede al nostro giuramento per compiere un'altra azione che ci è stata ordinata per il bene della Patria (…) si spera solo, se ciò dovesse accadere, che non si venga lasciati in fondo al mare, ma ci si ricordi di quella povera ciurma che ha dato tutta se stessa per un sacro ideale e per un dovere verso la Patria”.

Ecco, l'articolo 34 del I Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto del 1949, relativo proprio alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali, con riferimento alle tombe di persone decedute all'estero a causa di ostilità, afferma che: “I resti delle persone decedute per cause connesse con l'occupazione, o nel corso di una detenzione derivante dall'occupazione o dalle ostilità, e quelli delle persone che non erano cittadini del Paese nel quale sono decedute a causa delle ostilità, debbono essere rispettati, e le tombe di tutte le dette persone saranno rispettate, curate e contrassegnate, come previsto nell'articolo 130 della IV Convenzione, sempre che non rientrino in un trattamento più favorevole in virtù delle Convenzioni e del presente Protocollo”.

Signor Presidente, mi preme sottolineare, a proposito di questo articolo, che un primo tentativo, come è noto e come ha ricordato prima la relatrice, di recupero del relitto da parte di un'impresa incaricata dell'operazione non ebbe successo e si decise, dunque, negli anni Sessanta, di lasciare il relitto lì, con le spoglie mortali dei caduti. Peraltro, è tradizione delle maggiori marine occidentali, compresa ovviamente quella italiana, onorare i propri caduti direttamente nel luogo dell'affondamento.

È una norma che i relitti di navi militari affondate in combattimento rimangano proprietà e territorio dello Stato di cui avevano bandiera e la consuetudine assunta dalla maggior parte delle potenze marittime va nella direzione del principio secondo cui nessuno Stato può interagire con un relitto di una nave da guerra senza l'autorizzazione dello Stato di bandiera. Tuttavia, è opportuno che lo Stato sovrano rivendichi ufficialmente questa proprietà e che la concessione dell'immunità sovrana per un relitto di guerra affondato in acque territoriali straniere avvenga attraverso specifici accordi bilaterali tra lo Stato costiero e lo Stato di bandiera.

Lo Stato di Israele ha riconosciuto all'Italia l'immunità sovrana del relitto dello “Scirè” a partire dagli anni Settanta. Il relitto, come abbiamo sentito, fu fatto oggetto di continue immersioni e incursioni da parte di subacquei civili, subendo l'asportazione di varie parti dello scafo e di materiale contenuto nello scafo. Per questi motivi, nel 1984, il Governo italiano diede mandato alla Marina di intervenire per sigillare tutte le vie d'accesso all'interno del relitto, recuperando al contempo i resti di parte dell'equipaggio. Fu possibile estrarre dal sommergibile le spoglie di 42 marinai e di altri 2 corpi che furono trovati all'indomani dell'affondamento e tumulati nel cimitero cristiano di Haifa. Furono, quindi, restituiti all'Italia dalle autorità israeliane e attualmente i resti di questi nostri marinai riposano nel Sacrario dei Caduti d'Oltremare di Bari.

All'interno dello “Scirè” sono rimaste, dunque, le spoglie mortali di 16 militari italiani collocate in una parte dello scafo resa inaccessibile dalle deformazioni e dal collassamento dello scafo al momento dell'affondamento. Successivamente, sono state necessarie altre spedizioni, nel 2002, nel 2015 e nel 2019, per ulteriori lavori di consolidamento dei precedenti interventi finalizzati appunto a sigillare lo scafo.

Inoltre, credo che sia opportuno segnalare che nel 2023, quindi, l'anno scorso, lo Stato di Israele ha provveduto al riconoscimento, motu proprio, del punto della baia di Haifa nel quale giace il relitto dello “Scirè” come sito di interesse storico dello Stato di Israele e provvedendo, attraverso il proprio istituto cartografico, a segnalarlo sulle mappe nautiche, sia cartacee, sia elettroniche, che entro breve tempo verranno trasmesse, appunto, ai centri di distribuzione per poter essere utilizzate dalle navi in transito nella baia di Haifa.

Per la portata delle operazioni svolte e per il valore dimostrato dal suo equipaggio, allo “Scirè” è stata attribuita la medaglia d'oro al valor militare, onorificenza concessa a sole 3 unità della Marina italiana.

Quindi, signor Presidente, onorevoli colleghi, oltre al doveroso riconoscimento del valore e del sacrificio, si auspica, quindi, che il riconoscimento del relitto quale sacrario possa contribuire a sensibilizzare le coscienze, al fine di proteggere e preservare, alla stregua di un importante monumento storico, quanto rimane dello “Scirè”, a beneficio delle generazioni future e nel rispetto di tutti i caduti della Marina militare italiana e di tutte le Marine del mondo.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato De Maria. Ne ha facoltà.

ANDREA DE MARIA (PD-IDP). Grazie, Presidente. Io riproporrò qui, in sede di discussione generale, un tema che abbiamo sollevato in Commissione difesa, anche presentando un emendamento, la cui bocciatura, poi, ci ha portati a esprimere un voto contrario a questo provvedimento in Commissione. Intendo riproporre questi temi all'attenzione del Governo, dei colleghi dei diversi gruppi parlamentari, perché credo che siano aspetti che dobbiamo valutare con grande attenzione in quest'Aula, anche in vista, poi, del momento definitivo della votazione in Aula. Noi riproporremo, peraltro, in Aula, l'emendamento che è stato bocciato in Commissione.

Noi come gruppo del Partito Democratico non siamo affatto contrari a ricordare la memoria di quei caduti, la memoria di quei 60 militari e in particolare dei 16 che, tuttora, trovano la loro ultima dimora nel relitto del sommergibile “Scirè”. L'omaggio alla memoria di quei caduti è un omaggio che ci avrebbe trovato favorevoli.

Noi abbiamo chiesto, però, di fare chiarezza sul contesto storico in cui quelle morti sono avvenute e vorrei ripartire proprio dalle prime parole che diceva l'onorevole Bicchielli nel suo intervento, parole per me importanti, che però mi portano, appunto, a riproporre in Aula questo tema come feci fin dall'inizio - penso che la relatrice lo possa testimoniare - nel dibattito in Commissione.

È vero che questo Paese ha bisogno di una memoria storica condivisa e una lettura condivisa della storia è un elemento importante anche per rafforzare il ruolo delle istituzioni oggi. Ebbene, io penso che bisogna, allora, dire parole chiare - noi lo chiediamo anche nel testo di legge - sul contesto storico in cui quegli uomini sacrificarono la vita e anche su quale fosse il bene della Patria in quel momento storico, perché quegli uomini persero la vita perché erano stati coinvolti in una guerra di aggressione, scatenata dal regime fascista e dalla monarchia, accanto ai nazisti, una guerra di aggressione che per Benito Mussolini significava gettare qualche migliaia di morti sul tavolo della pace, che è costata all'Italia mezzo milione di morti, sacrificio e distruzioni immani.

Ci dovremmo dire che, in quel momento, gli inglesi combattevano dalla parte giusta, peraltro quello stesso esercito inglese e gli eserciti alleati, insieme ai nostri partigiani, furono poi quegli eserciti che liberarono l'Italia dal fascismo, dalla dittatura, dalla guerra, dall'occupazione tedesca e nazista dopo l'8 settembre del 1943. E, quindi, il provvedimento che approviamo oggi per noi ha un senso vero di memoria e di omaggio a quelle vittime se viene assunto nella chiarezza del contesto storico di quello che è accaduto; altrimenti - e, purtroppo, negli interventi che ho sentito in Commissione e anche qui temo sia così - saremmo di fronte a qualcos'altro, ossia ad un'azione che mette in discussione il significato di quella storia e con un carattere revisionistico; io spero che non sia così, anche per l'omaggio che insieme potremmo tributare a quei caduti. E allora bisogna fare chiarezza sul contesto in cui quelle morti si sono verificate, in cui quell'azione militare c'è stata.

Aggiungo che quei soldati caduti furono, prima di tutto, vittime di quella guerra di aggressione scatenata dal fascismo e dalla monarchia, vittime anche dell'impreparazione dell'esercito italiano, del fatto di andare a combattere senza il giusto armamento e, appunto, dalla parte sbagliata. Io penso che per costruire l'unità di tutto il Parlamento intorno a questo provvedimento - sarebbe stato un fatto importante - nel testo di legge questo elemento deve essere chiaro e, quindi, noi abbiamo presentato un emendamento che sottolinea questo aspetto, cioè di chi erano le responsabilità di quel conflitto e, prima di tutto, quindi, di chi sono state le responsabilità di quelle morti, cioè del regime fascista e della monarchia.

In Commissione l'emendamento è stato bocciato, vediamo cosa accadrà in Aula; certamente per noi il fatto che non si faccia chiarezza su questo punto ci ha portato e ci porterebbe in Aula a votare nuovamente contro, ci ha portato a votare contro in Commissione e ci porterebbe a votare nuovamente contro in Aula, ma io questo tema ci tengo a riproporlo, perché anch'io credo nel valore di una memoria condivisa; penso al valore - in particolare rivolto alle giovani generazioni - della memoria, anche come fondamento della nostra democrazia.

Quella guerra tragica, combattuta dalla parte sbagliata, è un elemento della storia che alle nuove generazioni va raccontato fino in fondo, altrimenti non si fa memoria condivisa e non si rende - a mio avviso - nemmeno omaggio a quelle vittime nel modo giusto (Applausi di deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Malaguti. Ne ha facoltà.

MAURO MALAGUTI (FDI). Grazie, Presidente. Sottosegretario, egregi colleghi, prima di riportare a mia volta brevi cenni sulla storia dello “Scirè” e sui motivi che hanno spinto questa proposta di legge a chiedere che se ne faccia un sacrario militare subacqueo, vorrei fare alcune brevi considerazioni. Ho sentito questi ragionamenti sulla parte giusta e la parte sbagliata che sono, probabilmente, oggetto anche dell'emendamento presentato in Commissione, ma io credo che il contesto storico e il revisionismo in questa proposta di legge non c'entrino proprio nulla.

Non si può attribuire alcuna responsabilità a dei soldati, hanno combattuto per la propria Patria, per la propria bandiera; si possono attribuire responsabilità al Governo di allora, si possono attribuire responsabilità ai politici di allora, ma questi ragazzi sono morti semplicemente per la propria Patria. Non capire questo, a mio avviso, significa ucciderli due volte: la prima volta per il fuoco nemico, oggi per il fuoco amico.

Ora passerò a leggere alcuni tratti della storia di questo incredibile sommergibile che iniziò, che operò in altri teatri, ma iniziò la sua gloriosa storia nell'agosto del 1940, quando venne assegnato all'allora 1ª Flottiglia MAS speciale, come trasportatore dei siluri a lenta corsa, in gergo chiamati “maiali”, i nuovi mezzi speciali, segreti, degli assaltatori della Regia Marina.

Per assolvere a tale compito, il sommergibile fu sottoposto a radicali lavori di trasformazione, i quali fecero dello “Scirè” un condensato di innovazione tecnologica e operativa che all'epoca non aveva eguali nel mondo, e lo trasformarono nell'arma più letale della Regia Marina nel corso di tutta la Seconda guerra mondiale, avviandolo verso la leggenda. In un anno, dal settembre 1940 al settembre 1941, lo “Scirè” svolse ben quattro temerari attacchi alla roccaforte inglese di Gibilterra, infiltrandosi, scivolando sul fondo del mare sino a poche centinaia di metri dalla base navale inglese per rilasciare gli assaltatori italiani con i loro mezzi speciali. L'esito di queste operazioni, che ancora oggi sono analizzate e insegnate nelle scuole dei sommergibilisti e nelle accademie navali delle maggiori Marine del mondo e citate in tutti i libri di storia navale, fu di ben tre unità navali avversarie affondate.

Ma l'operazione che consacrò definitivamente la valenza operativa dello “Scirè” avvenne nel dicembre del 1941 quando, dopo aver attraversato indenne tutto il Mediterraneo orientale, arrivò a rilasciare tre mezzi speciali davanti all'imboccatura della base navale britannica di Alessandria d'Egitto, ritenuta inviolabile dai comandi inglesi. L'attacco degli assaltatori italiani ottenne uno spettacolare successo, con l'affondamento di due corazzate inglesi, la Valiant e la Queen Elizabeth, entrambe di oltre 30.000 tonnellate, l'affondamento della nave cisterna Sagona, di 7.500 tonnellate, e il danneggiamento del cacciatorpediniere Jervis, di 1.700 tonnellate. In otto missioni di guerra, lo “Scirè”, con il suo equipaggio e con gli incursori imbarcati, aveva sino a quel momento affondato o gravemente danneggiato otto unità navali avversarie, tra le quali due corazzate. Nessuna unità navale al mondo ha mai ottenuto tale risultato.

Nel luglio del 1942 lo “Scirè” lasciò nuovamente La Spezia al comando del capitano Bruno Zelik, con 48 uomini di equipaggio. L'obiettivo, questa volta, era Haifa, base navale e terminale petrolifero della Palestina britannica. A Lero, isola dell'Egeo, all'epoca possedimento italiano, imbarcò 11 incursori trasferiti per via aerea dall'Italia; il 6 agosto 1942 ripartì per avvicinarsi al proprio obiettivo e, dopo un'ultima comunicazione alle ore 4 del 10 agosto, lo “Scirè” non dà più notizie.

I servizi segreti avevano individuato la missione. Il sistema subacqueo antisommergibile inglese rivelò la sua presenza e la corvetta Islay, con impiego di bombe di profondità, lo danneggiò costringendolo ad emergere. Bersagliato dal tiro delle batterie costiere, lo “Scirè” affondò. Per completarne la distruzione, sebbene il sommergibile giacesse oramai inerme sul fondo del mare, due cacciatorpedinieri inglesi effettuarono un ultimo passaggio con il lancio di altre sei cariche di profondità. Fu una ecatombe.

Con lo “Scirè” perirono, oltre al comandante, altri 6 ufficiali, 15 sottufficiali, 19 sottocapi, 8 marinai dell'equipaggio, 2 ufficiali, 4 sottufficiali, 2 sottocapi e 3 marinai incursori; in totale 60 marinai italiani caduti nell'adempimento del loro dovere al servizio dell'Italia.

Per queste azioni, allo “Scirè” fu attribuita la medaglia d'oro al valor militare, onorificenza concessa solamente a tre unità della Marina italiana.

Negli anni che seguirono, la Marina operò diverse immersioni per tutelare questo sommergibile, perché immersioni di sommozzatori privati ne trafugarono alcuni oggetti all'interno e lo violarono. In queste immersioni, recuperò 42 resti dei marinai dell'equipaggio; due di questi li trovarono spiaggiati nel 1942 e 16 giacciono ancora dentro il sommergibile, perché collocati in una parte irraggiungibile, per cui non si riescono più a recuperare.

Per quanto accadde al popolo ebraico nel periodo nazista e nel periodo fascista, sarebbe lecito pensare che Israele non avesse una grande attenzione nel tutelare i marinai italiani, invece il Governo israeliano, in questi anni, ha sollecitato il Governo italiano a procedere in questo senso. Il Governo israeliano ha dapprima, implicitamente, riconosciuto all'Italia l'immunità sovrana del relitto, stimolando, in origine, il nostro Paese ad assumere decisioni per il recupero dei resti umani che erano ancora nello scafo; successivamente, non si è opposto ai vari interventi nelle proprie acque territoriali da parte della nostra Marina: e, molto recentemente, nel 2023, ha provveduto al riconoscimento motu proprio del punto della baia di Haifa nel quale giace il relitto dello “Scirè”, come sito di interesse storico dello Stato di Israele, provvedendo, inoltre, attraverso il proprio istituto cartografico, a segnalarlo sulle mappe nautiche, cartacee ed elettroniche, che, entro breve tempo, verranno trasmesse ai centri di distribuzione per poter essere utilizzate dalle navi in transito nella baia di Haifa.

Dal punto di vista giuridico, bisogna citare quanto disposto dall'articolo 34 del I Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali, con riferimento alle tombe di persone decedute all'estero a causa di ostilità. Questo principio afferma che: “I resti delle persone decedute per cause connesse con l'occupazione, o nel corso di una detenzione derivante dall'occupazione o dalle ostilità, e quelli delle persone che non erano cittadini del Paese nel quale sono decedute a causa delle ostilità, debbono essere rispettati, e le tombe di tutte le dette persone saranno rispettate, curate e contrassegnate come previsto nell'articolo 130 della IV Convenzione”.

Dal punto di vista giuridico, si evidenzia che è norma che i relitti di navi militari affondati in combattimento rimangano proprietà territoriale dello Stato di cui avevano bandiera, e la consuetudine assunta dalla maggior parte delle potenze militari marittime, passate e presenti, va nella direzione del principio secondo cui nessuno Stato può interagire con un relitto di una nave da guerra senza l'autorizzazione dello Stato di bandiera. È evidente e opportuno che lo Stato sovrano rivendichi ufficialmente la proprietà del relitto.

Vorrei concludere anch'io con le parole del sergente Lodati, marconista dello “Scirè”, che il 27 luglio del 1942 scrisse queste parole, che, secondo me, sono molto sono significative dello spirito con cui questi soldati andarono incontro al loro destino: “[...] perché sono certo che questa volta non sarà come le altre e lo “Scirè” non farà ritorno [...] Si parte ugualmente, si deve partire per tener fede al nostro giuramento per compiere un'altra azione che ci è stata ordinata per il bene della Patria [...] si spera solo, se ciò dovesse accadere, che non si venga lasciati in fondo al mare ma ci si ricordi di quella povera ciurma che ha dato tutta se stessa per un sacro ideale e per un dovere verso la Patria”.

Sinceramente, non so che Patria sarebbe questa, se non onorasse chi ha dato il suo estremo sacrificio per essa (Applausi dei deputati del gruppo Fratelli d'Italia).

PRESIDENTE. Saluto le studentesse, gli studenti e i docenti dell'Istituto comprensivo Assisi 2, plesso Patrono d'Italia, di Assisi, in provincia di Perugia, che sono oggi in visita a Palazzo Montecitorio e stanno assistendo ai nostri lavori dalle tribune. Benvenuti (Applausi).

È iscritto a parlare l'onorevole Pellegrini. Ne ha facoltà.

MARCO PELLEGRINI (M5S). Grazie, Presidente. Oggi ci occupiamo della tragedia dell'affondamento dello “Scirè” e, quindi, del ricordo, dell'omaggio e della commemorazione dei sommergibilisti italiani che persero la vita in quel tragico episodio di guerra del Secondo conflitto mondiale.

Infatti, il 10 agosto del 1942 il sommergibile venne affondato dalla Marina britannica nei pressi del porto di Haifa, cioè davanti alle coste della Palestina - che allora era sotto mandato del Regno Unito - e ciò avvenne a circa 5 chilometri dalla costa e, quindi, dal porto di Haifa. Da allora, il relitto del sommergibile giace sul fondale, che è ad appena 33 metri di profondità. Nei giorni successivi, il mare restituì solamente i cadaveri e le salme del capitano Chersi e del suo secondo, Del Ben. Invece si dovette attendere fino al settembre del 1984, quando furono recuperate, dalla nave salvataggio Anteo, le salme di 42 dei 49 componenti dell'equipaggio e degli 11 operatori che erano imbarcati al momento, appunto, dell'affondamento.

Lo “Scirè” fu varato a La Spezia, nei cantieri del Muggiano, fu completato alla fine dell'aprile del 1939 e poi, in seguito, venne trasformato per trasportare i famosi siluri a lenta corsa, che sono più comunemente noti con il nomignolo o soprannome di “maiali” e che erano condotti dagli assaltatori italiani, dai nostri sommergibilisti. Quelle erano delle tecniche di guerra e di attacco nuove, che discendevano da innovazioni tecnologiche anche operative e che necessitavano, affinché fossero messe in atto, di particolari dosi di coraggio da parte dei nostri marinai; erano delle modalità - ripeto - innovative e molto efficaci di attacco alle navi che, in quel momento, erano nemiche.

Il sommergibile “Scirè” e il suo equipaggio si distinsero in alcune operazioni belliche che furono compiute con successo - noi parliamo di successo, ma, quando si parla di successo, vuol dire che, purtroppo, muoiono dei soldati - sul fronte inglese, ma questo sommergibile è ricordato per l'affondamento delle corazzate inglesi Valiant e Queen Elisabeth e della nave cisterna Sagoma, nel dicembre 1941, in Alessandria d'Egitto, motivo per cui è nota come impresa di Alessandria d'Egitto.

Per l'attività svolta, lo stendardo dello “Scirè” fu decorato della medaglia d'oro al valor militare, che venne conferita con regio decreto il 10 giugno 1943, in pieno secondo conflitto mondiale. Poi varie parti dello scafo furono rimosse in un tentativo di recupero e sono conservate nel sacrario delle bandiere di Roma nei musei navali di La Spezia, a Venezia, e alla base navale di Augusta.

Parlando dell'aspetto normativo, in base all'articolo 265 del codice dell'ordinamento militare, i sepolcreti di guerra, definitivamente sistemati nel territorio nazionale, rientrano nel patrimonio dello Stato, e l'articolo 267, sempre del codice dell'ordinamento militare, al comma 1, stabilisce le competenze del commissario generale per le onoranze ai caduti; in forza di questa disposizione, il commissario pone in essere una serie di attività che vanno dalla sistemazione, manutenzione e custodia dei cimiteri di guerra, agli accordi che si fanno anche con Governi di altri Paesi interessati e con singole amministrazioni dello Stato, alla conservazione delle zone monumentali di guerra, nonché alla raccolta della documentazione.

Questa proposta di legge, all'articolo 1, dispone il riconoscimento formale del sacrario militare subacqueo che sarà costituito dal relitto del sommergibile “Scirè”. Invece, l'articolo 2, in funzione di questo riconoscimento, modifica l'articolo 275 del codice dell'ordinamento militare, aggiungendo una lettera che è volta a includere lo “Scirè” nell'elenco, che è tassativo, dei sepolcreti e dei sacrari. Questi che finora ho illustrato sono i fatti storici e un veloce esame delle norme che regolano la materia. Tuttavia, credo che, oltre alla giusta e doverosa memoria dei caduti e al riconoscimento del valore e del coraggio di quei sommergibilisti, oltre a ciò e ai risultati militari che conseguirono, noi abbiamo il dovere anche di occuparci di altro, perché in quest'Aula facciamo politica.

Quindi, a nostro avviso, dobbiamo occuparci anche del messaggio che potrebbe essere veicolato da questa proposta, magari anche al di là della volontà dei proponenti; anzi, sono sicuro che potrebbe accadere questo proprio al di là della volontà dei proponenti. È innegabile, a nostro avviso, che da molti anni è in corso un tentativo di riscrittura della storia italiana, quella storia che va dal 1922 fino alla fine della Seconda guerra mondiale. Quindi, si tratta di un tentativo di riscrittura di quello che ha rappresentato per il nostro Paese sia il regime fascista sia la lotta di liberazione partigiana dai nazifascisti.

In alcuni settori della società italiana, per fortuna ancora non particolarmente grandi, c'è l'evidente tentativo di descrivere il tragico e feroce regime fascista come un regime che commise sì degli errori, però che fece tante cose buone, che mandava gli oppositori in villeggiatura - questa cosa vergognosa la disse un ex Presidente del Consiglio che in questo momento è nel mondo dei giusti - e che faceva arrivare i treni in orario, dimenticando, in questo modo e in questa descrizione veramente ottimistica, gli orrori di un regime spietato, che arrivò al potere utilizzando una violenza inaudita, che ammazzava gli oppositori.

Noi siamo nel 2024, cioè nel centenario dell'omicidio dell'onorevole Matteotti, che sedeva a pochi passi da questo scranno che indegnamente occupo. Questo regime trascinò l'Italia in guerre di aggressione a Paesi inermi, in cui, a differenza del cliché “italiani, brava gente”, questo regime utilizzò qualsiasi metodo, in special modo quelli che violavano le convenzioni internazionali, per annichilire le nazioni invase. Questo regime approvò le immonde leggi razziali, trascinò il nostro Paese nella Seconda guerra mondiale e, fino all'ultimo, nella “Repubblichina” di Salò, mise in atto violenze di ogni tipo nei confronti della popolazione civile e di chi era in armi in quel momento, i partigiani, che resistevano all'occupazione nazifascista.

Noi a questi tentativi di riscrittura della storia non ci stiamo e rifiutiamo anche la nascente retorica delle guerre giuste, delle guerre inevitabili e della necessità di una corsa al riarmo, che sono tutti concetti contrari allo spirito pacifista che permea ogni articolo della nostra Costituzione, e, in particolare, all'articolo 11, che recita che l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Oggi come allora, sedicenti intellettuali da bar tentano di convincerci che la guerra, le guerre, la corsa al riarmo, la predominanza delle ragioni dello scontro rispetto a quelle dei negoziati e del confronto, siano scelte giuste.

Negli anni Venti e Trenta del secolo scorso c'erano, per esempio, tra gli intellettuali che propugnavano queste tesi, i futuristi, che addirittura sostenevano che la guerra fosse l'igiene del mondo, cioè che milioni di morti e trasferimenti improvvisi e violenti di ricchezza, spesso da chi ha meno nei confronti di chi ha di più, fosse un qualcosa di buono per la Terra, per il mondo, per il pianeta. Questi concetti sono assurdi e fanno rabbrividire, ma suscitavano l'unanime indignazione fino a qualche mese fa; invece, purtroppo, riscontriamo che stanno tornando in voga, piano piano, specie per bocca di sedicenti analisti, sedicenti esperti di cose militari, sedicenti politologi, che propalano queste assurde tesi, specialmente in TV.

Li sentiamo discettare in televisione della inevitabilità di scontri di civiltà, di armi nucleari tattiche, che, detta in questa maniera, sembra una cosa in fondo non tanto grave, solo che basta una di queste armi nucleari tattiche per sterminare una parte della popolazione del pianeta, e ognuna di queste definite tattiche è molto più potente delle due bombe che seminarono orrore e morte in Giappone, a Hiroshima e Nagasaki. Continuano, invece, a dirci, a tentare di convincerci, che c'è necessità di riconvertire le nostre economie in economia di guerra.

In Italia assistiamo sgomenti a queste posizioni, ma anche in Europa e, da ultimo, anche Draghi, nel suo rapporto, ha fatto cenno a questa necessità, perché, a loro dire, c'è necessità di produrre più carri armati, più cacciabombardieri, più armi in genere, più missili, più unità navali, più munizioni. Queste persone lo fanno con una tale leggerezza e ignoranza dei dettami della nostra Costituzione che il compianto Umberto Eco li avrebbe definiti imbecilli da bar, che parlano dopo qualche bicchiere di vino di troppo.

Presidente, noi siamo molto preoccupati di questa deriva bellicista e di esaltazione delle guerre passate e presenti. Anche per questo siamo molto attenti al messaggio che può derivare da questa proposta di legge, considerato anche che lo “Scirè” fu utilizzato dalla Xa MAS, che è tristemente nota non tanto per le sue azioni in guerra, ma per tutto ciò che combinarono nella “Repubblichina” di Salò al fianco delle SS, e compirono, come tutti noi sappiamo, massacri di civili inermi, per lo più di civili inermi.

Quindi, c'è bisogno sicuramente di una memoria condivisa. I deputati che mi hanno preceduto in questo mio intervento hanno spesso citato questa necessità e io ne sono assolutamente convinto per la mia parte politica. Assolutamente sì, abbiamo bisogno di memoria condivisa, ma innanzitutto la memoria condivisa è quella che viene fuori dallo spirito della nostra Costituzione. La nostra Costituzione - lo ripeto - è una Costituzione pacifista, che è nata dalla lotta di liberazione dal nazifascismo. Quella è, innanzitutto, la nostra memoria condivisa, e tutto il resto deve essere conseguente alla presa d'atto dello spirito che informa la Costituzione.

Allora, noi - ripeto - non abbiamo alcun problema a che vengano ricordati e omaggiati i sommergibilisti che persero la vita in quel tragico episodio, in quel tragico attacco della Marina britannica, ma ci preme sottolineare che questa memoria, questo omaggio, deve rimarcare il contesto storico, cioè rimarcare il fatto che quei sommergibilisti - prima lo diceva il deputato Malaguti - non hanno colpa. Noi siamo completamente d'accordo, non hanno alcuna colpa, sono vittime dell'allora regime fascista, della monarchia, che trascinò l'intero Paese e l'intera comunità italiana in una guerra vergognosa, che fece milioni di morti. Sono vittime e questo è importante per noi.

È questa la proposta che noi abbiamo fatto con un emendamento che abbiamo depositato per l'Aula - lo voglio leggere brevemente - e che è interamente sostitutivo dell'articolo 1. Dice: al fine di onorare i militari italiani che persero la vita nell'affondamento del sommergibile “Scirè”, rendendo loro omaggio quali vittime della guerra scatenata dal regime fascista e dalla monarchia, i quali trascinarono l'intera comunità nazionale in un conflitto mondiale di aggressione al fianco della Germania nazista, il relitto del sommergibile “Scirè” viene riconosciuto come sacrario militare subacqueo.

Se questo emendamento - che poi, peraltro, è analogo rispetto a quelli che sono stati presentati dal PD e da Alleanza Verdi e Sinistra -, verrà approvato, per noi sarà ben definito e ben delimitato sia il contesto storico sia la natura del sacrificio che fecero quei sommergibilisti, quei nostri soldati.

Se così non fosse, noi non potremo che votare contro questa proposta di legge; se, invece, verrà approvato questo emendamento - uno dei tre che le tre forze politiche di opposizione presenteranno -, ripeto, sarà chiaro il contesto e, allora, in quel caso, noi voteremo convintamente a favore di questa proposta di legge (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle e del deputato De Maria).

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche - A.C. 1744​)

PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare la relatrice, Paola Maria Chiesa, che rinuncia.

Ha facoltà di replicare il Governo, che rinuncia.

Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Discussione delle mozioni Richetti ed altri n. 1-00316 e Appendino ed altri n. 1-00327 concernenti iniziative per il rilancio produttivo e occupazionale degli stabilimenti italiani di Stellantis (ore 13,41).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Richetti ed altri n. 1-00316 e Appendino ed altri n. 1-00327 concernenti iniziative per il rilancio produttivo e occupazionale degli stabilimenti italiani di Stellantis (Vedi l'allegato A).

La ripartizione dei tempi riservati alla discussione è pubblicata nel vigente calendario dei lavori (Vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Avverto che è stata presentata la mozione Grimaldi ed altri n. 1-00328 che, vertendo su materia analoga a quelle trattate dalle mozioni all'ordine del giorno, verrà svolta congiuntamente (Vedi l'allegato A). Il relativo testo è in distribuzione.

Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.

È iscritta a parlare la deputata Valentina Grippo, che illustrerà anche la mozione Richetti ed altri n. 1-00316, di cui è cofirmataria. Ne ha facoltà.

VALENTINA GRIPPO (AZ-PER-RE). Grazie, Presidente. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il settore dell'automotive rappresenta un pilastro strategico dell'industria italiana, con un fatturato di oltre 90 miliardi di euro, pari al 5,2 per cento del nostro prodotto interno lordo. Tuttavia, questo settore, così fondamentale per il Paese, ha subito negli ultimi anni una drastica contrazione, con una produzione di sole 460.000 vetture nel 2022, rispetto alle 743.000 del 2019; una riduzione che non possiamo più ignorare e che è stata ulteriormente aggravata dalla pandemia.

Non è solo un dato congiunturale perché, se confrontiamo la situazione con quella di altri Paesi europei, vediamo che la Germania ha prodotto 3,5 milioni di veicoli, la Francia un milione, la Spagna 1,7 milioni, e questo confronto fa emergere chiaramente quanto il settore automotive italiano stia vivendo una situazione di difficoltà senza precedenti, non solo congiunturale ma legata alle scelte compiute con delle responsabilità precise.

La nostra mozione chiede, pertanto, impegni chiari da parte del Governo per contrastare questa tendenza negativa e salvaguardare il futuro degli stabilimenti italiani di Stellantis e lo fa - com'è nostro stile, come abbiamo fatto nel pubblico dibattito e nelle sedi istituzionali fino a qui sull'argomento - indicando una road map precisa degli interventi necessari. Tuttavia, questa road map non può non vedere, come prima cosa, una convocazione urgente, da parte del Governo, del Presidente di Stellantis e dell'amministratore delegato, per chiarire quali siano i piani industriali del gruppo per gli stabilimenti italiani e con quali garanzie sugli investimenti e sui livelli occupazionali si intenda procedere.

Giova ricordare che, nel 2020, FIAT Chrysler Automobiles - ora parte del gruppo Stellantis - ha beneficiato di un prestito di circa 6,3 miliardi di euro, grazie allo strumento Garanzia Italia, stanziato in virtù del decreto-legge Liquidità.

Questo prestito, pari al 25 per cento del fatturato del gruppo, un importo importante, doveva servire a sostenere le attività produttive italiane e a tutelare giustappunto i livelli occupazionali, per invertire quella tendenza che abbiamo illustrato in premessa.

Tuttavia, a distanza di tre anni, ci troviamo a dover constatare che tali impegni non sono stati rispettati; anzi, i dati, purtroppo, vanno esattamente nella direzione opposta. Tra il 2017 e il 2023, la produzione di veicoli in Italia, come detto, è scesa da oltre un milione a 751.000 unità e, nel solo primo semestre del 2024, abbiamo registrato una riduzione di oltre il 25 per cento. Se questo trend dovesse continuare, cari colleghi, la produzione annuale potrebbe attestarsi intorno alle 500.000 unità: un calo del 33 per cento rispetto al 2023. Parliamo di numeri davvero allarmanti, ben lontani dagli obiettivi fissati per il 2030 di un milione di veicoli prodotti annualmente. Non scordiamoci che questi obiettivi sono stati la precondizione per gli stanziamenti e i finanziamenti pubblici che Stellantis ha ricevuto.

A più riprese, il gruppo di Azione ha cercato di segnalare la questione, perché non può non preoccupare che una delle principali aziende del Paese, uno dei principali comparti di sviluppo, che beneficia di fondi pubblici, continui a sottrarre risorse e lavoro dall'Italia, senza dare risposte concrete sul futuro del settore. Dicevo, a più riprese, il gruppo di Azione alla Camera, al Senato, a partire da Carlo Calenda, ha sottolineato l'urgenza di convocare il management della società a Palazzo Chigi per chiarire i piani industriali. E queste richieste, lo ribadiamo anche oggi con questa mozione, non possono essere ignorate, soprattutto in un momento così critico per la nostra economia che evidentemente vanno ad aggravare la situazione.

Per stare al dato concreto, gli stabilimenti italiani di Stellantis sono tutti in crisi: non sfugge che, nella totalità dei casi, Melfi, Pomigliano, Cassino e Mirafiori oggi presentano delle difficoltà. Prendiamo, ad esempio, lo stabilimento di Atessa, che ha visto negli ultimi mesi un drastico calo della produzione, con un ricorso sempre più frequente alla cassa integrazione e alla chiusura di turni di lavoro. Troviamo la stessa situazione a Cassino che quest'anno ha perso il 30 per cento del personale e registrato un calo produttivo del 40 per cento rispetto al 2023.

E anticipiamo la risposta di chi dirà che la crisi è congiunturale e che ci sono dei fattori al di fuori dalla volontà aziendale che hanno determinato questa situazione: ebbene, non possiamo dimenticare quanto il confronto con gli stabilimenti francesi del gruppo ci restituisca una fotografia impietosa. Questi ultimi, infatti, sono quasi tutti già riconvertiti per la produzione di veicoli elettrici o ibridi, mentre in Italia siamo ben lontani da questi traguardi.

Un altro tema importante è, appunto, il rapporto fra calo occupazionale e il futuro della mobilità elettrica. La transizione verso la mobilità elettrica è una sfida che dobbiamo affrontare con decisione. Stellantis ha annunciato investimenti globali per oltre 50 miliardi di euro, per arrivare al 100 per cento di veicoli elettrici venduti in Europa entro il 2030. Tuttavia, l'Italia non può essere esclusa da questa transizione e da questo percorso: chiediamo che gli stabilimenti italiani siano parte integrante di questo piano, che vengano riconvertiti per la produzione di veicoli elettrici, garantendo così occupazione e investimenti nel nostro Paese.

In tal senso, naturalmente, è centrale anche il sostegno che verrà dato alla formazione dei lavoratori. È fondamentale sostenere le competenze e la formazione permanente dei nostri lavoratori, accompagnandoli in questa transizione con programmi di riqualificazione professionale che consentano loro di affrontare le nuove sfide del settore automotive.

Per questa ragione, la nostra mozione chiede al Governo - l'ho detto - in primis di convocare il management e di impegnarsi per un chiarimento, congiuntamente al management, subordinando così i sostegni e i supporti che arrivano da parte del Governo italiano, rispetto ai propri progetti per il 2024 e per gli anni successivi e, soprattutto, di rispondere su quelli che sono già arrivati. Infatti, concludendo, onorevoli colleghi, non possiamo accettare passivamente il declino di un settore così strategico nel nostro Paese.

L'Italia deve essere protagonista nella transizione verso la mobilità del futuro e Stellantis deve essere parte di questa storia non solo a parole, ma con fatti concreti di cui si giovano direttamente l'Italia, la produttività italiana e i lavoratori italiani. Chiediamo al Governo di agire con decisione, di convocare in tempi rapidi i vertici dell'azienda e pretendiamo risposte chiare sul futuro degli stabilimenti italiani. È tempo di difendere il lavoro e l'industria italiani senza esitazioni.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Lomuti, che illustrerà anche la mozione Appendino ed altri n. 1-00327, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

ARNALDO LOMUTI (M5S). Grazie, Presidente. Occuparsi di automotive significa parlare di una prioritaria ed anche eccellenza del settore manifatturiero italiano. In Italia il settore dell'automotive coinvolge migliaia di persone e di imprese che operano per la produzione di materie prime e macchine utensili: quelle strettamente produttive, quelle che si occupano di imballaggi, trasporto merci e servizi legati agli autoveicoli e quelle dei servizi automotive per un totale di circa 5.500 aziende, centinaia di migliaia di addetti e un fatturato di circa 100 miliardi di euro, pari al 5,6 per cento del PIL nazionale, con un contributo al gettito fiscale per oltre 76 miliardi di euro.

L'Italia è molto competitiva nella produzione di veicoli commerciali e della componentistica, tuttavia la produzione di auto in Italia mostra scenari preoccupanti: da circa 1 milione e mezzo di veicoli prodotti nel 1999 siamo scesi a 473.000 nel 2022. La crisi si è estesa in tutto il Paese, non risparmiando nessuno dei grandi stabilimenti e delle aree industriali presenti su tutto il territorio nazionale: Melfi, Torino, Pomigliano, Cassino, Termoli e Atessa sono tutti in chiara sofferenza. Stiamo parlando di un settore articolato e composto da numerose realtà, dove la componentistica rappresenta il nostro fiore all'occhiello, costituente il 20 per cento di valore aggiunto, fortemente radicato nei mercati internazionali (ad esempio, la Germania è il nostro primo cliente). Eppure, la situazione di Stellantis in Italia, con i suoi 6 stabilimenti produttivi, è preoccupante: 40.000 addetti (11.500 unità in meno dal 2015); un costante ricorso agli ammortizzatori sociali, tra cassa integrazione, contratti di solidarietà e uscite incentivate, che hanno portato 3.800 unità a uscire nel 2024; la produzione del primo semestre 2024 è precipitata del 30 per cento rispetto all'analogo periodo del 2023 con aumento, ovunque, del ricorso alla cassa integrazione; i 950 milioni di euro di incentivi, stanziati nel 2024, non hanno invertito la rotta.

Sul destino degli stabilimenti si rincorrono periodicamente annunci, dichiarazioni, indiscrezioni, ai quali però, non corrisponde una seria iniziativa di trattativa tra Governo, azienda e sindacati; in pratica, a fronte della sofferenza del settore, non esistono azioni concrete per rilanciare gli stabilimenti.

Secondo uno studio di Federcontribuenti, dal 1975 al 2012, FIAT ha ricevuto dallo Stato italiano 220 miliardi di euro per cassa integrazione, sviluppo industriale, sussidi ed implementazione degli stabilimenti. Nel 2020 a FCA sono stati concessi altri 6,3 miliardi di euro di linea di credito con garanzia SACE: il prestito, sì, è stato restituito, ma senza che i livelli di produzione tornassero come quelli pre-pandemia.

Stellantis produce in Francia 1.000.000 di auto e 15 modelli e quasi tutta la componentistica; in Italia ne produce 500.000 e 13 modelli a fine vita risalenti al periodo di FCA. Questo vuol dire che, da quando abbiamo Stellantis, non è stata portata in Italia nessuna produzione di nuovi modelli. Uno dei problemi principali è che, a differenza del Governo francese, che ha una partecipazione azionaria del 6,5 per cento in Stellantis, il Governo italiano non ha alcuna partecipazione diretta. È, inoltre, evidente come la fusione abbia spostato anche il baricentro del consiglio di amministrazione con maggioranza del gruppo francese PSA, compreso l'amministratore delegato, con un team manager che ha 25 partecipanti francesi contro i 18 italiani: ciò comporta un grande rischio, nella futura programmazione industriale, per la salvaguardia degli stabilimenti francesi o maggiormente legati a PSA e mette in competizione anche i fornitori di I livello con quelli fuori dall'Italia, molti dei quali oggi non hanno ancora rinnovato le commesse.

Stellantis ha chiuso il 2023 con un utile netto di 18,6 miliardi - in crescita dell'11 per cento rispetto al 2022 - e ricavi netti per 189,5 miliardi, annunciando un dividendo di 1,55 euro per azione ordinaria, circa il 16 per cento in più dal 2022. Exor, la holding della famiglia Agnelli-Elkann, che detiene il 14 per cento delle azioni di Stellantis, ha incassato per il 2023 circa 700 milioni di euro di dividendi contro i 140 del 2020. Tavares nel 2023 ha percepito 23 milioni di euro, pari alla retribuzione di 12.000 dipendenti, mentre le lavoratrici e i lavoratori sono sottoposti a un massiccio utilizzo della cassa integrazione, con incertezze sulla tenuta occupazionale e una significativa decurtazione del salario.

Le novità introdotte, oggi, nel contesto normativo europeo - l'evoluzione della tecnologia nella propulsione elettrica, delle batterie di ricarica e dei circuiti e le nuove esigenze di mobilità dei cittadini - impongono alle grandi aziende automobilistiche l'avvio immediato di un processo di ulteriore e profonda trasformazione dell'assetto produttivo e della filiera di distribuzione. Di conseguenza, è necessaria una politica industriale finora assente nell'azione di Governo, in un contesto di trasformazione che invece, se ben supportata, potrebbe rappresentare un'opportunità di ritornare a crescere.

Abbiamo il parco auto tra i più vetusti in Europa e questo significa che servono politiche di svecchiamento, che devono guardare anche l'infrastrutturazione per la mobilità sostenibile, dato che in Europa sono presenti 12,3 colonnine di autoricarica elettrica ogni 100 chilometri, mentre in Italia è di 7,9. Occorre creare ecosistemi socio-economici, anche tramite il coinvolgimento di università, per la sfida del cambiamento verso l'elettrico, serve più ricerca per lo sviluppo di prodotti e tecnologie e, contemporaneamente, occorre mettere in campo una concreta riqualificazione professionale degli addetti. Di tutto questo non c'è traccia di iniziative da parte del Governo: la regione Basilicata, tranne qualche iniziativa di mera propaganda elettorale a ridosso delle elezioni regionali, potremmo definirla come non classificata.

Presidente, su questo tema così importante, stiamo facendo e continueremo a fare quello che dovrebbe fare il Governo: ascoltare. Abbiamo appreso in maniera chiara la preoccupazione sulla situazione occupazionale e industriale e diciamo al Governo che, qualora Stellantis ritenesse necessario migliorare o adattare il progetto produttivo in Italia con nuove soluzioni, che garantiscano la sostenibilità degli stabilimenti, dei suoi indotti e dell'occupazione, le parti sociali sono pronte a un confronto immediato. Abbiamo ascoltato i timori di lavoratori e lavoratrici, che riguardano soprattutto le indecisioni normative e politiche rispetto alle nuove proposte sui carburanti sintetici. Queste indecisioni stanno mettendo in discussione il futuro dell'industria automobilistica, disorientando il mercato e i consumatori. Tutto ciò porta a rinunce o ritardi negli acquisti di automobili.

Per queste ragioni, parte delle sigle di categoria insistono nel sostenere che tutte le nuove auto, che verranno prodotte, ad esempio, a Melfi nel 2025 e 2026, debbano essere disponibili anche in versione ibrida. Questa è la conseguenza delle politiche arrancate del Governo, che generano incertezza sull'elettrico: in un contesto di indecisioni normative, politiche e tecnologiche non si può alimentare ulteriormente la confusione con soluzioni diverse, proposte da ogni parte; è necessaria, invece, la coerenza. Urge un confronto con tutti gli attori in gioco ed è prioritario impostare un piano industriale europeo per il settore automobilistico, soprattutto contro i rischi della delocalizzazione e della concorrenza di prodotti a basso costo, sostenuti da politiche commerciali poco equilibrate.

Questa situazione sta generando serie conseguenze occupazionali negative in Italia e in Europa, con oltre 70.000 posti di lavoro a rischio, solo nel nostro Paese. Purtroppo, non c'è traccia di iniziative da parte del Governo italiano verso l'Unione europea per intervenire tempestivamente, magari in collaborazione con gli altri Governi nazionali, per rilanciare il settore, prevenire la chiusura degli stabilimenti e incentivare investimenti mirati alla transizione industriale verso l'elettrificazione, la digitalizzazione e l'economia circolare.

Il MoVimento 5 Stelle esprime preoccupazione per il futuro di molte aziende e per quello di moltissimi lavoratori e lavoratrici. Per questo sollecitiamo, da tempo, interventi concreti per contrastare questa incertezza. Ora è il momento che Stellantis e le istituzioni si assumano la responsabilità sociale di rilanciare l'azienda in tutti i suoi siti produttivi, concretizzando un accordo che tuteli l'occupazione e lavoro.

La transizione ecologica non è più rinviabile e la scelta dell'elettrico è imprescindibile per le politiche future e per la salvaguardia del pianeta. La scelta di abbandonare il motore endotermico entro il 2035 è del tutto condivisibile, ma la scelta dell'Europa ha criticità troppo evidenti, in quanto ha fissato regole stringenti, lasciando la governance al libero mercato e non prevedendo alcun investimento finanziario che incentivi la transizione. Questo determina una serie di pericolose incertezze nel percorso che l'Europa deve fare fino al 2035. Senza giri di parole servono investimenti: gli Stati Uniti hanno investito 400 miliardi di dollari; la Germania 200 miliardi di euro; la Francia 100 miliardi; al confronto l'Italia, con 1 solo miliardo di euro come incentivo sull'acquisto di auto elettriche, compie una scelta inadeguata, ridicola e irrisoria, anche perché in questo modo l'Italia non incontra l'offerta delle auto elettriche prodotte nel nostro Paese da Stellantis, ma anzi in questo modo si avvantaggiano gli altri competitor e le altre produzioni allocate all'estero.

La vicenda dell'automotive in Italia ha assunto una tale dimensione che necessita di un intervento strutturale e di insieme, che, da un lato, preveda politiche industriali, mirate specificatamente al comparto e al suo indotto, e, dall'altro, si rivolga alla mobilità elettrica in senso lato, non esclusivamente legata all'autovettura: parliamo di infrastrutture. Stellantis sta lasciando nei guai decine di aziende. Agli operai di Pomigliano si è dato il bentornato dalle ferie con la cassa integrazione e con il ritorno allo spettro degli esuberi.

Ad Atessa non va meglio, così come per Mirafiori: a Torino si producono sempre meno auto e le aziende fornitrici dello stabilimento piemontese sono le prime a soffrire la crisi tra fallimenti, casse integrazioni e scarse prospettive per gli operai. A Cassino, settembre è iniziato con lo stop alle produzioni; a Termoli aspettano ancora la gigafactory.

Melfi: io sono nato e cresciuto in quell'area - quella del Vulture-Melfese, in Basilicata - dove, negli anni a cavallo tra il ‘93 e ‘94, è stato realizzato e avviato lo stabilimento automobilistico SATA-FIAT, oggi Stellantis; tale stabilimento, insieme alle aziende dell'indotto, non aveva solo l'obiettivo di costruire automobili, ma anche di ridurre la disoccupazione e frenare lo spopolamento. Infatti, il sito e i suoi lavoratori hanno generato una forte spinta all'economia della Basilicata e, in parte, alla vicina Puglia. I lavoratori, rimanendo nei propri paesi, hanno alimentato l'economia locale: per questo motivo, il fallimento del sito automobilistico lucano rappresenterebbe un prezzo troppo alto per questa zona del Mezzogiorno.

Riporto alcuni dati che fanno riflettere. Nel 2016, a Melfi, sono state prodotte 370.000 auto; nel 2023, invece, ne sono state prodotte solo 170.000. Nel 2016, gli occupati erano circa 7.230, mentre oggi siamo scesi a circa 5.400. Per quanto riguarda le circa 30 aziende dell'indotto, che rappresentano l'anello più complesso del sistema riorganizzativo, anche queste vivono difficoltà consequenziali, ma possono crescere e rinnovarsi se solo si creassero le condizioni adeguate. Teniamo presente che in queste aziende lavorano circa 3.000 persone.

Dal 2021, a seguito della riorganizzazione e delle modifiche interne allo stabilimento, a Melfi si è passati da 20 turni lavorativi a 15 turni e da quattro squadre a tre; la produzione, invece, è passata da due linee ad una, anche in attuazione delle modifiche all'impianto meccanico, finalizzate alla produzione di auto elettriche e ibride. Oggi, la missione produttiva per lo stabilimento Stellantis di Melfi è di 5 nuove vetture elettriche in produzione tra il 2025 e 2026: prospettive sulle quali occorrerà, comunque, un monitoraggio da parte del Governo. Stellantis non può e non deve fare ciò che vuole.

Il forte ridimensionamento dello stabilimento Stellantis di Melfi e del suo indotto significherebbe, per la Basilicata, un forte arretramento per declino occupazionale e produttivo, al punto che, l'area del Vulture-Alto Bradano, diventerebbe una delle aree più depresse del Paese dal punto di vista economico e sociale, con una perdita occupazionale di circa 14.000 addetti, compresa la domanda aggregata, ed una perdita del PIL della Basilicata del 7 per cento. Di conseguenza, il PIL pro capite regionale passerebbe dal 79 per cento della media nazionale attuale a poco più del 73 per cento; l'export regionale si ridurrebbe di due terzi; la presenza internazionale dell'economia lucana diverrebbe inconsistente e l'occupazione regionale diminuirebbe del 7,5 per cento, con una perdita di oltre 14.000 addetti. Il comparto manufatturiero regionale si ridimensionerebbe notevolmente, scendendo, in termini di incidenza, dal 12 per cento attuale al 5 per cento del PIL, trasformando la Basilicata in una regione unicamente agricola e di servizi. A livello territoriale, la provincia di Potenza perderebbe il 16 per cento dei suoi addetti totali e il 50 per cento dei suoi addetti manufatturieri. Il Vulture-Melfese diverrebbe una delle più gravi aree di crisi del Paese, perdendo il 38 per cento della sua occupazione totale e il 70 per cento di quella manufatturiera.

La Basilicata è già afflitta dallo spopolamento e oggi bisogna porre attenzione anche alla denatalità. Dico “attenzione” perché, se è vero che il fenomeno migratorio nel Mezzogiorno è sempre esistito, c'è da dire che è sempre stato accompagnato da una crescita demografica; oggi, invece, lo spopolamento è accompagnato dalla decrescita demografica, determinata dalla denatalità. Capiamoci bene: così non abbiamo nemmeno più la speranza di un futuro. In conclusione, se il futuro dell'automotive in Italia è incerto, è arrivato il momento in cui il Governo intervenga a difesa del lavoro e del Paese: ci sono famiglie e intere comunità ad essere coinvolte.

L'istituzione dell'area di crisi complessa non è sufficiente a superare la crisi, è necessario che Stellantis dia risposte sul piano industriale. Per questi motivi, chiedo a tutti i colleghi deputati di votare a favore della nostra mozione, con tutti gli impegni in essa compresi. Mi avvio alla conclusione, Presidente. Una politica industriale che non contrasta i ritardi, ma, anzi, che, in qualche modo, li incentiva, rischia, nei prossimi anni, di aggravare situazioni già in sofferenza, nonché di creare veri e propri cataclismi socio-economici.

I cambiamenti - come quello rappresentato dalla transizione ecologica e, quindi, energetica - vanno dominati e non subiti, come ci sta abituando, invece, questo pessimo, inerte Governo di centrodestra, che non ha nulla di patriottico, quando qualche volta, invece, dovrebbe averlo (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Francesca Ghirra, che illustrerà la mozione n. 1-00328, di cui è cofirmataria. Ne ha facoltà.

FRANCESCA GHIRRA (AVS). Grazie, Presidente. Onorevoli colleghe e colleghi, signor Sottosegretario, ricordate quando il settore automobilistico era la punta di diamante dell'industria metalmeccanica? Negli anni Novanta, l'Italia si sfidava con la Germania per veicoli prodotti. Nel ‘92 era il secondo produttore in Europa e il quinto nel mondo. Oltre 2 milioni di autovetture prodotte. Ebbene, oggi l'Italia è sotto la Repubblica Ceca e nel 2024 non si arriverà a 350.000 auto. Eppure, l'automotive e la sua filiera generano ancora l'11 per cento del PIL nazionale: un settore, dunque, che non possiamo permetterci di lasciar scomparire. Peccato che Stellantis abbia appena annunciato la sospensione, fino all'11 ottobre, della produzione della FIAT 500 elettrica nello stabilimento di Mirafiori a Torino.

Dal 2014 a oggi, 11.500 lavoratori diretti sono usciti dagli stabilimenti italiani di Stellantis e 2.800 dagli enti centrali. Nel 2024, sono previste ulteriori 3.800 uscite incentivate, più oltre 3.000 lavoratori in somministrazione che risultano licenziati al giugno 2024. Questi sono stati gli unici reali investimenti di Stellantis da quando è nata: incentivi ai lavoratori per andarsene.

Altro che transizione ecologica, è una chiara strategia di disinvestimento e lo dicono i numeri: Cassino, da 30.006 vetture prodotte nel primo semestre del 2023 a 18.375 nel 2024; Melfi, da 99.085 nel 2023 a 56.935 nel 2024; Mirafiori, da 52.000 a 18.500. Stellantis, ad agosto, ha perso oltre il 30 per cento delle vendite. Il marchio FIAT è stato superato da Toyota, Volkswagen e Dacia. La produzione è calata dell'83 per cento rispetto ai primi otto mesi del 2023. E i modelli? Solo la 500 elettrica e due Maserati. Ma badate, nel frattempo aumentano gli utili, anche grazie all'uso massiccio di cassa integrazione e contratti di solidarietà. Nel 2025, quando scadrà la cassa per i lavoratori di Melfi, si rischia di perdere circa 25.000 posti di lavoro.

Inoltre, lo stop alla produzione della 500 elettrica a Mirafiori avrà un impatto devastante sulla filiera dell'indotto: dalla Denso di Poirino alla Novares di Riva di Chieri, dalla Magna-Olsa di Moncalieri alla SFC Solutions di Cirié. La crisi dell'indotto nel torinese potrebbe causare anch'essa una perdita di oltre 25.000 posti di lavoro già nel 2025. Dal 2008 a oggi, nella componentistica torinese, più di 500 aziende hanno cessato l'attività e 35.000 persone hanno perso il lavoro.

La verità è che le produzioni sono state spostate all'estero. In Francia, si aprono nuovi stabilimenti, si assumono dipendenti e si producono un milione di auto - 15 modelli - e quasi tutta la componentistica, mentre in Italia sono prodotte circa 500.000 auto e 7 modelli. Abbiamo la 500 algerina, la Panda serba, la Topolino prodotta anche il Marocco, l'Alfa Romeo Junior realizzata in Polonia.

Agli annunci di investimento sullo stabilimento torinese per la realizzazione di un green campus non sussegue alcun fatto.

Intanto, Stellantis vende Comau, azienda specializzata nell'automazione industriale, al fondo d'investimento statunitense One Equity Partners. Lo stesso aveva fatto con la Marelli, ceduta nell'ottobre 2018 dalla FCA alla giapponese Calsonic Kansei, integralmente controllata dal fondo di investimento americano KKR. Adesso, la dirigenza Stellantis vorrebbe trasferire in Polonia una decina di lavoratori di Mirafiori. Questa dirigenza è così sfacciata da proporre l'acquisto della Maserati agli stessi operai che ha messo in cassa integrazione nel primo trimestre dell'anno e, poi, in contratto di solidarietà, con riduzione dell'orario dell'80 per cento fino al termine del 2024. Parliamo di lavoratori che prendono poco più di 1.100 euro al mese. Davvero una proposta scandalosa. Quanto ancora dovranno sentirsi offesi e presi in giro da un'azienda che ha massacrato il sito di Mirafiori e nei prossimi mesi non prevede alcuna ripresa?

L'apertura del battery center nel 2023 e del cosiddetto hub dell'economia circolare Sustainera non hanno portato ad alcuna nuova assunzione. La tanto osannata quota di partecipazione del 20 per cento acquisita dalla cinese Leapmotor non affiancherà nuove vetture elettriche alla 500 elettrica di Mirafiori. Come mai? Perché, a quanto pare, la produzione di tali modelli si svolgerà in Ungheria. In tutto ciò, dal 1975 al 2012, FIAT ha ricevuto dallo Stato italiano 220 miliardi di euro per Cassa integrazione, sviluppo industriale, sussidi e implementazione degli stabilimenti. Nel 2020, a FCA sono stati concessi 6,3 miliardi di linea di credito con garanzia SACE. Il prestito è stato restituito, ma senza che i livelli di produzione tornassero mai a quelli precedenti la pandemia. E proprio grazie al passaggio all'elettrico, Stellantis è al secondo posto nella classifica europea, con una quota di mercato di quasi il 18 per cento. Ebbene, entro il 2030 i veicoli elettrificati costituiranno oltre il 70 per cento delle vendite in Europa; peccato che, a livello europeo, nel nostro Paese, le case automobilistiche abbiano preferito continuare a fare margini facili sull'endotermico, con la conseguenza che i produttori coreani e cinesi ci stanno superando. Dovrebbero mettersi in testa di colmare questo gap, invece di continuare a chiedere una proroga del phase out. Ecco perché, ancora una volta, chiediamo al Governo di convocare i vertici di Stellantis e di vincolare Stellantis al rispetto degli impegni presi in investimenti per nuovi modelli, livelli di produzione e garanzie occupazionali, di prorogare gli ammortizzatori sociali e impedire i licenziamenti di massa. Chiediamo un'integrazione al reddito per le lavoratrici e i lavoratori in Cassa integrazione da mesi - da anni ormai! - e chiediamo, ancora una volta, di favorire gli investimenti stranieri, nel pieno rispetto di salari, norme e contratti di lavoro, partnership con produttori cinesi e internazionali più avanzati nella produzione di modelli elettrici e investimenti veri nella transizione all'elettrico. Torino e l'Italia possono ancora produrre auto, oggi non lo stanno facendo ed è da tempo che il Governo intervenga. Confidiamo che lo facciate subito e prima che sia troppo tardi.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Arturo Scotto. Ne ha facoltà.

ARTURO SCOTTO (PD-IDP). Grazie, Presidente. Intanto voglio ringraziare i gruppi che si sono fatti carico di presentare una mozione parlamentare su Stellantis e sul futuro dell'automotive italiana. Saremo anche noi della partita e nelle prossime ore depositeremo un nostro testo, provando a interloquire con tanti dei contenuti che oggi sono stati introdotti nella discussione. Proveremo a farlo partendo da un principio di realtà: questo è un dibattito non più rinviabile, che ha un'urgenza oggettiva che sta dentro, innanzitutto, a una gelata del settore dell'automotive, che non può essere esclusivamente rinchiusa all'interno dei nostri confini nazionali. Lo voglio dire con grande franchezza: la preoccupazione è generale. Guardiamo la Germania e gli annunci di Volkswagen di licenziamenti: non c'erano licenziamenti nel settore automobilistico dagli inizi degli anni Settanta. Audi chiude due fabbriche e neanche Mercedes se la passa troppo bene. Per quello che riguarda Stellantis, siamo dentro a una fusione che sembra tendere, ormai, ad avvantaggiare solo uno dei due contraenti.

Guardiamo un dato che, secondo me, forse, è quello più emblematico. Poi, chiaramente, se stiamo sul terreno dei dividendi, la storia da raccontare è un'altra, ma andiamo ai dati della produzione, che sono quelli che ci interessano e sui quali è giusto aprire una riflessione: 2024, Francia, un milione di auto prodotte per 19 modelli nuovi e 90 per cento della componentistica; 2024, Italia, mezzo milione di auto prodotte, eppure, come veniva citato prima dai colleghi meglio di me, il prestito SACE, sicuramente restituito nei tempi giusti, imponeva tra le condizionalità un ritorno agli stessi livelli di produzione degli anni precedenti. Siamo a mezzo milione, signor Presidente, su 15 modelli automobilistici abbastanza vetusti e destinati ad uscire dalla produzione. Se guardiamo alla vicenda di Pomigliano d'Arco, entro il 2029 la Panda uscirà di produzione e, nel frattempo, quella stessa Panda, che si produce a Pomigliano, verrà prodotta anche in Serbia.

Dunque, noi siamo di fronte a un cammino che rischia di penalizzare non solo Stellantis, ma l'Italia e la sua - a proposito di sovranismo - sovranità nel settore manifatturiero, in un'industria che, ancora oggi, ha un impatto sull'economia italiana decisivo e fondamentale. I numeri sono abbastanza evidenti: 5.500 imprese, 272.000 addetti in tutto il settore che circola attorno all'automotive, quasi il 6 per cento del prodotto interno lordo e 76 miliardi annui di gettito fiscale. Stellantis ha 40.000 addetti diretti: siamo, rispetto al 2015, già sotto di 11.500 unità; e in alcune regioni - penso al Piemonte - siamo quasi al 50 per cento di Cassa integrazione. Forse qualche errore è stato compiuto. E forse, tra gli errori, c'è anche il fatto di aver orientato gli incentivi sul terreno della domanda, mentre, invece, occorreva orientarli sul terreno dell'offerta e, dunque, sull'innovazione di processo e di prodotto, che serviva innanzitutto per qualificare la sfida di Stellantis.

Un Governo può fare tanti mestieri - e questo è un Governo che fa tante parti in commedia - ma uno non può farlo, ossia quello di andare a solleticare istinti e pregiudizi, a fare politica col torcicollo. Io non credo che serva una Presidente del Consiglio che si rechi all'assemblea di Confindustria e si metta a fare la paladina del rinvio dell'uscita dalla produzione del motore endotermico. Anche perché, parlando a quell'assemblea di imprenditori, anziché dire loro la verità, li ha presi in giro, perché la Presidente del Consiglio sa benissimo che questo non si può fare. Cosa dovrebbero fare un Governo e un Presidente del Consiglio che provano a fare politica, a portare il proprio Paese nella modernità, a salvare gli stabilimenti Stellantis e la manifattura? Provano a spingere sul terreno dell'innovazione e costruiscono anche una sfida positiva, da questo punto di vista, con Stellantis, introducendo condizionalità e aprendo un ragionamento sul futuro dell'automotive. Allora, la domanda che mi pongo è: per quale motivo Giorgia Meloni non ha ancora convocato in maniera permanente un tavolo integralmente dedicato all'automotive a Palazzo Chigi? Non può essere una vicenda che viene affrontata dai singoli Ministeri. Stiamo parlando del futuro della manifattura italiana e della manifattura della sesta potenza economica al mondo.

E per quale motivo non c'è uno sforzo, incentivato anche dalla politica, a introdurre condizionalità per costruire modelli che parlino a mercati più ampi e che vincano la sfida della competizione? E perché, allo stesso tempo, non c'è un rapporto, un dialogo più stretto anche con le forze sindacali? Noi qui ci troviamo di fronte, nel pieno di questa difficoltà, di questa crisi, a scelte difficili. C'è un rinnovo contrattuale: che impegno mette in campo il Governo? Mette in campo un impegno per garantire quei livelli di retribuzione necessari per evitare che i salari e gli stipendi dei lavoratori metalmeccanici siano mangiati dall'inflazione, che il loro potere d'acquisto venga ancora ridimensionato, oppure ci mette un carico, anche nel rapporto con Stellantis e con i produttori?

Secondo, dentro quella piattaforma di CGIL, CISL e UIL, di FIOM, FIM e UILM, delle categorie metalmeccaniche dei principali sindacati italiani, c'è la sfida dell'innovazione, a partire dalla riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario. Sì, non è un caso che cito questo tema, che è anche oggetto di un lavoro, di una discussione che è in corso in Commissione lavoro e che arriverà in Aula quest'autunno, sul quale le forze progressiste vogliono fare uno sforzo di unità, di costruzione di un'ipotesi unitaria. Quella sfida, innanzitutto, ha un doppio dividendo: da un lato, sul terreno della produttività, ma, dall'altro, sulla salvaguardia necessaria di posti di lavoro in tante aziende che oggi stanno reagendo sul terreno della cassa integrazione.

Penso a Pomigliano, penso a Mirafiori, penso a Cassino, penso agli stabilimenti che sono stati citati di Atessa, ma penso anche a tutto quello che si muove attorno al settore metalmeccanico, a partire dalla produzione degli autobus, dove, anche grazie all'impegno del Partito Democratico e dei sindacati, siamo riusciti - penso a Crevalcore - a evitare ulteriori disastri. Noi ci troviamo, però, di fronte a questo dato. Dunque, la sfida dell'innovazione, la sfida e la salvaguardia dei posti di lavoro, la sfida necessaria per questo Governo di aprire anche interlocuzioni con altri.

Ora, veniva detto da tanti colleghi, non ci ritorno, il rapporto tra FIAT e il nostro Paese è strettamente intrecciato. Qui non si tratta di fare una polemica sul passato, sulle occasioni perse, sulle risorse che sono state messe in campo. Mettiamola così: chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. E, però, c'è una questione di fondo: un grande Paese come il nostro, che ha scelto la strada degli incentivi sulla domanda, e non la strada degli incentivi sull'innovazione di processo e di prodotto, forse il tema di un secondo produttore deve cominciarselo a porre. Un Governo che ha in testa politiche industriali e di salvaguardia della manifattura in questo Paese, a partire dal settore dell'automotive, questo punto lo deve mettere a tema, a terra, persino il rapporto con Stellantis.

Rapporto che deve essere costruito su elementi di verità, sull'interesse reciproco a rilanciare il settore e a rimettere al centro quelle promesse che oggi sembrano smarrite e perse. Deve porsi inevitabilmente il tema anche di un eccesso, la dico così, forse di scarsa sensibilità dell'azienda, di questa multinazionale, rispetto alle difficoltà di larga parte dei propri dipendenti. Insomma, qui non è che stiamo svelando dei segreti, quando vediamo che l'utile netto nel 2023 di Stellantis è quasi di 19 miliardi, più 11 per cento rispetto all'anno precedente, e che i dividendi distribuiti dalla Exor, la holding dove è presente la famiglia Elkann, che ha il 14 per cento di Stellantis, fa 700 milioni di euro.

Tavares, di cui chiediamo nelle mozioni - e noi siamo d'accordo - insieme alla proprietà che venga convocato, audito e messo a parte di tutta questa sfida, guadagna ogni anno 23 milioni di euro, più di 12.000 dipendenti della propria azienda. Negli anni Cinquanta, Valletta, che non era sicuramente un esponente del mondo progressista, sosteneva che, se un manager guadagna dieci volte più del proprio lavoratore dipendente, c'è un problema. Valletta. E allora, credo che dobbiamo fare questo sforzo: dobbiamo mettere al centro questa sfida, salvare il settore automobilistico, costruire un rapporto paritario con Stellantis, mettere al centro tutte le iniziative possibili per rilanciare questo settore, ragionare in grande e non ragionare con il torcicollo.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Ruspandini. Ne ha facoltà.

MASSIMO RUSPANDINI (FDI). Grazie, Presidente. Mi consenta una piccola digressione sulla storia recente di FIAT e del suo indotto. Abbiamo detto in quest'Aula che l'Italia è passata a produrre da 2 milioni di autovetture e veicoli commerciali nel 1990 a un 1.700.000 nel 2000, a quasi 850.000 nel 2010 fino alle circa 500.000 unità del 2022. Confrontando questi dati con quelli dei maggiori produttori, emerge che l'Italia, seconda manifattura in Europa, è diventata il fanalino di coda nella produzione di auto, perdendo oltre il 20 per cento degli occupati negli ultimi 20 anni.

La verità è che le origini di questa anomalia possono essere ricondotte alla sciagurata scelta effettuata nel 1986, quando il Governo italiano caldeggiò la vendita, da parte dell'IRI, di Alfa Romeo alla FIAT, e non alla Ford, la cui offerta, per razionalità economica e contesto internazionale, avrebbe probabilmente dovuto prevalere. Con l'operazione Alfa Romeo, FIAT terminò l'iter di acquisizione di tutti i competitor italiani, generando una situazione di dominio incontrastato, durata fino ai giorni nostri, in palese controtendenza con quello che avveniva negli altri Stati europei e anche negli USA, dove i Governi aprivano e favorivano gli investimenti diretti esteri da parte di altri produttori di auto.

Il modello produttivo di FIAT dell'epoca, che si basava sull'assemblaggio di componenti prodotte da un gruppo ristretto di multinazionali, per la maggior parte estere, che si relazionavano con una pletora di subfornitori locali specializzati di piccole dimensioni, entra in crisi a cavallo del 2000. L'esternalizzazione della progettazione e della produzione ai fornitori aveva svuotato l'azienda di competenze chiave, rivelandosi un boomerang anche sul fronte dei costi. A metà degli anni Duemila, quando FIAT sfiora il fallimento, l'intera filiera auto italiana, che in FIAT confidava per la quasi totalità del fatturato, rischiò di subire la stessa sorte.

Inoltre, una politica di forte pressione sulla riduzione dei costi verso i fornitori aveva ridotto la loro redditività e minato il rapporto di fiducia, sicché molti di essi iniziarono a ridimensionare gli investimenti o provarono a diversificare il portafoglio clienti. Come è noto, l'industria italiana dell'auto si salverà grazie a Sergio Marchionne, manager che diventerà il simbolo del rilancio della FIAT, il quale, con mezzi finanziari limitatissimi, iniziò a ricostruire l'azienda, a partire dall'ingegneria di prodotto e dalla capacità di sviluppare progetti economicamente sostenibili.

Per la filiera questo divenne il segnale di razionalità e di affidabilità che si attendeva dai tempi di Vittorio Ghidella, il grande oppositore della strategia di finanziarizzazione e disinvestimento dell'auto voluta da Agnelli e anche da Romiti.

Un po' per necessità, un po' per convinzione nel nuovo progetto, molti fornitori decisero di seguire la nuova leadership e concedere, in un solo anno, un importante taglio dei costi. Le risorse finanziarie liberate dall'operazione furono sufficienti per avviare il processo di ristrutturazione interna. Gli anni seguenti costituiscono una fase di ritrovata vitalità per l'azienda, che culmina con l'acquisizione di Chrysler, partita nel 2009 e completata nel 2014, con la costituzione della FCA (FIAT Chrysler Automobiles).

Si tratta di un'operazione di successo di fusione tra pari, un'operazione sui generis per il settore automobilistico, nel quale le operazioni di fusione seguono normalmente due schemi: nel primo, l'acquirente domina l'acquisito, che ne diventa una divisione; nel secondo, l'acquirente e l'acquisito realizzano collaborazione su singoli progetti o piattaforme, ma non un'integrazione organizzativa e operativa, come è accaduto qui.

Negli anni successivi, infatti, il gruppo dirigente, sotto la guida di Marchionne, proverà a replicare questo modello, con un tentativo di fusione, questa volta, con General Motors, ma senza successo. Nonostante ciò, l'azienda cresce, sfruttando un'organizzazione bipartita per piattaforme di prodotto, per la quale le auto di piccole dimensioni vengono tutte sviluppate a Torino, mentre le grandi a Detroit. È importante notare che con FCA l'Italia rimarrà un luogo chiave di progettazione per le vetture destinate all'Europa e, in alcuni casi, per i mercati internazionali.

La formazione, nel gennaio 2021, del gruppo Stellantis, frutto della fusione fra FCA e PSA e preceduta dalla cessione, da parte di FCA, di Magneti Marelli, modifica nuovamente i destini industriali dell'Italia. Già nel mese di aprile del 2021, l'interrogazione a risposta orale presentata al Senato dal gruppo di Fratelli d'Italia ha denunciato la non pariteticità della fusione tra i gruppi industriali PSA e FCA, ma il Governo decise di non esercitare il golden power sull'operazione di fusione, ritenendola non oggetto di obbligo di notifica.

Al momento della fusione, Stellantis annunciò enormi benefici per l'azienda, legati allo sfruttamento di possibili sinergie in fase di progettazione e produzione. Dopo qualche anno, il modo in cui tali sinergie sono state realizzate risulta evidente: nell'ambito del gruppo FCA, l'Italia, che si era ritagliata il ruolo di centro di ingegneria per lo sviluppo di alcuni segmenti di mercato, subisce un forte ridimensionamento a favore della Francia, forse anche per la decisione politica del Governo francese di mantenere una quota nel capitale di Stellantis; la fusione ha condotto al sostanziale assorbimento, da parte di Parigi, delle attività di ricerca e sviluppo italiane. Questa è la verità. Lo spostamento dell'asse della progettazione dei veicoli destinati alla produzione e vendita in Europa su Parigi ha prodotto un ulteriore e inevitabile calo delle attività delle società di ingegneria satelliti di FCA e soprattutto dei fornitori operanti in Piemonte.

Sul fronte della produzione, poi, PSA e Opel avevano una produzione installata in Europa adeguata a soddisfare la domanda, con una saturazione della capacità produttiva; per contro, in Italia, il piano industriale che doveva trasformare il Paese nel luogo della produzione di vetture di segmento premium era sostanzialmente fallito, per assenza di nuovi modelli, con la maggior parte degli stabilimenti tenuti aperti grazie agli ammortizzatori sociali pagati da noi.

Le successive scelte di Stellantis non hanno colmato questa differenza, portando anzi la produzione in Italia al suo minimo storico. A luglio 2023, Carlos Tavares annunciò di condividere la richiesta del Governo di raggiungere il milione di veicoli prodotti in Italia, così da garantire la tenuta della componentistica nazionale. Chiese, inoltre, di dare attuazione a un piano di incentivi per la domanda e chiese di favorire in Europa una significativa modifica al regolamento Euro 7. Il cosiddetto Piano ecobonus 2024, realizzato dal MIMIT, ha messo a disposizione della domanda un miliardo di euro. Il regolamento è stato modificato a dicembre 2023 nella direzione auspicata dalle case automobilistiche.

Nonostante le condizioni più favorevoli, nei primi sei mesi del 2024, la produzione degli stabilimenti italiani si è significativamente ridotta: 305.000 autovetture e furgoni commerciali contro i 405.000 del primo semestre 2023; le sole autovetture segnano una contrazione del 36 per cento.

La filiera italiana si è così trovata, negli ultimi anni, stretta in una morsa: da un lato, il ridimensionamento dell'attività di Stellantis in Italia; dall'altro, la caduta della produzione in Europa. La combinazione di questi due elementi ha generato una crisi profonda, che ha evidenziato molti elementi di criticità. In pratica, la situazione della filiera italiana e la sua struttura sono il frutto delle scelte di FIAT negli anni Ottanta e Novanta e della incapacità dei fornitori italiani di superare alcuni limiti strutturali.

La filiera si trova quindi soggetta alle scelte di localizzazione produttiva di Stellantis e delle case madri situate in altri Paesi. I fornitori italiani indipendenti si trovano invece vittime di una congiuntura che ha prodotto un drastico ridimensionamento del mercato in una situazione di forte cambiamento tecnologico, rispetto al quale, a causa della piccola dimensione, hanno rilevato grandi difficoltà a rispondere attraverso gli investimenti, che sono essenziali per un rapido riposizionamento tecnologico e di mercato.

Se la storia attuale di Stellantis è - come abbiamo visto - soprattutto una storia di scelte strategiche sbagliate da parte dei vertici di questa grande multinazionale, allo stesso tempo la politica non si può sottrarre dalle proprie responsabilità.

Negli anni, i Governi che si sono susseguiti hanno evidenziato profondi limiti nella mancanza di una strategia industriale chiara, volta a realizzare una politica industriale forte per il settore automobilistico - in particolare, non è stato mai concepito un piano complessivo per sostenere la transizione verso la mobilità elettrica e la digitalizzazione, lasciando le aziende come Stellantis senza un supporto strutturale per affrontare le sfide del mercato globale - e nella mancanza di tutela degli interessi italiani nella fusione FCA-PSA, dal momento che non può essere sottaciuto che il Governo italiano non ha fatto abbastanza per garantire un ruolo di primo piano all'Italia all'interno di Stellantis, lasciando che il peso decisionale si spostasse verso la Francia.

A differenza del Governo francese, infatti, che ha mantenuto una quota in Stellantis, l'Italia non ha acquisito una partecipazione diretta e non ha messo in atto misure incisive per salvaguardare la produzione e l'occupazione del Paese. C'è stata scarsa attenzione all'innovazione tecnologica, nel senso che non si è investito abbastanza nella ricerca e nello sviluppo di tecnologie avanzate, come l'elettrificazione e i veicoli autonomi. Questo ha penalizzato Stellantis, che si è trovata a competere con gruppi automobilistici che hanno ricevuto maggiori incentivi e supporti dai propri Governi per sviluppare nuove tecnologie. Paesi come Germania e Francia, per esempio, che hanno investito più risorse nell'innovazione del settore automobilistico.

Il sostegno è stato insufficiente anche alla transizione ecologica, ove si consideri che la crisi di Stellantis può essere vista anche come una crisi più ampia del settore automobilistico italiano, che fatica a tenere il passo con normative sempre più stringenti in materia di emissioni e transizione verso l'auto elettrica. In questo senso, i Governi del passato non hanno fornito incentivi sufficienti, né un quadro normativo stabile per facilitare questo cambiamento, mettendo a rischio la competitività dell'intero settore.

Per non parlare delle politiche fiscali, degli incentivi inadeguati, dal momento che la mancanza di agevolazioni fiscali per la produzione di veicoli elettrici o per lo sviluppo di nuovi stabilimenti ha scoraggiato investimenti significativi nel Paese.

In conclusione, si può affermare che la storia recente della FIAT e del suo indotto è caratterizzata da un intreccio complesso di scelte strategiche e politiche industriali, che, in molti casi, si sono rivelate inadeguate per affrontare le sfide di un mercato automobilistico in rapidissima evoluzione. La fusione con Chrysler e la successiva creazione di Stellantis hanno rappresentato mosse cruciali per garantire la sopravvivenza del gruppo su scala globale, ma, allo stesso tempo, hanno evidenziato i limiti di una visione di lungo termine, concentrata più sulla fusione che sull'innovazione tecnologica. Le politiche industriali italiane, spesso frammentate e prive di una strategia coesa, non sono state in grado di fornire un supporto efficace alla transizione ecologica e alla digitalizzazione, settori chiave per il futuro dell'automotive.

Questo ha lasciato il Paese esposto a una perdita di competitività e di capacità produttiva, con ripercussioni dirette sul tessuto industriale ed occupazionale. Se, da un lato, la fusione Stellantis ha portato nuovi capitali e risorse, dall'altro, ha accentuato la dipendenza dell'Italia da decisioni prese altrove, aggravando il rischio di un progressivo declino del suo storico ruolo nel panorama automobilistico globale.

Questa brevissima disamina delle vicende che hanno caratterizzato la storia recente del comparto automobilistico italiano costituisce una cornice storica fondamentale per comprenderne l'importanza nei contenuti della mozione che il Governo si appresta a discutere. Anzitutto, pone correttamente in relazione la situazione attuale di Stellantis con le discutibili scelte europee in sede di attuazione del percorso del Green Deal. La crisi del settore automotive è strettamente legata alle sfide imposte dal Green Deal europeo, un piano ambizioso volto a rendere l'Unione europea climaticamente neutra entro il 2050. L'industria automobilistica, tradizionalmente basata sui motori a combustione interna, si trova a dover affrontare una rapida transizione verso veicoli elettrici a basse emissioni. Questo cambiamento comporta ingenti investimenti in ricerca, sviluppo, infrastrutture, mettendo sotto pressione le aziende del settore, specialmente quelle meno attrezzate per affrontare l'innovazione tecnologica. Inoltre, le nuove normative sulle emissioni di CO2 e i limiti della produzione di veicoli inquinanti creano ulteriori difficoltà per i produttori che devono adattarsi ad un mercato in trasformazione, riducendo gradualmente la produzione dei veicoli a combustione. Il Green Deal, sebbene necessario per la sostenibilità ambientale, rischia, quindi, di esacerbare la crisi dell'automotive, colpendo in particolare i posti di lavoro e la competitività delle imprese europee rispetto ai concorrenti internazionali, già avanti nella produzione di veicoli elettrici.

In secondo luogo, la mozione individua, nel cosiddetto Rapporto Draghi pubblicato il 9 settembre 2024, un utile strumento di politica industriale per il settore automotive, perché fornisce una visione strategica di lungo termine. Come è noto, il Rapporto si concentra su temi cruciali per il futuro dell'industria, tra cui la necessità di favorire l'innovazione tecnologica, sostenendo la transizione ecologica e proteggere la competitività delle imprese italiane ed europee. Come il Governo dirà, il Rapporto Draghi propone misure concrete volte a facilitare la transizione verso una mobilità elettrica sostenibile: investimenti, sviluppo, infrastrutture per la ricarica elettrica, soluzioni volte a promuovere la neutralità tecnologica; l'importanza di un sostegno pubblico mirato ad accompagnare le aziende, specialmente le piccole e medie imprese, nel difficile percorso di riconversione produttiva, preservando, nel contempo, l'occupazione. In questo senso, prefigura la costituzione del fondo, con risorse comuni, finalizzato a supportare l'intera filiera.

In terzo luogo, si riconosce ai vertici di Stellantis una responsabilità cruciale nella crisi che l'azienda sta affrontando, in particolare per quanto riguarda la capacità di gestire la transizione verso la mobilità sostenibile e l'innovazione tecnologica. Nonostante la fusione tra FCA e PSA abbia dato vita ad uno dei principali gruppi automobilistici mondiali, le sfide del settore richiedono una leadership proattiva e una visione strategica. I dirigenti di Stellantis sono chiamati a prendere decisioni fondamentali su investimenti, ricerca e sviluppo, l'adeguamento della produzione verso veicoli elettrici a basse emissioni e l'efficientamento della rete produttiva. Tuttavia, ritardi nell'implementazione di strategie sostenibili, difficoltà nell'adattarsi rapidamente alle normative ambientali europee, una gestione non ottimale della forza lavoro hanno certamente esacerbato la crisi. Si rende, pertanto, necessario monitorare costantemente lo stato di attuazione del piano industriale elaborato dai vertici della società al fine di evitare che opacità o discutibili forme di ambiguità possano consentire a Stellantis di non rispettare gli impegni presi.

Allo stesso tempo, va tenuta sotto controllo la joint venture europea nata nel 2020 dalla collaborazione tra Stellantis, TotalEnergies e Mercedes-Benz, con la finalità di sviluppare e produrre batterie di alta qualità per veicoli elettrici. Possibili ritardi nel progetto potrebbero impedire alle aziende automobilistiche europee di raggiungere l'obiettivo di diventare leader nella produzione per le batterie, con danni incalcolabili nella competizione internazionale.

Ecco perché è evidente che tutti gli investimenti stranieri in Italia nel settore dell'automotive possono favorire il trasferimento di competenze tecnologiche e know-how industriale, migliorando la competitività locale, creando posti di lavoro, contribuendo a diversificare le catene di approvvigionamento, ridurre la dipendenza da impianti situati in aree geografiche sensibili a cambiamenti economici o geopolitici.

Desidero concludere questo mio intervento, ricordando una delle frasi più celebri di Sergio Marchionne, l'uomo che, forse più di ogni altro negli anni recenti, è stato in grado di onorare l'azienda in cui lavorava e il Paese in cui era nato: “Ho cercato di organizzare il caos. Ho visitato la baracca, i settori, le fabbriche. Ho scelto un gruppo di leader e ho cercato con loro di ribaltare gli obiettivi per il 2007. Allora non pensavo di poter arrivare al livello dei migliori concorrenti, mi sarei accontentato della metà classifica. Nessuno ci credeva, pensavano che avessi fumato qualcosa di strano. Oggi posso dire che non mi ha mai sfiorato la tentazione di rinunciare, piuttosto il pensiero che forse non avrei dovuto accettare. Ma era la FIAT, era un'istituzione del Paese in cui sono cresciuto”. È solo con questo elevato senso del dovere e della Patria che la politica potrà essere all'altezza degli importanti compiti che riserva la storia in questa delicata fase del Paese.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE GIORGIO MULE' (ore 14,45)

MASSIMO RUSPANDINI (FDI). Aggiungo sommessamente che, secondo alcune stime - è stato riportato anche dai colleghi che mi hanno preceduto -, i contributi elargiti dallo Stato italiano alla FIAT, passando per le varie fasi societarie, ammonta, se calcoliamo quello che è stato dato a questa azienda dal 1990 al 2019, a quasi 4 miliardi. Tutto questo - per spiegarlo anche ai partiti della sinistra, che vorrebbero dare la colpa al Governo Meloni che è in carica da appena due anni - vuol dire che almeno il 40 per cento degli investimenti del gruppo FIAT è stato pagato negli anni, quando noi certo non eravamo al Governo, dai cittadini italiani (Applausi dei deputati del gruppo Fratelli d'Italia).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Auriemma. Ne ha facoltà.

CARMELA AURIEMMA (M5S). Grazie, Presidente. Ricordo che 220 miliardi di euro, circa dieci finanziarie dello Stato italiano, sono il totale delle risorse pubbliche che il gruppo FIAT ha ricevuto dal 1975 al 2012 e voglio ricordare al collega che, negli ultimi 20 anni, il centrodestra ha governato per il 60 per cento del tempo. Risorse suddivise tra i vari finanziamenti, tra cassa integrazione, sussidi per l'implementazione, incentivi vari. A ciò, ovviamente, bisogna aggiungere anche la garanzia che lo Stato ha prestato durante il periodo COVID e post-COVID. Mentre imprenditori facevano a cazzotti con le banche, lo Stato italiano ha garantito 6,3 miliardi di crediti richiesti dal gruppo FC Auto, finanziamenti che, però, durano ancora: tra il 2022 e il 2026 lo Stato italiano sovvenzionerà investimenti a Stellantis con altri 2,6 miliardi di euro. E mentre si finanziano ancora con soldi degli italiani, il gruppo Stellantis ha raggiunto nel 2023 ricavi netti per circa 189 miliardi di euro, un miglioramento del 6 per cento rispetto al 2022, così come l'utile netto è salito al 18,3 per cento.

Crescono gli utili e crescono anche i dividendi che vengono distribuiti: 700 milioni di dividendi vengono dati ad Exor, che è la holding a cui partecipa la famiglia Agnelli. Un bel margine di aumento anche rispetto al 2022. Va un po' maluccio l'amministratore delegato Tavares che, per il 2023, si deve accontentare soltanto di 23 milioni di euro, pari - è stato già detto - alla retribuzione di 12.000 dipendenti della sua stessa azienda. E mentre avveniva questa distribuzione di utili, durante i 20 mesi di Governo Meloni, si è stabilito di produrre la Panda elettrica in Serbia, la Topolino elettrica in Marocco e la Seicento in Polonia. Questo è successo negli ultimi mesi.

Dalla fusione dei due gruppi industriali e da quando è nata Stellantis non c'è un solo modello nuovo di autovettura che si sia deciso di produrre in Italia.

Tutti i modelli nuovi vengono assegnati alla Francia, agli stabilimenti in Francia, o all'estero e, in alcuni casi, è stata trasferita all'estero anche la produzione di alcune componentistiche. Stellantis, come è stato già detto, produce in Francia circa un milione di autovetture con 15 modelli; in Italia, invece, la produzione è scesa a 500.000 auto con soli 7 modelli, tutti vecchi, a fronte di una linea di produzione complessiva che, invece, potrebbe produrre ben 1,5 milioni di veicoli. Stiamo parlando di un produttore che ha deciso, su scala mondiale, di puntare al mercato elettrico e ha puntato alla conversione dei propri stabilimenti in tutta la scala mondiale tranne che in Italia. È, infatti, evidente - e non l'abbiamo negata noi, la transizione ecologica, ma questo Governo - che la transizione ecologica non può essere rimandata e passa per l'elettrico e dall'elettrico. Quindi, come dicevamo, mentre nel resto del mondo si punta sull'elettrico, in Italia Stellantis non ha scommesso sull'elettrico, anzi, nello stabilimento di Pomigliano d'Arco si producono auto ibride, la cui produzione - come sappiamo - è consentita fino al 2029. Inoltre, l'intera catena di produzione dello stabilimento Stellantis non è adatta per l'elettrificazione e nessun investimento è stato fatto affinché ci fosse un adattamento.

E, mentre a Mirafiori la Cassa integrazione dura a singhiozzo da oltre 17 anni, attorno allo stabilimento dal 2008 sono state chiuse più di 500 aziende dell'indotto, con una perdita di posti pari a circa 35.000. A Pomigliano d'Arco è ritornata la Cassa integrazione e si è iniziato a vendere pezzi di stabilimento. A rischio, anche lì, c'è un indotto con i suoi posti di lavoro, una realtà formata da piccole e medie aziende, spesso mono-committenti, che conta circa 11.000 lavoratori, che, insieme ai circa 4.000 dipendenti dello stabilimento di Pomigliano d'Arco, rappresentano 15.000 lavoratori del settore dell'automotive. Quindi, Presidente, non possiamo fallire, soprattutto in una delle zone dove l'offerta di lavoro è bassissima.

Siamo molto preoccupati, perché è evidente che Stellantis non abbia puntato sull'Italia. I dati ci dicono che il gruppo Stellantis non ha scommesso sul nostro Paese, non ha scommesso sul Sud e non ha scommesso sullo stabilimento di Pomigliano d'Arco, nonostante - voglio ricordarlo - gli stabilimenti di Melfi, della Basilicata e della Campania abbiano goduto dell'esenzione decennale dell'imposta sui redditi per le società meridionali, e, poi, grazie alla legge n. 488 del 1992 per il Mezzogiorno, in soli 4 anni, dal 1996 al 2000, si sia riusciti a far confluire nelle casse del gruppo ben 328 miliardi di lire in conto capitale.

Allora io, se fossi una lavoratrice della Stellantis, sarei incazzata nera, e di certo! Come devono sentirsi i lavoratori che ricevono addirittura una e-mail, magari proprio il giorno in cui sono in Cassa integrazione, con la quale si offrono condizioni vantaggiose per comprare una Maserati? Aspettiamoci, quindi, che a Natale agli operai vengano offerte condizioni vantaggiose per l'acquisto di una cassa di champagne! Pensavamo che fuori dalla vita reale ci fosse solo questo Governo, ma, ahimè, ci sono anche altri.

Possiamo mai permettere ad un'azienda - che per anni ha beneficiato di aiuti pubblici, mentre sceglieva di pagare le tasse nei Paesi Bassi e ora ha deciso di lasciare il nostro Paese e di non investire nel nostro Paese - addirittura di farsi beffa dei lavoratori? Mi domando e ci domandiamo dove sia la postura, l'autorevolezza della politica, Presidente. Ci dovrebbe ribollire il sangue nelle vene, dovremmo arrabbiarci quanto e più degli operai, perché in realtà dovremmo fare un patto fra di noi, fra tutti i politici, maggioranza e opposizione, affinché, a nessuno - lo ripeto, a nessuno mai, ben che meno alla finanza! -sia concesso di calpestare la dignità dei lavoratori. Viviamo in un periodo di disgregazione della società umana, che ripudia le parole rispetto e dignità, dove sono messi in discussione i diritti fondamentali, come il diritto al lavoro, il diritto all'abitazione e il diritto alla salute, mentre l'unica cosa che dovremmo iniziare a riscrivere sono le regole del capitalismo, che non è l'unico sistema economico possibile, anche se vogliono farci credere il contrario.

Presidente, lo stabilimento di Pomigliano d'Arco dista poco più di 3 chilometri da casa mia. Conosco molti lavoratori, conosco sindacalisti e ho, quindi, il dovere politico ed etico di portare oggi, in quest'Aula, la voce di questi lavoratori. Cos'è lo stabilimento di Pomigliano d'Arco? Per molti è tutto. A Pomigliano la fabbrica è nata prima della città. A Pomigliano i lavoratori sentono ancora che la fabbrica è la loro casa e la difendono con le unghie e con i denti. A Pomigliano si respira aria di dignità. È lì che ci sono i veri patrioti, che chiedono un piano industriale che punti realmente al mantenimento, ma anche allo sviluppo di un sito e di tutti i siti produttivi presenti nel nostro Paese. A Pomigliano d'Arco, a Melfi, a Torino, a Modena, a Cassino e ad Atessa, si combatte per difendere un pezzo d'Italia, un pezzo di italianità. Mi lasci dire, Presidente, che in quelle fabbriche e fuori da quei cancelli ci sono i patrioti, quelli veri (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle)!

PRESIDENTE. Non essendovi altri iscritti a parlare, dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

Il Governo si riserva di intervenire successivamente.

Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.

Discussione della mozione Ghirra ed altri n. 1-00326 concernente iniziative in materia di parità di genere, con particolare riguardo alle condizioni lavorative, economiche e sociali delle donne.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della mozione Ghirra ed altri n. 1-00326 concernente iniziative in materia di parità di genere, con particolare riguardo alle condizioni lavorative, economiche e sociali delle donne (Vedi l'allegato A).

La ripartizione dei tempi riservati alla discussione è pubblicata nell'allegato A al resoconto stenografico della seduta del 19 settembre 2024 (Vedi l'allegato A della seduta del 19 settembre 2024).

Avverto che è stata presentata la mozione Quartini ed altri n. 1-00329, che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalla mozione all'ordine del giorno, verrà svolta congiuntamente (Vedi l'allegato A). Il relativo testo è in distribuzione.

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.

È iscritta a parlare la deputata Ghirra, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00326. Ne ha facoltà.

FRANCESCA GHIRRA (AVS). Presidente, onorevoli colleghe e colleghi, signor Sottosegretario, io voglio iniziare questo mio intervento sul divario di genere con le parole che, nel 1947, Teresa Mattei pronunciò in un intervento all'Assemblea costituente: “È nostro convincimento” - disse - “che nessuno sviluppo democratico, nessun progresso sostanziale si produce nella vita di un popolo se esso non sia accompagnato da una piena emancipazione femminile; e per emancipazione noi non intendiamo già solamente togliere barriere al libero sviluppo di singole personalità femminili, ma intendiamo un effettivo progresso e una concreta liberazione per tutte le masse femminili e non solamente nel campo giuridico, ma non meno ancora nella vita economica, sociale e politica del Paese”.

Sono passati 77 anni e sappiamo bene che, nonostante l'uguaglianza di opportunità sociali e giuridiche tra i generi, oltre ad essere un diritto fondamentale di rango costituzionale, sia un principio cardine dell'Unione europea, riconosciuto dal Trattato di Roma e dalla Carta dei diritti fondamentali, nonché un principio chiave del pilastro mondiale dei diritti sociali, nessun Paese dell'Unione ha ancora raggiunto la parità di genere o è prossimo a raggiungerla.

Secondo il Gender Equality Index 2022 (l'indice sull'uguaglianza di genere) dell'Unione europea, se continuiamo al ritmo attuale, la parità di genere all'interno dei nostri Paesi diventerà realtà solo tra 60 anni. Eppure, realizzare l'uguaglianza di genere e migliorare le condizioni di vita delle donne sono obiettivi fondamentali dell'Agenda 2030, oltre che requisiti imprescindibili per la costruzione di una società realmente giusta e sostenibile.

Secondo i dati del World Economic Forum 2023, l'inclusione delle donne nelle aziende sarebbe in grado di aumentare il PIL mondiale fino al 35 per cento. Il rapporto evidenzia come, nel 2022, le aziende con almeno il 30 per cento di dirigenti donne abbiano registrato un aumento del 15 per cento della redditività. La costante inferiorizzazione delle donne è una condizione legata a un retaggio storico, culturale e giuridico, che ha origini molto antiche e si ripercuote ancora oggi in un forte divario lavorativo, tra uomo e donna prima, e salariale poi, così come nel persistere di comportamenti di violenza fisica o psicologica nei confronti delle donne, che rappresentano solo la punta dell'iceberg di un fenomeno culturale molto più ampio, legato a una diffusa misoginia.

L'indice sull'uguaglianza di genere 2023 pone l'Italia al tredicesimo posto della classifica, con 68,2 punti su 100, sotto la media europea che si attesta a 70 punti. Fra gli indicatori, i peggiori riguardano proprio il lavoro: l'Italia è, infatti, ultima in Europa per quanto riguarda la parità di genere nel mondo del lavoro, con un punteggio di 63,2, contro una media europea di 71,76, e un livello di partecipazione femminile al lavoro tra i più bassi, con 68,1 contro 81,3.

I dati Eurostat riferiti al 2023 mostrano che in Italia c'è un tasso di occupazione delle donne tra i 15 e i 64 anni pari al 51,1 per cento, sotto la media europea, che si attesta al 64,9 per cento, ma soprattutto con un gap di 18,1 punti percentuali rispetto agli uomini, il cui tasso di occupazione è pari al 69,2 per cento. Sopra la media europea del 30 per cento, invece, è il tasso di inattività femminile, che per l'Italia è del 43,6 per cento. Anche il Gender policies report 2022, pubblicato dall'INAPP, evidenzia che il divario uomo-donna resta immutato nel tempo ed è sempre sbilanciato sulla componente maschile, perché la partecipazione femminile è ancora oggi ostaggio di criticità strutturali: occupazione ridotta e prevalentemente precaria, part time spesso involontari e in settori a bassa remuneratività o poco strategici.

Tra le lavoratrici, quasi 1,9 milioni di donne sono costrette al part time involontario, contro 849.000 uomini nelle stesse condizioni. Il quadro si completa con i dati INPS sul lavoro dipendente. I lavoratori a tempo determinato e indeterminato sono per il 71 per cento uomini e solo il 29 per cento donne. La condizione di disuguaglianza si manifesta sia nei livelli retributivi sia nella ridotta presenza nei ruoli apicali. Il cosiddetto gender pay gap, che si era ridotto fra il 2017 e il 2019, ha poi ripreso a crescere, raggiungendo quota 10,7 per cento, pari a un divario che va dai circa 3.000 euro a oltre 16.000 euro in meno a seconda dell'inquadramento, a parità di mansioni tra uomo e donna. Il World Economic Forum, che ogni anno pubblica il Global gender gap report, sulla base di un'attenta analisi che copre 140 Paesi, tra cui l'Italia, certifica per il 2024 l'ulteriore scivolamento del nostro Paese nella seconda metà della classifica, con la perdita di otto ulteriori posizioni, all'87° posto su 146 Paesi monitorati.

Una situazione peggiorata ancora rispetto al 2023, quando l'Italia era scesa al 79° posto della graduatoria, perdendo ben 16 posizioni rispetto all'anno precedente. Il rapporto annuale 2023 dell'Istat evidenzia, poi, come avere un figlio in Italia comporti una probabile esclusione della donna dal mercato del lavoro, a causa della diversa distribuzione del carico di lavoro familiare all'interno della coppia. Il tempo dedicato alla cura della casa e della famiglia è ben maggiore per le donne, quantificato al 15,4 per cento, rispetto agli uomini, 6 per cento. Il gap di genere in presenza di figli segna un forte divario a favore della componente maschile.

Nel 2022 il tasso di occupazione dei genitori con un figlio variava dall'82 per cento per gli uomini, al 58,1 per cento per le donne, divario che si amplia con un numero superiore di figli. Questo vuole dire che, anche a causa della mancanza di servizi per la conciliazione vita e lavoro, in una coppia sono più spesso le donne a uscire dal mercato del lavoro per dedicarsi alla cura dei figli, mentre l'uomo si concentra sulla carriera professionale. Sul tema è intervenuto di recente anche il Presidente Mattarella, che nel messaggio che ha inviato al convegno “Il tempo delle donne”, il 16 settembre scorso, ha tra l'altro affermato che: “Nei rapporti di lavoro, occorre rispettare i diritti di parità e di eguaglianza previsti dalla nostra Costituzione. Ancora oggi, nel lavoro femminile, sono presenti ostacoli, rallentamenti e disparità per l'accesso, nella retribuzione, nella progressione di carriera, negli incarichi di vertice. Le barriere possono alzarsi fino a giungere a inaccettabili e odiose discriminazioni: licenziamenti, dimissioni in bianco, pressioni indebite, persino forme di stalking e di violenza, fisica o psicologica”.

Proseguendo, ha esortato alla rimozione degli ostacoli che rendono difficile la conciliazione tra occupazione e cura della famiglia. La discriminazione di genere nel mondo del lavoro ha importanti conseguenze anche nel settore previdenziale. Le carriere delle donne sono più brevi, principalmente a causa del loro ruolo e degli impegni familiari. La maternità, la cura dei minori, dei familiari anziani, malati o disabili e di altre persone a carico rappresentano un lavoro supplementare o, talvolta, a tempo pieno, gratuito, non riconosciuto, quasi esclusivamente sulle spalle delle donne, e ciò ha un impatto enorme sulla loro capacità di accumulare una pensione completa.

I dati dell'Osservatorio INPS del 2022 evidenziano come le pensioni delle donne valgano circa il 30 per cento in meno rispetto a quelle degli uomini, per cui l'assegno medio è di 1.381 euro contro una media femminile di 976. Ma avete depotenziato anche Opzione donna, una misura sicuramente insufficiente e non risolutiva, che consentiva però alle donne requisiti favorevoli e che non è stata sostituita, al di là degli annunci, con nessun'altra misura.

Alla luce di questi dati sconfortanti, è davvero incredibile registrare l'atteggiamento del Governo, che, nonostante sia per la prima volta nella storia repubblicana guidato da una donna, che da underdog - come si è definita - diceva di avere sfondato il tetto di cristallo, oltre a violentare la lingua italiana, utilizzando esclusivamente il maschile, porta avanti politiche che continuano a penalizzare le donne. Lo abbiamo visto anche con l'ultimo collegato lavoro, di cui abbiamo parlato stamattina, dove, oltre alla reintroduzione delle dimissioni in bianco, abbiamo già aspramente criticato l'approvazione di un emendamento della relatrice che propone di potenziare il ruolo dei centri per la famiglia, piuttosto che i consultori.

Servirebbe mettere in campo una svolta radicale, segnare un reale cambio di paradigma, ma i vostri segnali non sono affatto rassicuranti. Noi siamo convinti che si debba urgentemente cambiare rotta e vi invitiamo a promuovere rapidamente una generale riforma legislativa, volta a introdurre l'assoluto divieto di discriminazione di genere in materia salariale, in attuazione della direttiva sulla trasparenza salariale - che, a oggi, non mi risulta abbiate voluto accogliere -, con la previsione di adeguate sanzioni in caso di violazione del divieto.

Ma, soprattutto, riteniamo indispensabile promuovere nuove iniziative volte a incentivare la stabile e qualificata occupazione femminile, riducendo i disincentivi al lavoro attualmente esistenti per le donne. Occorrerebbe strutturare un piano straordinario per l'occupazione femminile, anche promuovendo il reinserimento professionale delle donne che hanno lasciato il lavoro da tempo, nonché misure efficaci per il sostegno alle imprese femminili. Sarebbe fondamentale dare concreta applicazione alla Convenzione ILO 190 sul contrasto alle molestie, molestie sessuali e violenze sul posto di lavoro, introducendo il reato di molestie nei luoghi di lavoro, con la previsione di adeguate sanzioni penali a carico dei responsabili e l'obbligo per le aziende di prevedere specifici protocolli preventivi del fenomeno.

Occorrerebbe promuovere campagne e progetti comunicativi e formativi sul rispetto dell'uguaglianza, declinato anche in rapporto alla cogenitorialità e alla condivisione dei compiti di cura nelle famiglie. Per garantire un adeguato accesso delle donne nel mondo del lavoro, sarebbe poi indispensabile rafforzare la disponibilità di servizi di cura per l'infanzia, per le persone anziane e con disabilità, individuando misure per favorire una redistribuzione dei carichi di lavoro familiare. Siamo poi convinti che sarebbe fondamentale introdurre un congedo di genitorialità paritario di 6 mesi a genitore, introducendo un congedo di paternità di 6 mesi per un periodo continuativo, con indennità al 100 per cento, di cui 3 obbligatori e 3 facoltativi, di cui usufruire nell'arco dei primi 12 mesi di vita del bambino.

Le nuove politiche contribuirebbero a ridurre non solo il divario pensionistico di genere, ma, soprattutto, a garantire equità alle donne nel mondo del lavoro, ma anche nella vita di tutti i giorni. Solo così potremo riuscire a costruire una società con pari diritti e opportunità e, visto che il vostro unico faro è la logica del profitto, anche maggiormente produttiva.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Riccardo Tucci, che illustrerà anche la mozione n. 1-00329, di cui è cofirmatario.

RICCARDO TUCCI (M5S). Grazie, Presidente. Colleghi, permettetemi di cominciare questo intervento citando una frase di una canzone, di una famosa canzone, la canzone “Teorema” di Marco Ferradini, che diceva: “Prendi una donna, trattala male. Lascia che ti aspetti per ore”. Una frase che, purtroppo, per molti anni, ha riflesso una concezione della donna come subordinata, come soggetto da manipolare e controllare. Ovviamente, ci tengo a precisare che la canzone e Ferradini non hanno niente a che vedere con questo problema, semmai è un concetto purtroppo ancorato ad antiche pratiche di questo Paese, da cui non ci siamo mai allontanati.

Quindi, ovviamente, la citazione era puramente per dare l'idea di quello di cui discutiamo. Oggi, infatti, siamo qui per affrontare un problema molto complesso e sistemico, cioè quello del gender gap, una disparità che colpisce donne e anche uomini in termini di opportunità salariali e di rappresentanza. Nonostante i progressi fatti, è innegabile che viviamo ancora in una società in cui il genere è spesso un fattore determinante nel modo in cui una persona viene percepita, pagata o considerata. Dati recenti ci mostrano come le donne continuino a guadagnare mediamente meno degli uomini, siano meno presenti nei ruoli di leadership e spesso costrette a scegliere tra carriera e famiglia.

In un'epoca in cui si parla tanto di parità di genere, è inaccettabile che ci siano ancora ostacoli strutturali che impediscono alle donne di raggiungere il loro pieno potenziale. Non si tratta solo di economia o di lavoro, il gender gap però influisce anche sulla rappresentanza politica. In questo stesso Parlamento, nonostante i massimi rappresentanti, a livello anche governativo, siano donne, manca la parità di genere.

Domandiamoci: cos'è che ci impedisce di raggiungere la vera parità? La canzone “Teorema”, seppur datata, ci racconta quanto le mentalità radicate del passato possano ancora influenzare il presente. Oggi, però, sta a noi riscrivere quel teorema promuovendo politiche che superino queste divisioni e offrano a tutti, indipendentemente dal genere, le stesse opportunità.

Questa mozione, Presidente, è un'occasione per garantire il diritto di scegliere i tempi e i modi della propria genitorialità, senza subire pregiudizi sul piano del rapporto di lavoro, consentendo a tutti e a tutte di conciliare al meglio famiglia e vita professionale, in condizioni di pari opportunità e trattamento. Su questo mi vorrei soffermare, perché spesso - e lo sappiamo tutti - ci troviamo a sentire di situazioni in cui le donne hanno dovuto rinunciare alla carriera professionale in cambio di quella familiare (avrebbero altrimenti dovuto sacrificare quella familiare), e quelle poche volte che ci troviamo di fronte ad aziende e ad imprese che, in qualche modo, hanno una visione futura e hanno dedicato loro spazi per poter aiutare la madre, magari che deve gestire anche i figli, quindi hanno creato spazi ad hoc per i figli, ci troviamo a idolatrare quelle aziende.

Bene, allora diamo noi l'esempio; dobbiamo essere noi i primi a dare le giuste direttive alle aziende e a dare questo input; non è più possibile nel 2024 che le donne, ancora oggi - spesso e volentieri le donne - si trovino costrette a dover scegliere, perché è una cosa che fa male o alla parte familiare o alla parte professionale. È un contributo per le donne che lavorano - o che vogliono lavorare - per correggere la vergognosa introduzione delle dimissioni in bianco nel Collegato lavoro, che consente, di fatto, il licenziamento dopo 15 giorni di assenza, e con il rafforzamento dei contratti precari interinali e di somministrazione.

È un'occasione per un importante appuntamento della storia: il congedo paritario di maternità e paternità (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle). Anche sul congedo paritario mi voglio soffermare, per ricordare al Governo e alla maggioranza che lo sostiene che, sul punto, l'Italia è, come sempre, nostro malgrado, il fanalino di coda dei Paesi europei. Permangono - ed invero questo Governo li alimenta sfacciatamente - gli stereotipi sui ruoli di genere, nonostante la Presidente del Consiglio sia donna, la prima donna Presidente del Consiglio della nostra storia.

Per le lavoratrici madri continua a essere impossibile conciliare lavoro e cura dei figli e i dati di INAIL continuano a confermare che il 60 per cento delle dimissioni dal lavoro delle donne è conseguente alla nascita di un figlio in famiglia.

Sebbene sia oggi ampiamente riconosciuta l'importanza di rendere il congedo obbligatorio di maternità paritario con quello di paternità, anche qui l'Italia continua a essere fanalino di coda. Il congedo paritario - lo voglio ricordare - è stato introdotto per la prima volta nel 2012 con la riforma Fornero per soli due giorni, poi saliti negli anni a cinque in via però sperimentale. La durata del congedo di paternità è poi salita prima a sette e poi a dieci giorni, per la prima volta in modo definitivo con il Governo “Conte 2”. Anche su questo siamo stati precursori; dovreste in qualche modo prendere anche spunto ogni tanto.

Rispetto al quadro europeo, l'Italia continua a rimanere in fondo alla lista insieme alla Polonia e a quei paesi tanto cari alle forze ultraconservatrici. Noi vogliamo introdurre strumenti volti al sostegno della genitorialità e diretti a incoraggiare un'equa ripartizione delle responsabilità familiari. Cosa fate voi? Inserite le dimissioni in bianco. Come sempre andate in direzione - diceva De André - ostinata e contraria (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

Purtroppo, con la bieca scusa di rafforzare le funzioni di supporto e di formazione alle famiglie, anche con riferimento alle misure di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, addirittura con l'articolo 32 del Collegato lavoro - di cui abbiamo anche discusso stamattina - avete spostato le risorse dai consultori ai centri per la famiglia. Siamo alle solite: si inserisce un codicillo, apparentemente ininfluente, per determinare e per compromettere l'autodeterminazione delle persone.

PRESIDENTE. Dovrebbe concludere, per favore.

RICCARDO TUCCI (M5S). Concludo immediatamente. …depotenziando i consultori pubblici. Vi chiedo, dunque, di riflettere su queste questioni e agire con coraggio affinché il gender gap diventi un ricordo del passato (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Scotto. Ne ha facoltà.

ARTURO SCOTTO (PD-IDP). Grazie, signor Presidente. Non stiamo parlando di un tema, di una materia specifica, stiamo parlando della qualità della democrazia del nostro Paese. La qualità della democrazia in una grande potenza economica come l'Italia (la sesta economia), un Paese di salde tradizioni nel diritto e nella cultura, non può tollerare disparità così grandi nei salari, negli stipendi, nel trattamento retributivo e pensionistico tra donne e uomini. Dunque, quando parliamo di qualità della democrazia parliamo, innanzitutto, della necessità di spingere una legislazione che, soprattutto negli ultimi due anni, ha reso più largo questo gap.

So che i signori del Governo non lo ammetteranno mai, e nemmeno i colleghi della maggioranza, ma basta andare a guardare i dati rispetto alle retribuzioni: si allargano per effetto di scelte molto precise. Quando tu decidi di liberalizzare i contratti a termine ed eliminare le causali, quando tu decidi di allentare la presa del lavoro stabile e incentivare il lavoro precario, tu stai dando un segnale molto preciso, che va ad incidere la carne viva, soprattutto il lavoro delle donne; quando tu decidi di tagliare 1,3 miliardi rispetto a quelli che sono stati stanziati e programmati nel PNRR (Governo Conte e Governo Draghi) e, dunque, scendere da 264.480 a 150.480 posti per gli asili nido, quando tu scegli di disinvestire sui servizi per l'infanzia che, soprattutto in determinate aree del Paese (penso al Mezzogiorno) sono necessari e urgenti, stai dando un segnale molto chiaro sul lavoro, innanzitutto, delle donne; oppure quando non metti in campo nessuna politica salariale efficace.

Insomma, è inutile che ci giriamo attorno, Sottosegretario Durigon. Il Forum Ambrosetti - non la CGIL - sostiene che, in un Paese come la Germania, l'introduzione del salario minimo ha rappresentato, da un lato, un riparo dalla crisi inflazionistica per milioni e milioni di salari in quei Paesi e, dall'altro, ha ridotto il gender gap in meno di 10 anni (a partire dal 2015, data di introduzione del salario minimo legale in Germania, lo ha fatto Angela Merkel, non una pericolosa sovversiva), scendendo dal 18 al 10 per cento, e questi sono dati ufficiali.

Potremmo aggiungere che questo è il Parlamento che non ha ancora recepito la direttiva sulla trasparenza retributiva e non vede largamente applicata la legge n. 162 che interveniva esattamente sul tema della parità salariale.

Dunque, servirebbero politiche, non semplicemente slogan; servirebbero operazioni mirate. Tra le operazioni mirate c'è indubbiamente la questione che riguarda i salari: bisognerebbe evitare misure che rappresentano un vero e proprio colpo di spugna per l'autonomia delle donne, come l'eliminazione delle dimissioni in bianco, che avete introdotto nel collegato lavoro. Occorrerebbe sostenere politiche previdenziali di supporto all'autonomia alle donne, invece avete depotenziato e svuotato Opzione donna; occorrerebbe potenziare i consultori e non, come fate nel collegato, i centri per la famiglia; occorrerebbe, per esempio, ragionare sul reato di molestie sul luogo di lavoro.

Voi siete specialisti nell'introduzione dei reati: avete assunto un codice di condotta panpenalistico che vi ha portato a introdurre 14 nuovi tipi di reato col DDL Sicurezza, ovviamente sempre a colpire i più poveri e i più deboli. Avete addirittura esordito con un decreto sui rave party, una vera e propria emergenza nazionale, come è noto. Però, invece, non intervenite su questo.

Non avete messo in campo nessuna politica per sostenere economicamente una buona legge, che è la legge sulla non autosufficienza, introdotta nell'ultimo Governo che ha preceduto quello di Giorgia Meloni, nemmeno un euro. Eppure, voi sapete benissimo che in questo Paese sono mille le ore di lavoro cedute gratuitamente per la cura, in assenza di strutture sociali, di un welfare di prossimità. Prevalentemente, su queste mille ore, c'è il lavoro di cura femminile. Chi restituisce quel tempo, oltre che quelle risorse?

Dunque, serve una scelta, serve mettere in campo intanto un grande piano per l'occupazione femminile. I dati sull'occupazione, tanto strombazzati in maniera trionfalistica, continuano a dire che l'occupazione femminile nel nostro Paese è quasi 10 punti sotto la media europea. È inutile che lo neghiamo, occorre una bonifica del lavoro povero e, dunque, degli istituti di precarietà che sono stati aumentati, come dicevo prima. Occorre che ci sia un grande investimento per i congedi paritari, maschili e femminili di almeno cinque mesi.

L'anno scorso nella legge di bilancio abbiamo presentato questa proposta, una proposta di buonsenso, una proposta europea, una proposta che parla a milioni di donne e di uomini. Voi vi candidate a essere quelli che vogliono aiutare e incentivare la ripresa demografica di questo Paese, quelli che pensano che ci sia un problema da questo punto di vista e lo pensiamo anche noi, ma voi lo prendete sempre dal lato sbagliato della storia, quello che ridimensiona il livello di autonomia delle donne, mentre l'autonomia delle donne è l'unico antidoto al declino demografico di questo Paese.

Tuttavia, autonomia significa sostegno, significa giustizia fiscale, giustizia sociale, lotta alla precarietà, qualità del lavoro, impegno sui salari. Per queste ragioni, depositeremo una mozione per eliminare il gender pay gap.

Questo Paese, a livello normativo, nel corso degli anni ha fatto passi da gigante, ma quelle norme devono camminare su scelte del Governo che, purtroppo, in questa fase sembrano andare nella direzione esattamente opposta.

PRESIDENTE. A questo punto, come già preannunciato per le vie brevi ai restanti iscritti, sospendo brevemente la seduta che riprenderà alle 15,45. La seduta è sospesa.

La seduta, sospesa alle 15,25, è ripresa alle 15,45.

PRESIDENTE. La seduta è ripresa. È iscritta a parlare la deputata Immacolata Zurzolo. Ne ha facoltà.

IMMACOLATA ZURZOLO (FDI). Grazie, Presidente. Colleghi, è innegabile che la parità di genere, posta all'attenzione di quest'Aula da diverse mozioni proposte dai vari gruppi, in tutti i suoi aspetti e declinazioni, non ultimi quelli legati all'occupazione e alla retribuzione, è sicuramente uno dei terreni di attuazione del dettato costituzionale, al quale davvero non ci si può sottrarre dal prestare attenzione, anche considerando la grande trasformazione del lavoro in atto. Le disparità tra uomo e donna nel mercato del lavoro hanno indubbiamente una ricaduta negativa sulle performance e sulla competitività del Paese. Il superamento delle disparità di genere, oltre che elemento di civiltà, determina un reale sviluppo economico, migliora la mobilità sociale e stimola la crescita attraverso un miglior utilizzo delle competenze. Per motivi storici, che non possono però essere ideologicamente ricondotti a una critica radicale verso l'impegno della donna in e per la famiglia, l'Italia su questo fronte parte sicuramente da una situazione più critica rispetto ad altri Paesi OCSE. Una situazione che il Governo Meloni, e la maggioranza parlamentare che lo sostiene, hanno assolutamente ben presente e della quale hanno fatto una priorità di intervento: un intervento fatto di scelte fondate su una visione e di atti legislativi che hanno già avuto un concreto impatto nella riduzione di certi gap.

Dall'insediamento dell'Esecutivo, molti e significativi sono stati i provvedimenti. Possiamo richiamare sinteticamente queste iniziative volte a promuovere la parità di genere e contrastare ogni forma di discriminazione e disuguaglianza. Ricordiamo: la decontribuzione per le mamme lavoratrici, il cosiddetto bonus mamme; la promozione del codice di autodisciplina per le imprese, per favorire l'occupazione delle donne; la certificazione della parità di genere per le imprese; gli sgravi contributivi per l'assunzione di donne disoccupate vittime di violenza; l'incremento del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, dedicato alle imprese femminili; gli incentivi per l'assunzione a tempo determinato e a tempo indeterminato di donne in condizioni di svantaggio. Tutti provvedimenti, questi sommariamente indicati, adottati dall'attuale Esecutivo, che testimoniano il forte impegno a sostegno delle donne anche nell'ambito del mondo del lavoro, proprio nel senso di un intervento impattante e non episodico, considerando anche come la parità di genere sia uno dei pilastri del PNRR, un aspetto di fondo e trasversale, che è stato letto partendo anche dalla necessità di favorire la formazione alle donne in tutti i campi del sapere, comprese le lauree STEM. La forza di queste scelte, verso un'inversione di tendenza, è restituita dai dati diffusi dall'Istat. Facendo parlare i numeri, quindi, possiamo cogliere un'evoluzione, che va nella direzione di un maggior protagonismo femminile e la conseguente crescita economica. I dati divulgati dall'Istituto attestano che, rispetto al 2019, l'occupazione femminile ha registrato, nel 2023, una crescita dell'1,6 per cento, con un trend ancora più positivo emerso nell'ultimo anno, segnando, rispetto al 2022, un incremento del 2,4 per cento. Al riguardo, all'inizio del 2024, il numero delle occupate ha raggiunto i 10.095.000. Il tasso di occupazione ha fatto un ulteriore balzo in avanti, arrivando a quota 53 per cento, mentre quello di disoccupazione scende all'8,2 per cento. Anche i recenti dati di luglio 2024 attestano un generale aumento degli occupati, con una crescita per le donne di 56.000 unità.

L'aumento dell'occupazione femminile ha riguardato principalmente le fasce di età più adulte, in particolare le cinquantacinquenni e sessantaquattrenni, che hanno registrato un incremento di 284.000 occupate, più del 15,1 per cento tra il 2019 e il 2023. In tale fascia di età, si registra il maggior incremento del tasso di occupazione, che è passato dal 43,9 per cento del terzo trimestre 2019 al 48,6 per cento del terzo trimestre 2023. Anche tra le giovani si riscontrano delle dinamiche positive: tra le venticinquenni e le trentaquattrenni, l'occupazione aumenta del 2,4 per cento tra il 2019 e il 2023, mentre tra le under 25 la crescita è del 6,6 per cento. Tra le prime, il tasso di occupazione passa dal 54,3 al 57,8 per cento. Innegabilmente abbiamo ancora della strada da percorrere, ma la marcia nella giusta direzione è stata intrapresa, con lo sguardo ben centrato sull'obiettivo, ponendo alla base di tutto un radicale contrasto a ogni forma, anche subdola, di violenza di genere: un altro obiettivo di civiltà ben presente a questo Governo e alla sua maggioranza. Su questo obiettivo strategico, però, devono sentirsi impegnati tutti gli attori sociali, certo favorendo condizioni affinché essi possano esserlo. Uno strumento fondamentale, da ampliare e rinnovare nelle strategie per migliorare la parità di genere, a livello aziendale settoriale, dev'essere individuato, senz'altro, nella contrattazione collettiva e, dunque, nel potere negoziale che hanno i sindacati per supportare la partecipazione di qualità delle donne al mondo del lavoro e colmare le disparità di trattamento. Da questo punto di vista, gli stessi sindacati dovrebbero rafforzare la presenza delle donne nelle loro organizzazioni, per attuare una maggiore uguaglianza. Parimenti, è essenziale innovare le relazioni industriali, promuovendo modelli organizzativi flessibili, che concilino lavoro e vita privata, ed investire in formazione e sviluppo professionale: in questo modo, le aziende e il sistema economico nel suo complesso potranno beneficiare a pieno delle competenze e del potenziale delle donne. Attraverso accordi di buone pratiche sulla parità di genere, la contrattazione collettiva può valorizzare il contesto sociale e le esigenze di lavoratrici e lavoratori, contribuendo a costruire un futuro del lavoro più equo ed inclusivo. Al Governo, innanzitutto, dobbiamo riconoscere i passi, non pochi, compiuti e rivolgere il ragionevole auspicio che continui l'impegno sul tema, con rinnovata e incondizionata convinzione, che siamo assolutamente certi, non manchi, sul percorso le cui direttrici sono già state poste. Guardando alla conciliazione dei tempi di vita e tutte le forme di adeguata flessibilità, dalla formazione fino all'equità in sede pensionistica, serve un approccio globale e una costanza di attenzione. Con fiducia si rivolgono queste come richieste al Governo e siamo realisticamente e ragionevolmente convinti che non mancherà di confermarsi attento al futuro di sviluppo per la Nazione, anche sotto questo fondamentale punto di vista.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Pavanelli. Ne ha facoltà.

EMMA PAVANELLI (M5S). La ringrazio, Presidente. Onorevoli colleghe e colleghi, solo pochi giorni fa, il 18 settembre, è stato il gender pay gap day, la giornata istituita dall'ONU per porre l'accento su una problematica oggi universalmente diffusa, quella riguardante le disuguaglianze salariali tra uomini e donne, una tematica difficile da rilevare, perché meno evidente, ma non per questo non altrettanto discriminatoria. È proprio questo a fare del gender pay gap una delle battaglie più importanti e significative sul fronte della parità di genere. Nonostante i grandi passi avanti fatti negli ultimi decenni, le donne continuano a guadagnare, in media, meno degli uomini.

Secondo i dati recenti, in alcuni settori privati il divario salariale in Italia può arrivare fino al 20 per cento, soprattutto tra i ruoli dirigenziali o negli ambiti tecnici e scientifici, dove la presenza femminile è ancora molto limitata. È proprio questa una delle cause del gender pay gap: la sottorappresentazione delle donne nei ruoli di potere e, in generale, nei settori con salari più elevati, come quello tecnologico e quello finanziario. Un altro aspetto non secondario riguarda le forme contrattuali, che tradiscono una visione della donna ancora troppo arcaica e patriarcale. È più facile che siano le donne ad occuparsi di posizioni part time e precarie a causa delle responsabilità familiari, che ancora ricadono, prevalentemente, su di loro.

Il MoVimento 5 Stelle ha proposto diverse soluzioni per contrastare il gender pay gap, che continua ad essere uno degli ostacoli più fastidiosi per il raggiungimento dell'effettiva parità di genere. È evidente che una delle cause principali del gender pay gap consiste nella difficoltà riscontrata nel conciliare carriera e famiglia. In Italia c'è ancora una carenza di servizi accessibili, come asili nido e strutture per l'infanzia, che permettano alle donne di rientrare rapidamente nel mercato del lavoro dopo la maternità. Riteniamo, pertanto, utile fornire incentivi alle imprese per consentire una maggiore diffusione del lavoro flessibile e dei congedi parentali equamente distribuiti tra madri e padri.

Vorrei porre la vostra attenzione su ciò che sta accadendo, in questi giorni, in Gran Bretagna, dove un movimento di padri sta protestando per avere maggiori diritti per i congedi paterni. Il motivo è semplice: anche loro vogliono avere la possibilità di crescere i propri figli nelle prime settimane di vita. Un'altra battaglia, che da tempo stiamo conducendo, riguarda il riconoscimento del valore del lavoro di cura e del lavoro domestico, anche tramite un serio piano di sostegno all'occupazione del settore. In questo modo, se da un lato si favorisce la conciliazione vita-lavoro dell'intera famiglia, dall'altro si agisce sul contrasto di gran parte del lavoro sommerso.

La lotta alla parità di genere passa anche dall'incentivo alla creazione di nuovi asili nido aziendali e all'adozione di modelli flessibili di organizzazione del lavoro, come la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario e lo smart working, con particolare attenzione ai genitori con figli di età inferiore ai 14 anni. Altri interventi non più rinviabili riguardano: l'estensione delle tutele delle lavoratrici, che prevedano l'ampliamento da 5 a 6 mesi del congedo di maternità obbligatorio; la fruibilità congiunta e contestuale dei congedi obbligatori dei genitori; l'introduzione di un identico congedo obbligatorio per entrambi i genitori, anche nel caso di adozione e affidamento, ovvero nei casi rientranti nella gestione separata; l'estensione del trattamento di tutti i casi sopracitati fino alla copertura di un'indennità giornaliera pari al 100 per cento delle retribuzioni.

Un altro passaggio fondamentale, riferito in particolare al gender pay gap, riguarda la promozione della trasparenza salariale nelle aziende. Pensate a cosa accadrebbe se le aziende fossero obbligate a rendere pubblici i dati delle retribuzioni medie per genere e posizione; alcuni Paesi europei lo hanno già fatto, rendendo più evidenti le disuguaglianze e ottenendo, indirettamente, il contrasto del fenomeno. Un percorso che, ovviamente, richiede l'assegnazione di speciali incentivi alle imprese, specificatamente destinati all'inclusione.

In conclusione, Presidente, per affrontare il gender pay gap in Italia serve intervenire in modo combinato ed in differenti direzioni: formazione, trasparenza, politiche di conciliazione vita-lavoro e misure legislative, sull'assunto che l'inversione della tendenza passa attraverso la stretta collaborazione tra organi legislativi, imprese e società civile. Donne e uomini devono avere le stesse opportunità sia in termini di carriera che di retribuzione. Questo principio, oggi, non è più rinviabile e non è mera utopia, specialmente in un Paese guidato da una donna.

Purtroppo, questo Governo, proprio oggi, ha dimostrato di non avere cura dell'uguaglianza di genere, basta vedere le immagini del G7 dell'agricoltura, dove purtroppo non vediamo nemmeno una donna. Eppure è proprio dal buon esempio che si dimostra l'inclusività. Vi chiedo, oggi: se non ora, quando (Applausi della deputata D'Orso)?

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole D'Orso. Ne ha facoltà.

VALENTINA D'ORSO (M5S). Grazie, Presidente. Secondo i dati pubblicati dall'Istat nel rapporto annuale del 2024, il tasso di occupazione in Italia è al 62 per cento, ossia 8 punti sotto la media europea; ma, se guardiamo il dato dell'occupazione femminile, vediamo che siamo, addirittura, a 12 punti sotto la media europea. Inoltre l'Italia vanta anche altri tristi primati: il numero di inattivi, donne e giovani senza lavoro; part time involontario; retribuzioni basse; scarsa produttività; lavoro povero; lavoro sommerso; il lavoro autonomo, che da 20 anni è diventato sacca fantasma di precarietà.

Sul lavoro autonomo, poi, tornerò più in là. C'è stato un incremento del lavoro a tempo determinato, così come dei voucher, somministrazione, lavoro a chiamata e collaborazioni occasionali, ma questo possiamo davvero definirlo lavoro di qualità? Io non credo. Il nostro Paese, dicevo, è il primo per part time involontario, ossia non voluto, ma subito, imposto, e guardate che coloro che sono raggiunte da questo part time involontario sono proprio le donne lavoratrici. Sono queste donne lavoratrici, quelle con i più bassi salari, sia orari che annuali, e la sacca del lavoro povero, potremmo dire, quelli che avrebbero prevalentemente beneficiato dell'introduzione del salario minimo legale, ma purtroppo questo Governo e questa maggioranza sono stati sordi rispetto a questa istanza.

Il salario minimo legale - lo diciamo sempre - avrebbe aiutato, prevalentemente, proprio le donne. Ed ancora, cosa ci dicono le statistiche? Ci dicono che, sebbene le ragazze e le donne continuino ad eccellere in ambito scolastico e nei tassi di completamento degli studi, questi successi non si riflettono in pari opportunità lavorative. Questa è veramente una circostanza che ci deve far pensare, riflettere e che amareggia molto. Le donne laureate in Italia guadagnano solo il 58 per cento dello stipendio dei loro colleghi maschi. Questo perché?

Perché ci sono ancora pregiudizi nelle pratiche di assunzione e opportunità diseguali, dicevamo, di fare carriera. Le donne hanno meno probabilità degli uomini di ottenere una promozione o di ricevere un grosso aumento di stipendio quando, ad esempio, cambiano lavoro; accedono difficilmente ad incarichi di vertice e di prestigio. È certificato ormai un divario retributivo strutturale, potremmo dire così, tra i due generi, tra gli uomini e le donne. Questo divario retributivo, peraltro, si ripercuote a vita, perché poi si trasformerà in un divario pensionistico-

Le pensioni percepite dalle donne saranno sempre in misura minore rispetto a quelle percepite dagli uomini. Si lavora tutta una vita, si lavora doppiamente, perché si lavora magari a casa e anche fuori casa, però alla fine quello che resta alle donne è sempre in misura inferiore rispetto ai colleghi uomini. Le donne, tra l'altro, hanno ulteriori difficoltà nei posti di lavoro, è come se fosse quasi una corsa ad ostacoli quella per inserirsi nelle posizioni lavorative che si meritano a parità di formazione e competenze. Oppure una corsa ad ostacoli per conquistare il posto che spetta per impegno e curriculum.

Si fa più fatica degli uomini, questo lo dobbiamo dire e penso che ciascuna di noi possa anche dare testimonianza di questo, purtroppo. Purtroppo è così. Questo è un Paese che fa ancora fatica ad abbracciare davvero le cause delle donne. Un ambito che mi preme sottolineare è come anche il problema delle molestie sul luogo di lavoro sia un problema tipicamente delle donne, perché sono le donne ad essere oggetto di molestie sul luogo di lavoro.

Questo è un altro di quegli aspetti per cui la vita di una donna che lavora è più complicata, dobbiamo dircelo.

Poi abbiamo il grande tema della conciliazione dei tempi di cura della famiglia con i tempi di lavoro. Ecco, in questo siamo veramente ancora molto indietro. Eppure, anche qui è certificato che l'occupazione femminile è più elevata laddove ci sono più lavoratori domestici. Questo vuol dire che le donne devono essere sostenute e aiutate per far fronte ai carichi di cura familiare che ancora si riversano troppo sulle loro spalle: c'è ancora uno sbilanciamento tra uomini e donne rispetto agli impegni di cura familiare.

Soltanto nel 2021 abbiamo introdotto nel nostro Paese il congedo di paternità di oltre dieci giorni. Tuttavia, a quanto pare, è un'informazione che non è stata neanche veicolata, perché da un sondaggio emerge che solo un genitore su cinque sa che attualmente esiste il congedo di paternità e che ha una durata di almeno dieci giorni. Quindi, c'è anche una carenza di informazioni che vengono veicolate e questo è prima di tutto un problema culturale: vuol dire che non stiamo facendo abbastanza nel divulgare questo tipo di novità per il nostro Paese.

Però, è una novità minima: se pensiamo che in Francia e in Spagna i padri possono usufruire, rispettivamente di 4 o 16 settimane di congedo, che già nel ‘74 la Svezia, per prima, sostituiva il congedo di maternità con quello parentale - che oggi prevede 52 settimane di congedo da ripartire con il partner - e che la Norvegia assegna ben 46 settimane di congedo, vediamo come noi siamo veramente il fanalino di coda; in questo, siamo molto indietro.

E allora cosa ci si aspetterebbe? Ci si aspetterebbe dal Governo alcune risposte a queste problematiche. E risposte determinate potevano arrivare, ad esempio, nel collegato Lavoro che oggi stesso stiamo discutendo in quest'Aula e che affronteremo nel corso della settimana.

Vedete, il DDL Lavoro ha avuto una gestazione abbastanza lunga, eppure, se lo andiamo a sfogliare, non vediamo misure incisive per rispondere a queste istanze: per rispondere, ad esempio, al problema della conciliazione tra impegni di cura e impegni di lavoro da parte delle donne. Infatti, non vediamo nulla sull'estensione del congedo di maternità, sul congedo di paternità oppure sull'introduzione del congedo parentale. Non c'è nulla di tutto questo nel DDL Lavoro.

Quindi, abbiamo dovuto approntare addirittura una mozione - la nostra mozione -, in cui spingiamo in questa direzione: spingiamo nella direzione dell'adozione di modelli flessibili di organizzazione del lavoro, come la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario o lo smart working, proprio con particolare attenzione ai soggetti fragili e ai genitori con figli di età inferiore ai 14 anni. Vedete quanto questa sia una misura a favore delle donne per incrementare l'occupazione femminile.

E vi dico di più. Non abbiamo visto determinazione nel Governo per la realizzazione di nuovi asili nido o per il potenziamento dei servizi socio-educativi per l'infanzia. Quindi, anche questi sono impegni che vi proponiamo nella nostra mozione sul gender gap, perché è di questo che dovremmo parlare.

In ultimo, vi faccio un focus - l'avevo promesso - sul lavoro autonomo e concludo. Vi do alcuni dati che, secondo me, sono una fotografia perfetta della categoria che conosco meglio, quella degli avvocati, e che vi raccontano un po' cosa affrontano le colleghe donne avvocate.

Rapporto di Cassa forense del 2023 sulla monocommittenza: gli avvocati monocommittenti censiti in totale sono 13.518, di cui 8.536 donne, mentre circa 4.000 sono gli uomini. La monocommittenza che cos'è? Vi ricordo che è la situazione dell'avvocato che collabora con un altro collega avvocato che, però, è titolare dello studio. Si tratta, quindi, di un regime che oggi non è regolato. Questo per dirvi che è un'esperienza di vita tipicamente delle donne avvocato. E vi do un altro dato significativo, questa volta sul reddito medio annuo: le donne avvocato guadagnano 26.400 euro; gli uomini, invece, 53.335 euro. Questo vuol dire che gli uomini avvocati, in questo regime, guadagnano il doppio delle donne.

Perché ho preso questo esempio? Perché anche di questo si poteva parlare nel collegato Lavoro: c'era - e ci sarà, perché siamo ancora in tempo - un emendamento a mia firma rivolto a quest'Aula per regolamentare la monocommittenza, che c'entra tanto - perché ve lo sto dimostrando - con il gender gap e con il lavoro delle donne. Perché prendiamo una tipica categoria di lavoratore autonomo e tocchiamo proprio con mano il divario retributivo - che si ripercuoterà in un divario abissale pensionistico -, un regime che prevalentemente tocca le donne: un regime che, peraltro, non ha tutele e che noi, invece, vogliamo che abbia tutele. Quindi, le tutele che chiederemo e continuiamo a chiedere per queste figure sono tutele che vanno nella direzione di un supporto alle donne avvocato. Quindi, veramente mi preme sensibilizzare il Governo anche sotto questo punto di vista, perché c'entra tanto rispetto a quello di cui stiamo parlando (Applausi della deputata Pavanelli).

PRESIDENTE. Non essendovi altri iscritti a parlare, dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

Il Governo intende intervenire o si riserva di farlo successivamente?

Posto che il Governo si riserva di intervenire successivamente, il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.

Discussione della proposta di inchiesta parlamentare: Bicchielli ed altri: Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sul rischio idrogeologico e sismico del territorio italiano, sull'attuazione delle norme di prevenzione e sicurezza e sugli interventi di emergenza e di ricostruzione a seguito degli eventi calamitosi verificatisi dall'anno 2019 (Doc. XXII, n. 31-A).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della proposta di inchiesta di inchiesta parlamentare Doc. XXII, n. 31-A: Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sul rischio idrogeologico e sismico del territorio italiano, sull'attuazione delle norme di prevenzione e sicurezza e sugli interventi di emergenza e di ricostruzione a seguito degli eventi calamitosi verificatisi dall'anno 2019.

Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi per la discussione generale è pubblicato nell'allegato A al resoconto stenografico della seduta del 19 settembre 2024 (Vedi l'allegato A della seduta del 19 settembre 2024).

(Discussione sulle linee generali - Doc. XXII, n. 31-A)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.

La VIII Commissione (Ambiente) si intende autorizzata a riferire oralmente.

Ha facoltà di intervenire la relatrice, deputata Martina Semenzato.

MARTINA SEMENZATO , Relatrice. Grazie, Presidente. Onorevoli colleghi e colleghe, la proposta in esame mira all'istituzione, presso la Camera dei deputati, di una Commissione parlamentare di inchiesta monocamerale sul rischio idrogeologico e sismico del territorio italiano, sull'attuazione delle norme di prevenzione e sicurezza e sugli interventi di emergenza e di ricostruzione a seguito degli eventi calamitosi verificatisi dall'anno 2019.

Desidero, innanzitutto, ringraziare il presidente e tutti i deputati e le deputate della Commissione per il lavoro svolto che, pur nella diversità delle posizioni espresse, ha consentito un esame approfondito, nel corso del quale è stato adottato un nuovo testo del documento, volto a circoscrivere il perimetro oggetto dell'inchiesta a partire dal 2019 e a ridefinire i compiti della Commissione.

Per quanto riguarda il contenuto del provvedimento all'esame dell'Assemblea, l'articolo 1 disciplina l'istituzione della Commissione parlamentare d'inchiesta per la durata della presente legislatura, con il compito di approfondire i fatti e i fenomeni connessi alle alluvioni, alle inondazioni e agli eventi sismici verificatisi dal 2019, nonché allo stato della ricostruzione e alle implicazioni economiche, sociali e demografiche di tali calamità, oltre alla prevenzione dei danni sismici e idrogeologici. In tale contesto, anche tenuto conto degli accadimenti degli ultimi anni e di quelli più recenti e, purtroppo, della frequenza con cui si stanno verificando i citati eventi, la Commissione potrà operare con strumenti di analisi e prerogative dedicati all'attività di indagine.

Nell'articolo 2 sono elencati i compiti della Commissione, con riferimento ai citati eventi, e disciplinate le modalità con le quali la Commissione riferisce alla Camera sull'esito dell'inchiesta: ovvero, annualmente con relazioni singole o generali o ogniqualvolta ne ravvisi la necessità o, comunque, al termine dei suoi lavori. In particolare, la Commissione è incaricata di individuare le eventuali responsabilità nella mancata o carente attuazione delle attività di prevenzione e di messa in sicurezza del territorio, nonché nella gestione dell'emergenza e nelle operazioni di ricostruzione.

Inoltre, la Commissione dovrà esaminare gli ostacoli che hanno impedito una piena operatività agli organi amministrativi e tecnici preposti alla difesa del suolo e alla mitigazione e gestione del rischio idrogeologico e sismico, così come alla tutela e al risanamento del suolo e del sottosuolo.

La Commissione avrà anche il compito di accertare il ruolo svolto da parte delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni, sia centrali che periferiche, a livello di controllo, di capacità di intervento e, soprattutto, di prevenzione, con l'obiettivo di superare un approccio emergenziale nella gestione di tali eventi. Un altro compito significativo è quello di effettuare una ricognizione completa delle risorse disponibili per la difesa del suolo e per le relative infrastrutture idriche e di verificare l'impatto delle innovazioni normative intervenute tra i vari eventi calamitosi, al fine di valutare il livello di efficienza e di efficacia della gestione delle fasi di emergenza.

La Commissione dovrà valutare l'incidenza delle innovazioni in materia di contratti pubblici, affidamenti, appalti e conduzione dei lavori sui tempi e sull'efficacia della gestione delle fasi di emergenza e delle operazioni di ricostruzione. Inoltre, la Commissione dovrà verificare le spese e gli stanziamenti effettivi per le fasi di emergenza e per le operazioni di ricostruzione, al fine di valutare ex post l'efficacia delle linee di finanziamento e delle scelte politiche di investimento sia a medio che a lungo termine, così come verificare le iniziative per garantire l'indennizzo dei danni direttamente cagionati dalle calamità naturali e dagli eventi catastrofici. A ciò si aggiunge una valutazione dell'impatto degli eventi calamitosi sui parametri demografici, socioeconomici e occupazionali delle aree colpite, con particolare attenzione alle isole, alle aree interne, alle zone montuose, alla dorsale appenninica e ai territori limitrofi.

Ulteriore compito della Commissione è quello di verificare l'adeguatezza della normativa vigente per quanto concerne la mitigazione e la gestione del rischio idrogeologico, nonché in materia di regolamentazione antisismica, sicurezza del territorio, Protezione civile, gestione dell'emergenza e ricostruzione post-calamità, analizzando anche gli effetti indotti dal cambiamento climatico e dai rischi ad esso correlati.

L'articolo 3 disciplina la composizione della Commissione, la quale è formata da 20 deputati e deputate nominati dal Presidente della Camera dei deputati in proporzione al numero dei componenti dei gruppi parlamentari, assicurando, comunque, la presenza di un rappresentante per ciascun gruppo parlamentare. La nomina avviene tenendo conto della specificità dei compiti assegnati alla Commissione e sono altresì dettate le modalità in costituzione dell'ufficio di presidenza, formato dal presidente, due vicepresidenti e due segretari.

L'articolo 4 disciplina i poteri e i limiti della Commissione nello svolgimento della propria attività, stabilendo, tra l'altro, che la Commissione procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell'autorità giudiziaria. Tra le prerogative della Commissione è prevista l'acquisizione di documenti con particolare riferimento agli atti coperti dal segreto o attinenti a indagini in corso, sui quali la Commissione garantisce il mantenimento del regime di sicurezza.

L'articolo 5 sancisce l'obbligo del segreto per i componenti della Commissione, il personale addetto, i collaboratori e ogni persona che concorra al compimento di atti di inchiesta e ne venga a conoscenza per ragioni d'ufficio. La violazione del suddetto obbligo, nonché la diffusione, anche parziale, di atti e documenti il cui contenuto è stato dichiarato riservato è punita ai sensi delle leggi vigenti.

L'ultimo articolo, l'articolo 6, regola, infine, l'organizzazione interna, il regime di pubblicità dei lavori, prevedendo che le sedute sono pubbliche, fatta salva la deliberazione della Commissione di riunirsi in seduta segreta, e la dotazione finanziaria e operativa attribuita alla Commissione, stabilita nel limite massimo di 50.000 euro annui posti a carico del bilancio interno della Camera dei deputati. Il Presidente della Camera può autorizzare un incremento delle spese non superiore al 30 per cento a seguito di motivata richiesta formulata dal presidente della Commissione per esigenze connesse allo svolgimento dell'inchiesta. È altresì previsto che la Commissione possa avvalersi di tutte le collaborazioni ritenute necessarie di soggetti interni ed esterni all'amministrazione dello Stato, compresi esperti nelle materie rientranti nell'ambito di intervento della Commissione stessa.

In conclusione, Presidente, segnalo che le Commissioni competenti in sede consultiva hanno espresso parere favorevole, mentre la Commissione bilancio ha formulato un nulla osta.

PRESIDENTE. Prendo atto che la rappresentante del Governo rinuncia a intervenire. È iscritto a parlare il deputato Pino Bicchielli. Ne ha facoltà.

PINO BICCHIELLI (NM(N-C-U-I)-M). Grazie, signor Presidente. Onorevoli colleghi, signora Sottosegretaria, quando ho presentato, come primo firmatario, assieme ai miei colleghi del gruppo di Noi Moderati, la proposta di legge per l'istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sul rischio idrogeologico e sismico del territorio italiano l'evento calamitoso più recente era quello avvenuto nel maggio dello scorso anno in Emilia-Romagna, che aveva colpito anche le Marche e la Toscana. È una drammatica coincidenza, purtroppo, che tale proposta giunga all'esame di quest'Aula nei giorni successivi a nuovi, eccezionali eventi atmosferici franosi e alluvionali che hanno interessato alcune di quelle zone che già erano state colpite.

Oggi, per fortuna, non commemoriamo vittime, non cerchiamo dispersi, ma assistiamo a scene strazianti di chi vede la propria vita in ginocchio un'altra volta, a distanza solo di un anno. Oggi c'è chi deve ricostruire ciò che ha già ricostruito un anno fa. Dunque, c'è qualcosa che non funziona e questo lo dobbiamo dire con estrema franchezza. Al di là di eventuali responsabilità personali, dobbiamo comprendere come arginare l'impatto di questi fenomeni e dove la macchina dello Stato non riesce a pieno a svolgere i suoi compiti. Quelli che rientrano nell'ambito di competenza della Commissione d'inchiesta sono fenomeni che devono necessariamente essere gestiti a monte, prima che l'emergenza si si verifichi, al fine di evitare di dover gestire situazioni drammatiche poi, a valle.

È vero che gli eventi calamitosi non sono sempre prevedibili, tuttavia i danni, in caso si verifichino questi eventi calamitosi, sono assolutamente prevedibili - quelli, sì -, così come la vera emergenza non dovrebbe essere quella di gestire le calamità, bensì di provare a prevenirle, lavorando il più possibile sulla limitazione dei rischi. Per fare ciò bisogna sgomberare immediatamente il campo da quello che si configura come un equivoco semantico, prima ancora che pratico. Quando si parla di rischio idrogeologico e sismico sembra che ci si riferisca a qualcosa che può avvenire o meno. Allora, per il calcolo delle probabilità, verrebbe da pensare che è quasi impossibile che riaccada di nuovo nelle stesse zone e con la stessa intensità. Qui nasce, secondo me, il problema, la vera incomprensione di fondo. Il punto, infatti, non è il rischio; il punto è la fragilità del nostro territorio ed è il concetto di aree fragili che oggi va considerato. La fragilità non sono i rischi, ma sono realtà che, se non affrontate, possono purtroppo, come abbiamo già visto molte volte, tramutarsi in tragedie. Questa consapevolezza ci deve imporre di dotarci di tutti gli strumenti analitici e di effettuare tutte le verifiche e le valutazioni necessarie.

Vorrei, signor Presidente, specificare anche un altro aspetto, proprio all'indomani delle polemiche di questi giorni per il ripetersi delle stesse conseguenze a seguito di eventi, come ho detto prima, infausti, e penso alle zone colpite nuovamente dalle alluvioni in questi giorni. Non si tratta, con questa Commissione, come qualcuno ha detto in Commissione ambiente e come sicuramente dirà in questa discussione generale e nelle dichiarazioni di voto, di porre in essere un'attività inquisitoria e, men che mai, di produrre speculazioni politiche su temi delicati e drammatici come quelli delle calamità naturali, ma, al contrario, si tratta di stimolare uno spirito di coesione e un'attitudine costruttiva in grado di puntare all'obiettivo comune della ricerca di strumenti efficaci di prevenzione, nonché di soluzioni adeguate ai bisogni delle popolazioni colpite da eventi catastrofici.

Si tratta di contribuire all'approfondimento e alla comprensione di fenomeni complessi e interconnessi, di individuare, in base a dei parametri oggettivi, pratiche e norme rivelatesi efficaci o, al contrario, inadeguate rispetto alla gestione dell'emergenza, alla prevenzione idrogeologica e alla ricostruzione post-sismica, di inquadrare i singoli accadimenti nell'ambito di un contesto più ampio e multidisciplinare. Da campano, non posso non ricordare la tragedia del 26 novembre del 2022 ad Ischia, in particolare nel comune di Casamicciola.

Purtroppo, non imprevedibile e le cui conseguenze potevano essere evitate, se pensiamo che tutta la Campania - non solo l'isola di Ischia, tutta la Campania - è classificata dall'ISPRA come una fra le regioni a più alto rischio di fenomeni franosi, alluvionali e di corrosione delle coste. Altrettanto di frequente, con conseguenze probabilmente ancora più pesanti in termini di vittime, si sono verificati violenti eventi sismici anche dove le mappe del rischio facevano pensare che non sarebbe mai potuto accadere. Grazie al lavoro delle Autorità di bacino, dell'ISPRA e del Servizio nazionale della Protezione civile, si conosce spesso l'esposizione al rischio naturale legato al dissesto idrogeologico di un territorio, ma non sempre si è consapevoli del grado di rischio sismico di questi stessi luoghi.

E, soprattutto, quasi mai fino ad ora sono state analizzate le conseguenze delle due combinazioni di questi elementi di rischio. In molti degli oltre 8.000 comuni italiani sono presenti contestualmente il rischio sismico, il rischio di frana e il rischio di alluvione. Secondo gli ultimi dati dell'ISPRA, è soggetto al rischio di alluvioni oltre l'11 per cento della popolazione nazionale. Parliamo di 7 milioni di cittadini, di nostri concittadini, del 12 per cento delle famiglie, del 13 per cento delle industrie e dei servizi, del 16 per cento dei beni culturali, dell'11 per cento degli edifici pubblici o residenziali.

Invece, sono quasi un milione e mezzo gli individui che vivono in aree esposte al rischio di frane e quasi il 20 per cento della superficie nazionale è censito nelle classi a maggiore pericolosità per frane e alluvioni, mentre ben 841 chilometri di litorale sono soggetti a rischio di erosione. Parliamo, signor Presidente, di quasi il 20 per cento delle coste basse. E se sommiamo il rischio di frane, il pericolo di alluvioni e l'erosione delle coste, troviamo che il 94 per cento dei comuni italiani è catalogato nelle aree esposte al rischio; ripeto, il 94 per cento dei comuni italiani.

Un primo studio su questo tema è stato realizzato negli anni scorsi, nel 2017, dal Centro ricerche economiche, sociologiche e di mercato nell'edilizia, in collaborazione con il Consiglio nazionale degli architetti. Questo studio si è concentrato sul tentativo di individuare in quali comuni d'Italia si verificano i vari pericoli di origine naturale, valutando il rischio in funzione della popolazione esposta, cioè proporzionalmente alla popolazione degli stessi. In particolare, sono stati considerati e valutati il peso della superficie comunale esposta al rischio idrogeologico, la quota di suolo impermeabilizzato, la classificazione sismica comunale, il numero di eventi di dissesto che si sono verificati nell'ultimo secolo nei comuni e la popolazione esposta al pericolo sismico, di frana e di alluvione.

Ebbene, da questi primi dati emerge che in Italia ben 2.132 comuni, pari al 27 per cento del totale, presentano un rischio naturale alto o medio-alto, per una superficie territoriale complessiva di quasi 95.000 chilometri quadrati. Parliamo di un terzo del territorio e di una popolazione interessata di 20 milioni di abitanti, anche in questo caso abbiamo un terzo della popolazione italiana. I comuni a rischio alto sono 442: interessano 18.000 chilometri quadrati di territorio, il 6 per cento della superficie nazionale e sono abitati da oltre 8 milioni di abitanti, pari al 14 per cento della popolazione italiana.

Invece, i comuni a rischio medio sono 1.690, interessano 77.000 chilometri quadrati, il 25 per cento della superficie nazionale e sono abitati da quasi 12 milioni di persone. Non deve sorprendere che, osservando i risultati di questa ricerca, si rilevi come i comuni più esposti al rischio si trovino lungo la dorsale appenninica della penisola, in Sicilia e nelle Prealpi venete. Questi comuni, purtroppo, sono interessati sia da un'elevata sismicità - poiché tutti i comuni rientrano nella zona sismica 1 o 2 - sia da problemi di dissesto idrogeologico, e contano ampie aree comunali soggette a rischio elevato di frana o di alluvione nelle quali sono insediate attività economiche e abitazioni.

Questa condizione, di fatto, espone ad un rischio tangibile e prevedibile un elevatissimo numero di nostri concittadini. Tra i grandi comuni con rischio più elevato, non possiamo non citare città importantissime quali Napoli, Palermo, Catania, Messina, Brescia, Reggio Calabria, Perugia, Foggia, Rimini, Salerno. Ho citato solo, ovviamente, le città principali. Queste città sono tutte in zona sismica 1 o 2, in media la superficie ad elevato rischio di frana rappresenta il 6 per cento della superficie comunale e quella al rischio grande di alluvione è pari all'8 per cento.

Come abbiamo detto, in questi comuni a rischio alto risiedono oltre 20 milioni di persone; di questi 20 milioni, 5 risiedono in Campania, 4 in Sicilia e, nel Lazio e in Calabria, la popolazione residente nei comuni classificati a rischio alto o medio-alto ammonta a quasi 2 milioni di persone. Poi, tra le situazioni più problematiche non possiamo non segnalare l'Emilia-Romagna per l'esposizione al rischio di alluvione, cui si aggiungono importanti aree a pericolo di frana e, poi, ultimamente, dobbiamo aggiungere, purtroppo, anche la recente scoperta, a seguito degli eventi tellurici del 2012, della contemporanea presenza di un forte rischio sismico.

Se esaminiamo separatamente le due questioni, cioè il rischio di dissesto idrogeologico e il rischio sismico, con l'intenzione di procedere ad un lavoro di analisi ponderata, si evidenzia che, secondo l'ultimo aggiornamento dell'ISPRA, oltre 7 milioni di persone risiedono, quindi, in territori vulnerabili a rischio idrogeologico. Inoltre, più di 1 milione vive in aree ad elevata e molto elevata pericolosità di frane, più di 6 milioni vivono in zone a media pericolosità idraulica. Cosa vuole dire? Sono zone in cui sappiamo che, in media ogni 100 anni, si verificano elementi alluvionali importanti.

Poi ci sono delle regioni, e questo mi ha colpito molto, dove il 100 per cento dei comuni è a rischio idrogeologico, e sono ben 9 regioni, la metà quasi delle regioni italiane: la Valle d'Aosta, la Liguria, l'Emilia-Romagna, la Toscana, l'Umbria, le Marche, il Molise, la Basilicata, la Calabria. E se a questo aggiungiamo che Abruzzo, Lazio, Piemonte, Campania e Sicilia hanno percentuali tra il 90 e il 100 per cento, possiamo dire che questi dati statistici portano a dire che il 91 per cento dei comuni italiani e oltre 3 milioni di nuclei familiari vivono in territori classificati ad altissima pericolosità.

Poi c'è il patrimonio culturale, che è una eccellenza e una grande risorsa della nostra Nazione e del nostro Paese, e i dati dell'ISPRA ci dicono che ben 38.000 beni sono in aree franabili e 11.000 in zone ad elevatissima pericolosità di frana. E tutto questo che abbiamo detto è ancora più preoccupante se consideriamo che molte delle aree che abbiamo elencato sono aree a rischio medio-alto. Si trovano anche all'interno della cesura longitudinale che attraversa il territorio nazionale, ossia la faglia che corre lungo la dorsale appenninica e che sempre più sta isolando le aree interne. Quella della faglia non è una metafora casuale.

È fuor di dubbio, infatti, che gli eventi sismici che si sono succeduti, a partire dal terremoto de L'Aquila del 2009, abbiano contribuito in maniera determinante all'intensificarsi dello scollamento tra l'Italia costiera, l'entroterra appenninico e il processo di spopolamento delle aree interne.

Per questa ragione, signor Presidente, occuparsi di prevenzione antisismica, gestione delle emergenze, ricostruzione post sismica, non significa soltanto - come è doveroso - pensare alla sicurezza e al benessere delle popolazioni colpite, significa anche garantire il futuro di una rilevante porzione del nostro territorio. In questa prospettiva, l'istituto della Commissione d'inchiesta è uno strumento che noi riteniamo molto utile, che la Costituzione mette a disposizione del Parlamento, giacché consente, con strumenti di analisi puntuali e con prerogative penetranti, oltre che con un'attività interamente dedicata, di operare una ricognizione su accadimenti passati, sulla situazione presente, sulla congruità degli strumenti normativi e, di conseguenza, sui possibili indirizzi per il futuro. Tutto ciò al fine, non solo di scandagliare il passato, ma soprattutto di contribuire alla definizione di un quadro di riferimento utile per eventuali auspicabili interventi normativi di portata strategica.

Inoltre, la Commissione d'inchiesta di cui proponiamo la costituzione potrebbe svolgere una funzione di supporto alla realizzazione di progetti, previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, per il contrasto del dissesto idrogeologico e, in particolare, con lo scopo di rafforzare la capacità previsionale degli effetti del cambiamento climatico e prevenirne le conseguenze sulla vulnerabilità del territorio.

Vorrei attirare, infine, l'attenzione dei colleghi sui compiti della Commissione, su quanto sia necessaria una valutazione approfondita di tutti gli aspetti di indagine, per arrivare, non solo a determinare cause e reali esigenze, ma soprattutto per riuscire finalmente a prevenire i danni alle persone e alle cose. Io credo che sia un nostro dovere morale porci nelle condizioni di comprendere appieno un fenomeno così importante, proprio per essere in grado di svolgere, da legislatori, nel modo migliore, il nostro compito. D'altronde, è la stessa Costituzione che, all'articolo 82, prevede che ciascuna Camera possa disporre inchieste su materie di pubblico interesse.

Infine, signor Presidente, mi permetta anche di ringraziare i colleghi della Commissione ambiente, che hanno lavorato a questo testo in Commissione, contribuendo al suo miglioramento, e che hanno circoscritto l'indagine agli eventi verificatisi dal 2019. Voglio ringraziare, in particolare, la relatrice, l'onorevole Martina Semenzato, che ha seguito con attenzione i lavori in Commissione, e il presidente della Commissione, l'onorevole Mauro Rotelli.

Che possiamo dire? Possiamo dire che la via è stata tracciata e la linea da percorrere è chiara: fare presto e fare bene, affinché le scene viste in TV in questi giorni non si ripetano e restino materiale d'archivio. Su questo tema così importante è in gioco il futuro del nostro Paese e di interi comuni, ed anche la credibilità delle istituzioni. Il volto di chi è stato colpito nuovamente delle calamità dev'essere la nostra guida per tramutare la delusione e la rabbia in speranza.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole De Maria. Ne ha facoltà.

ANDREA DE MARIA (PD-IDP). Grazie, Presidente. Presidente, colleghi, mentre il territorio dell'Emilia-Romagna e, in parte, quelli delle Marche, sono alle prese con il dramma di una nuova pesante alluvione, la maggioranza pone al centro del dibattito parlamentare un provvedimento inopportuno nei tempi, nella forma, ma soprattutto nella sostanza, cioè la costituzione di una Commissione d'inchiesta sul rischio idrogeologico, che rappresenta un'iniziativa assolutamente irricevibile, un atto inefficace, un gesto offensivo. Peraltro, abbiamo visto in questi giorni che si può fare anche di peggio: c'è stato un Ministro della Protezione Civile che, mentre gli uomini e le donne della Protezione Civile - a cui va tutta la nostra solidarietà e il nostro ringraziamento - stavano soccorrendo le persone nelle case e stavano scavando nel fango, ha pensato bene di fare una conferenza stampa per attaccare la regione Emilia-Romagna, peraltro facendo affermazioni che la regione ha subito smentito, in modo molto preciso e puntuale.

Un provvedimento offensivo, prima di tutto, nei confronti di coloro i quali - evidentemente - sono già stati individuati quali capro espiatorio, a valle di un processo sommario, sterile e disordinato, che si porrà fuori dai tempi, dalle logiche e, persino, dal comune sentire. Purtroppo, così è scritto tra le pieghe di questo provvedimento: saranno i sindaci e gli amministratori locali le vittime sacrificali dell'ennesima battaglia condotta contro i mulini a vento; quegli stessi primi cittadini e quegli stessi amministratori che sono impegnati, in queste ore, al fianco dei cittadini colpiti nella mia regione; quegli stessi sindaci e quegli stessi amministratori che da molti mesi lanciano, inascoltati, grida di allarme sull'evanescenza delle politiche di sostegno poste in atto dal Governo a favore delle comunità colpite dai disastri.

Mentre questa maggioranza, tra le cui fila si annoverano svariati negazionisti climatici, evita di attualizzare il confronto circa le cause del dissesto, celandosi dietro lo studio di una nuova gogna pubblica di questa Commissione d'inchiesta, il Governo registra ritardi enormi sui ristori alle comunità colpite dall'alluvione del maggio 2023. Secondo i dati de Il Sole 24 ore, ci sono 86.000 soggetti, tra famiglie e imprese, che avrebbero diritto a un sostegno per i danni subiti. Tuttavia, al 3 settembre, solo 809 di essi avevano ricevuto un contributo. Dei 3,5 miliardi di danni calcolati, sono stati risarciti 23 milioni, cioè lo 0,66 per cento. Se si considera che, a tutt'oggi, non è ancora stata varata un'ordinanza sulle delocalizzazioni, viene amaramente da sorridere quando la Presidente del Consiglio, proprio al cospetto di una platea di imprenditori, si è recentemente concessa il lusso di criticare il Green Deal europeo.

Ebbene, a fronte di tanta inefficienza e in rapporto all'attuale contesto emergenziale, come può oggi questa maggioranza non interrogarsi circa l'opportunità e l'utilità di istituire una Commissione parlamentare di inchiesta sul rischio idrogeologico e sismico del territorio italiano e sull'attuazione delle norme di prevenzione e sicurezza? Ricordo poi che le Commissioni di inchiesta non devono essere dei para-tribunali, come ultimamente sta facendo in Parlamento questa maggioranza, che sembra voler istituire queste Commissioni come clava contro le opposizioni. La stessa Corte costituzionale ha più volte ribadito che il compito delle Commissioni parlamentari di inchiesta non è quello di giudicare, ma quello di raccogliere notizie e dati necessari per l'esercizio delle funzioni delle Camere.

Non possiamo inoltre non evidenziare, in via generale, questa tendenza - quasi patologica - di un aumento progressivo. Sempre più intenso è il numero delle Commissioni d'inchiesta: 10 quelle istituite fino ad ora, fra bicamerali e monocamerali, che, peraltro, quando sono approvate a maggioranza, rappresentano evidentemente un vulnus nel lavoro comune, che ci dovrebbe caratterizzare in queste istituzioni sui temi di maggiore rilievo e di maggiore importanza. Peraltro, con il taglio che c'è stato, del numero dei parlamentari e i lavori, anche impegnativi, dell'Aula e dell'insieme delle Commissioni, nei fatti, spesso, queste Commissioni operano in modo molto relativo e parziale.

In realtà, la questione più profonda e sistemica, che questa maggioranza e questo Governo vogliono deliberatamente ignorare, è quella del cambiamento climatico. Al contrario, non possiamo più esimerci dal considerare proprio come il cambiamento climatico rappresenti la matrice che amplifica in maniera esponenziale il rischio idrogeologico nel nostro Paese. Secondo ISPRA, il 94 per cento dei comuni italiani è esposto a rischio idrogeologico, con oltre 7,5 milioni di persone che vivono in aree potenzialmente soggette a frane e alluvioni. Ma è negli ultimi anni che si è registrato un incremento esponenziale degli episodi meteorologici estremi. Solo nel 2022 si sono verificati oltre 310 eventi climatici anomali, un aumento del 27 per cento rispetto a quanto registrato nell'anno precedente, secondo i dati che ha reso pubblici Legambiente. È dunque palese che la costituzione di una Commissione di inchiesta parlamentare, che ha fra i suoi compiti, tra gli altri, quello di individuare le eventuali responsabilità nella mancata o carente attuazione dell'attività di prevenzione e messa in sicurezza del territorio - e ricordo, fra l'altro, che nella nostra normativa questa competenza è strettamente statale, del Governo - sia, non solo insufficiente, ma anche fuorviante.

Infatti, invece di ricercare falsi colpevoli tra coloro che sono in prima linea nella gestione delle emergenze, si dovrebbero affrontare le cause profonde e sistemiche dei disastri. Il Parlamento ha già a disposizione tutti gli strumenti conoscitivi per farlo. Possiamo analizzare con rigore l'efficacia delle politiche ambientali, valutare le misure di adattamento e mitigazione necessarie, proporre interventi concreti e lungimiranti per ridurre l'impatto dei fenomeni climatici esterni, ma soprattutto è arrivato il momento di agire davvero. È tempo di agire con lungimiranza e responsabilità. Il cambiamento climatico non è una questione ideologica o procrastinabile, è una realtà ineludibile che esige risposte immediate e concrete. Continuare a ignorarlo e a minimizzare gli effetti significa condannare il nostro Paese a subire danni sempre più ingenti, sia in termini economici, sia, soprattutto, umani. In questo contesto, lo ribadiamo, la scelta di istituire una Commissione di inchiesta, finalizzata a scaricare presunte colpe in particolare sugli anelli più deboli della catena, appare miope e inadeguata.

È imprescindibile, al contrario, un approccio che consideri l'interconnessione fra cambiamento climatico, uso indiscriminato del suolo, urbanizzazione selvaggia e cronica mancanza di prevenzione. Non possiamo continuare a rincorrere le emergenze senza affrontare le cause profonde che le generano. Peraltro, appunto, l'Italia è uno dei Paesi più esposti ai rischi dei cambiamenti climatici. Eppure, il Governo Meloni non ha ancora mosso un dito o, per essere più chiari, messo un euro sul Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, approvato, ma che non individua né le priorità né le fonti di finanziamento, né tantomeno ha dedicato energie politiche alla calendarizzazione della legge sul consumo di suolo. Vedremo, speriamo a breve, quali interventi intenda prevedere nella legge di bilancio per rendere il nostro territorio meno fragile.

Tutto ciò, peraltro, mentre la questione diventa sempre più urgente, a maggior ragione perché il livello di pressione e di rischio non potrà che aumentare.

Occorre che il Governo riveda radicalmente le proprie priorità, presti ascolto alla voce unanime delle comunità scientifiche e delle realtà locali e si impegni seriamente nella lotta al cambiamento climatico. Solo attraverso un'azione decisa, coordinata e lungimirante potremo sperare di proteggere il nostro territorio e garantire un futuro sicuro e sostenibile alle prossime generazioni, così come prevede il novellato articolo 9 della Costituzione, che dice che la Repubblica tutela l'ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell'interesse delle future generazioni.

È il momento di abbandonare le logiche sterili della ricerca di presunti colpevoli, le strumentalizzazioni politiche sulla pelle di chi è colpito da questi eventi atmosferici così gravi e di assumersi pienamente le proprie responsabilità istituzionali. È il momento di mettere in atto politiche coraggiose e innovative, di investire massicciamente nelle energie rinnovabili, nella riqualificazione del territorio, nella tutela dell'ambiente e nella prevenzione dei rischi naturali.

In conclusione, invitiamo la maggioranza a ritirare il provvedimento che istituisce la Commissione. La maggioranza abbandoni i suoi propositi inquisitori e guardi piuttosto avanti, dimostrando di poter affrontare con serietà le sfide reali del nostro tempo, invece di cercare scappatoie semplicistiche al cospetto di problematiche complesse. Se non sarà così, voteremo convintamente contro l'istituzione della Commissione parlamentare d'inchiesta.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Gardini. Ne ha facoltà.

ELISABETTA GARDINI (FDI). Grazie, Presidente. Colleghi, rappresentante del Governo, io credo che i proponenti ci offrano una fotografia della situazione in Italia che dovremmo poter condividere tutti, perché l'Italia, la Nazione più bella del mondo, non è solo sinonimo di arte, storia e paesaggi mozzafiato, ma è sinonimo anche di grande fragilità.

La nostra terra è esposta a rischi idrogeologici, sismici e idraulici che minacciano il suo territorio unico. È un patrimonio da proteggere, ma anche da preservare con attenzione e consapevolezza. L'Italia è uno dei Paesi europei maggiormente esposti al rischio a causa della sua conformazione geografica e geologica. Il rischio idrogeologico comprende frane, alluvioni, erosione costiera, mentre quello sismico è legato all'attività tettonica, in particolare per la presenza delle placche euroasiatica e africana.

Secondo i dati dell'ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), che già sono stati ampiamente ricordati, circa il 91 per cento dei comuni italiani è a rischio idrogeologico. Abbiamo 8.000 comuni, ciò vuol dire che circa 7.280, su 8.000, sono a rischio idrogeologico. E più del 16,6 per cento del territorio nazionale è classificato come area ad alto rischio - lo ripeto, ad alto rischio - di frane e alluvioni, una cifra che coinvolge circa 7 milioni di persone e più di 2 milioni di edifici. Le regioni più esposte, oltre al Veneto, sono quelle dell'Appennino settentrionale, del Centro e del Sud Italia, come Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Calabria e Sicilia.

Per quanto riguarda il rischio sismico, l'Italia è situata in una delle aree più attive, dal punto di vista tettonico, del continente. Circa il 45 per cento del territorio italiano è considerato a rischio sismico medio-alto, con regioni come il Friuli-Venezia Giulia, l'Abruzzo, il Molise, l'Umbria, la Campania, la Calabria e la Sicilia che hanno visto i terremoti più distruttivi della storia recente. Tra gli eventi più noti, si ricordano ovviamente il terremoto del Friuli nel 1976, dell'Irpinia nel 1980, de L'Aquila nel 2009 e di Amatrice nel 2016, che hanno causato migliaia di morti e gravi danni infrastrutturali.

Un rapporto del CNR, il Consiglio nazionale delle ricerche, stima che ogni anno l'Italia subisca danni per oltre 3 miliardi di euro a causa di eventi catastrofici, legati al rischio idrogeologico e sismico. Questi dati sono confermati anche dalla Protezione civile, che riporta circa 3 miliardi e mezzo di spese ogni anno per le emergenze.

Allora, se confrontiamo l'Italia con le altre Nazioni dell'Unione europea, come abbiamo detto, vediamo che è tra quelle maggiormente esposte, sia a rischio idrogeologico, sia a quello sismico, ma ci sono alcune differenze significative in termini di tipologia di rischio, frequenza e capacità di gestione. Rispetto al rischio idrogeologico, Paesi come la Germania e la Francia sono anch'essi soggetti a rischio idrogeologico, ma la geografia italiana – come abbiamo già detto - con la presenza degli Appennini e delle particolari condizioni climatiche, rende l'Italia più vulnerabile. Le alluvioni in Germania, per esempio, tendono a colpire in modo esteso, come è avvenuto con le catastrofiche inondazioni del 2021 nella Renania-Palatinato, ma il territorio italiano è più frammentato, con numerosi piccoli bacini idrografici che rendono la gestione più complessa. Inoltre, le alluvioni in Italia hanno spesso un impatto più devastante sulle infrastrutture storiche e sugli insediamenti urbani costruiti in aree a rischio.

Se invece guardiamo al rischio sismico, anche qui vediamo che, se è vero che in Grecia, per esempio - o anche in Turchia, se guardiamo in Europa, ma fuori dall'Unione europea - ci sono rischi sismici comparabili o addirittura superiori a quelli italiani, soprattutto per la vicinanza alla stessa placca tettonica, rispetto a Paesi come la Francia, la Germania e i Paesi del Nord, l'Italia ha una maggiore frequenza di terremoti; e anche la Spagna e il Portogallo, pur presentando un rischio sismico moderato, hanno un numero inferiore di eventi distruttivi rispetto all'Italia. Però, rispetto alla capacità di gestione, si nota un gap significativo. L'Italia, nonostante l'alto rischio, non ha brillato per la sua gestione del territorio. L'abusivismo edilizio, la mancanza di prevenzione e la insufficiente e non lungimirante pianificazione territoriale rendono gli eventi catastrofici più frequenti e devastanti.

Al contrario, Paesi come la Germania e i Paesi Bassi, pur essendo più esposti a rischi di inondazione, per esempio, hanno sviluppato sistemi di prevenzione e mitigazione più efficaci, grazie anche a rigidi controlli urbanistici. In particolare, i Paesi Bassi, che sono a rischio di inondazioni a causa della loro conformazione, hanno costruito una rete complessa di dighe, barriere e sistemi di pompaggio all'avanguardia, investendo ingenti risorse nella prevenzione del rischio.

Questo tipo di approccio, purtroppo, è ancora troppo frammentato in Italia, dove, nonostante gli sforzi, la manutenzione delle infrastrutture e la gestione delle emergenze rimangono una sfida.

Allora, se guardiamo, l'Unione europea ha emanato numerose direttive e regolamenti per promuovere la gestione dei rischi naturali e migliorare la resilienza degli Stati membri. Vorrei ricordare alcuni dei provvedimenti più rilevanti. La direttiva 2007/60/CE, direttiva Alluvioni - parliamo del 2007 e siamo ancora ben lontani dall'averla implementata -, impone agli Stati membri di valutare e gestire il rischio di alluvioni, obbligando i Paesi a realizzare piani di gestione del rischio di alluvioni. Questi piani devono includere misure di prevenzione, protezione e preparazione e devono essere aggiornati regolarmente.

L'Italia ha recepito la direttiva con il decreto legislativo n. 49 del 2010, ma l'attuazione pratica - come dicevo prima - ha incontrato ostacoli legati alla complessità burocratica e alla cronica incapacità di utilizzare i fondi. La direttiva 2012/18/UE - vado avanti e ne cito alcune - “direttiva Seveso III”, mira a prevenire e limitare le conseguenze di incidenti gravi legati a sostanze pericolose, includendo anche il rischio sismico nelle aree industriali; gli Stati devono identificare i siti a rischio e predisporre misure di sicurezza.

Ci sono anche i Fondi di solidarietà dell'Unione europea. Dopo eventi catastrofici, gli Stati possono richiedere l'attivazione del Fondo di solidarietà dell'Unione europea, creato per rispondere a calamità naturali gravi.

L'Italia è stata più volte beneficiaria di questo Fondo, ne è stata per lungo tempo la principale beneficiaria, non ho visto i rendiconti dell'ultimo periodo. Penso, in particolare, in seguito ai terremoti de L'Aquila del 2009 e del Centro Italia del 2016, ma, anche qui, la distribuzione delle risorse non sempre è stata rapida o sufficiente. Infine, vorrei ricordare il regolamento UE 2020/852 “Tassonomia verde”, che stabilisce i criteri per le attività economiche sostenibili dal punto di vista ambientale, incoraggiando investimenti in infrastrutture resilienti e a rischio climatico, tra cui frane e alluvioni.

Gli Stati membri sono tenuti a integrare questi criteri nella loro pianificazione economica. L'Italia, in linea con le normative europee, ha sviluppato diversi strumenti di pianificazione e prevenzione, come il Piano nazionale per la riduzione del rischio sismico e il Piano nazionale per l'adattamento ai cambiamenti climatici. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che la frammentazione amministrativa e la lentezza burocratica hanno rallentato l'effettiva implementazione delle direttive europee.

Ora ci troviamo ad affrontare nuovamente l'emergenza in Emilia-Romagna, come è già stato ricordato, e ci domandiamo come sia possibile. Per questo dico ben venga una Commissione d'inchiesta che vada a capire perché sia fallita la prevenzione. Quando si parla di emergenze, non posso, come credo tutte le persone che se ne siano occupate, non pensare a Giuseppe Zamberletti, un geniale sognatore con i piedi ben piantati per terra, come lo ha definito qualcuno. A me sembra un paradosso che l'Italia, che ha dato al mondo, proprio grazie all'onorevole Zamberletti, un modello di Protezione Civile che tutti, a partire dall'Unione europea, ci hanno invidiato e hanno cercato di imitare, si sia così involuta.

Grazie a Zamberletti siamo stati, probabilmente, i primi a parlare di previsione e prevenzione; siamo stati i primi ad avere quello straordinario Corpo di volontari; siamo stati i primi a unire tecnologia, uomini e donne di scienza e del volontariato. Diceva Zamberletti che la Protezione Civile è nata per evitare che la gente finisca sotto le macerie, non per tirarla fuori. Ripeto, la Protezione Civile è nata per evitare che la gente finisca sotto le macerie, non per tirarla fuori.

Allora, alcuni mesi fa ho avuto la fortuna di seguire online una Giornata nazionale sulla prevenzione, che è stata organizzata dall'Ordine degli ingegneri e dall'Ordine dei geologi, e tra poco, a ottobre, ci sarà anche la Giornata internazionale per la riduzione del rischio dei disastri naturali. Quella di qualche mese fa è stata un'occasione straordinaria di confronto e riflessione tra politici, tecnici e mondo accademico. Nel suo intervento, il Ministro Musumeci ha ricordato come, purtroppo, nella nostra Nazione, la prevenzione sia stata spesso un tema solo da tavola rotonda, ribadendo il forte impegno di questo Governo a fare della prevenzione di tutti i rischi, naturali e antropici, un obiettivo prioritario.

Dobbiamo - ha detto - rimuovere ostacoli che non sono soltanto strutturali e burocratici, sono anche ostacoli culturali, e sono perfettamente d'accordo con lui. Ha ragione, perché noi oggi scontiamo anche una politica del passato che non ha avuto una visione, perché la prevenzione non è sexy, come diceva Kristalina Georgieva, oggi direttrice operativa del Fondo monetario internazionale e allora, invece, commissario europeo per la cooperazione internazionale e la Protezione Civile.

Questa estate abbiamo sofferto per la siccità, e anche qui Nello Musumeci ci ha spiegato che non ci sarebbe stato bisogno di una regia per la siccità se, nel passato, il denaro pubblico fosse stato orientato alla riqualificazione della rete di distribuzione urbana, fosse stato orientato a creare nuovi bacini artificiali, nuove dighe. Ha ricordato come, da presidente della regione siciliana, avesse realizzato che, su 25 dighe di competenza regionale in Sicilia, 18 non fossero mai state collaudate, 18 su 25; aveva quindi avviato le procedure per i finanziamenti atti a farle collaudare e, anche lì, ha avuto modo di verificare i tempi lunghi e sta lavorando per accorciare questi tempi.

Ma è una questione culturale, anche perché, come ha ricordato ancora il Ministro Musumeci, nonostante lo prevedano una legge e un accordo con il Ministro Valditara, molti dirigenti scolastici non inseriscono la promozione della prevenzione nell'ora di educazione civica; eppure, questo lo troviamo anche nei suggerimenti delle direttive dell'Unione europea sulla Protezione Civile. Ci vuole una cultura, una cultura del rischio e della prevenzione del rischio, una cultura per sapere come muoversi nel momento in cui ci sia un disastro naturale.

Cambia la modalità di lavoro, perché finalmente una cabina di regia presso la Presidenza del Consiglio verificherà con i quattro Ministeri maggiormente interessati - e questo è un approccio totalmente nuovo e necessario - quello che si può e si deve fare in questi tre anni di legislatura. Ora, però, lasciatemi dire quello che ha frenato, rallentato o bloccato tante volte questa nostra bella Italia: spesso è stato un atteggiamento ideologico. Da veneta, sono orgogliosa di dire che, nella mia regione, il mio Veneto ha realizzato i bacini di laminazione.

Da quando li abbiamo realizzati, abbiamo evitato allagamenti e danni. Anche quando ci siamo trovati di fronte a un evento eccezionale, di quelli che si verificano ogni 300 anni, come affermato da Marco Marani dell'Università di Padova, abbiamo evitato un vero e proprio disastro. Sono anche orgogliosa, però, di affermare qui che le barriere del MoSE hanno salvato Venezia per ben 25 volte solo nello scorso anno, evitando i danni economici, culturali e ambientali che ne sarebbero derivati. Eppure, quanto ostracismo abbiamo visto rispetto a quest'opera, e anche questo è un tema culturale. Ricordiamo tutti quando Il Sole 24 Ore pubblicava il resoconto delle ingenti perdite economiche dovute al cosiddetto partito del “no”.

Sempre in quella giornata dedicata alla prevenzione, organizzata dagli Ordini degli ingegneri e dei geologi, mi ha colpito la frase, detta da un tecnico - badate bene, da un tecnico, non da un politico - che cito tra virgolette: i cambiamenti climatici possono essere la causa scatenante, ma ci sono tutte le cause predisponenti, ed è lì che è obbligatorio agire.

Quindi, i cambiamenti climatici non possono e non devono diventare l'alibi dietro il quale nascondere inefficienze, lentezze e inadempienze. Prevenzione e mitigazione del rischio stanno facendo passi da gigante, grazie anche alle nuove tecnologie e all'intelligenza artificiale, che non possono e non devono, però, procedere disgiunti dal monitoraggio e dalla conoscenza del territorio, dalla capacità di leggere il territorio nel dettaglio. Le tecnologie devono essere al servizio della conoscenza del territorio, che deve continuare ad essere capillare, e non possiamo dimenticare da dove veniamo.

Penso sempre alla mia regione, ma ciò riguarda tantissime altre aree dell'Italia. Per affrontare correttamente il problema della sicurezza idraulica, dobbiamo prima di tutto riconoscere che il nostro territorio non è un prodotto della natura, ma frutto di interventi umani. Nei secoli, l'uomo ha trasformato vaste aree paludose e malsane in un ambiente vivibile, arginando i fiumi e regolando le acque, permettendo così lo sviluppo di insediamenti. I fiumi e i canali, così modificati, erano in grado di gestire le portate d'acqua di un territorio molto diverso, però, da quello attuale. Il sistema idraulico, basato su argini rigidi, ha una capacità di contenimento limitata.

Con l'urbanizzazione e le trasformazioni del territorio è diventato fondamentale creare sistemi di laminazione per gestire le maggiori portate. Invece, la scarsa manutenzione di fiumi e canali ha ridotto la loro capacità, causando le esondazioni a cui oggi assistiamo. Se un allagamento 100 anni fa causava danni limitati principalmente alle campagne, oggi l'impatto è ben più devastante. L'ultima proposta politica che mira alla rinaturalizzazione del nostro territorio ai miei occhi appare come una delle più pericolose.

In breve tempo la natura si riprenderebbe ciò che l'uomo ha faticosamente conquistato, vanificando secoli di lavoro. Abbiamo visto le immagini dei corsi dei fiumi che hanno esondato in Emilia-Romagna, detriti di tutti i generi incagliati sotto gli archi dei ponti. Sarà fondamentale che questa Commissione d'inchiesta valuti bene come viene trovato l'equilibrio e il bilanciamento tra sicurezza idraulica, prevenzione di esondazioni e allagamenti, da un lato, e protezione ambientale, in particolare tutela della biodiversità, dall'altro.

Le leggi nazionali e internazionali prevedono la pulizia degli alvei per evitare, appunto, quei disastri cui assistiamo. Tuttavia, troppo spesso, zelanti ambientalisti e attivisti impediscono questa prevenzione, negandone l'urgenza. È stato emblematico il caso in Friuli del torrente Rosandra. Sono stati denunciati tutti per aver pulito l'alveo perché, in quel caso, non se ne riconosceva l'urgenza. Mentre il carattere d'urgenza era stato riconosciuto nel caso del Rio Ospo. Nel caso del Rio Ospo, si erano verificati eventi atmosferici avversi e c'era stata già un'onda di piena che aveva trasportato ingenti quantità di materiale legnoso, che andava ad ostruire le sezioni idrauliche nei tratti della valle. Ora, mi chiedo se l'urgenza c'è soltanto quando il disastro si è già verificato o se almeno mezzo disastro si è già verificato. In questo secondo caso, difatti, la pulizia dell'alveo e degli argini, con operazioni di taglio e sfalcio, sono state autorizzate. Se vogliamo vivere pericolosamente, siamo sulla strada giusta.

Bisognerà specificare bene, ripeto, come interpretare le leggi nazionali e internazionali che regolano la manutenzione degli alvei, azione prioritaria per la salvaguardia del territorio. Così come è fondamentale garantire la corretta portata d'acqua dei fiumi, attraverso una costante manutenzione e adeguati interventi strutturali. Solo così possiamo prevenire il rischio di allagamenti, evitando che gli argini e i canali siano sopraffatti da eventi meteorologici estremi o da un incremento delle portate, dovuto all'urbanizzazione del territorio. Anche qui sappiamo che i problemi sono molteplici. La lista è lunga: non mi addentro sul tema dei tempi, della burocrazia, sarà il lavoro della Commissione, che mi auguro porterà risultati interessanti e proficui.

Per concludere, consapevoli che l'Italia rimane uno dei Paesi più esposti ai rischi idrogeologici e sismici, con una frequenza elevata di eventi catastrofici e una gestione delle emergenze che spesso è risultata insufficiente, oggi la sfida è quella di migliorare l'efficacia della prevenzione e della gestione del territorio, investendo in infrastrutture resilienti e in una pianificazione territoriale più efficace.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Santillo. Ne ha facoltà.

AGOSTINO SANTILLO (M5S). Grazie, Presidente, e grazie ai pochi presenti, per illustrare, in discussione generale, quello che pensiamo di questa Commissione d'inchiesta. Onestamente, ho sentito un po' di assurdità a cui non intendo replicare tecnicamente. Infatti, mi rendo conto che la prima cosa che bisognerebbe fare, quando si parla di dissesto idrogeologico e di rischio sismico, è di svestirsi dei panni del tecnico per fare il politico. Il politico deve fare il politico, il tecnico deve fare il tecnico. Quando e se ci saranno le commissioni di inchiesta, ma prima ancora ci sono i dipendenti e i dirigenti delle autorità di distretto, delle autorità di bacino, persone che studiano questi fenomeni, come le università: sono loro a dire se una portata aumenta soltanto perché c'è urbanizzazione o perché, come dimostrano le ultime analisi meteorologiche, piove di più. Quindi, può essere anche una somma di aliquote, non è soltanto una cosa.

Tuttavia, oggi ci troviamo dinanzi a un Governo che, anziché governare il Paese e, quindi, dare risposte chiare e concrete in termini di contrasto al dissesto idrogeologico, con una proposta di legge di iniziativa parlamentare, avvia i lavori di una Commissione d'inchiesta di cui non si comprende il fine. Se il fine è quello di trovare l'equilibrio tra la pianificazione e la risposta al dissesto, alla difesa del suolo e, quindi, fare più prevenzione, pianificazione e programmazione, allora i Ministeri ci sono, le autorità competenti ci sono, occorre dare risorse economiche. Invece, a me sembra quasi come se questa maggioranza, ma anche questo Governo avessero un'ossessione nei confronti della magistratura. Voi, in particolare, contestate l'operato dei magistrati, quando ci sono inchieste che vi riguardano o, addirittura, tentate di superare le inchieste. Ci sono inchieste in corso, in questo caso, sì, che riguardano l'urbanizzazione; la famosa proposta di legge Salva Milano, che è stato un emendamento che questa maggioranza ha anche formulato, quando c'era il Salva Casa, allora, sì, che c'era urbanizzazione, però, non sentivo gridare dai colleghi: eh, ma l'urbanizzazione! Lì, c'era urbanizzazione. Quindi, si tenta di superare la magistratura. Adesso, addirittura, abbiamo una Commissione d'inchiesta sul rischio idrogeologico. Allora, perché non fare una Commissione inchiesta che riguarda l'inquinamento dell'aria o l'inquinamento dei depuratori? A me viene il dubbio che abbiate sbagliato mestiere; forse volevate fare i magistrati, ma vi siete ritrovati a fare i parlamentari.

Come dicevo, questa scarsa cultura costituzionale è palese e viene dimostrata da voi costantemente. Mi ricordo quei giorni in cui in Emilia-Romagna avevamo le campagne, le case, le strade, gli ospedali e le caserme allagati e le persone disperate. Che cosa fece il Governo in quel momento? Anziché cercare di aiutare, in maniera urgente, non solo in quei giorni, ma dando una pianificazione nei giorni a venire, ricordo la famosa frase, secondo cui la colpa sembrava quasi essere stata dei cittadini: il Governo non è un bancomat. Questa è stata una barbarie culturale.

A me, Presidente, è venuto in mente un esempio per ricordarmi quei giorni: l'esempio di quando c'è un incendio in corso in una casa, arrivano i Vigili del fuoco e questi, anziché prestare soccorso alle persone che abitano la casa, sono lì ad accusarli su come mai c'è stata la fuga del gas; questa è la questione.

Noi temiamo la cultura ambientale di questa maggioranza, perché il problema di fondo è che manca proprio la cultura della prevenzione e della pianificazione: nei fatti ne parliamo - degli interventi, alcune parti le condivido -, ma quando andiamo a gestire e a mettere le risorse, purtroppo, non trova lo spazio. Come pure lasciare i comuni che devono fare gli interventi di difesa suolo. Ancora sentivo che nella mia Veneto ci sono le vasche di laminazione, come se nelle altre parti d'Italia non ci fossero vasche di laminazione. Quelle opere vengano pianificate e programmate dagli enti competenti che, attraverso le regioni, che si occupano di difesa suolo nel nostro Paese, arrivano ad essere l'autorità di bacino e di distretto, perché, come ebbi già modo di dire tempo fa in quest'Aula, l'acqua non conosce confini né comunali né regionali. È da lì che scaturisce tutto, dalla visione che abbiamo: deve essere una visione, quantomeno, a scala di bacino. Ecco, se iniziamo ad usare i termini giusti, può darsi che anche noi, come opposizione, possiamo ragionare nel cercare di trovare una risposta concreta alla difesa suolo.

Nel nostro Paese - voglio ricordare anche io qualche dato Presidente, componente del Governo e relatrice presente - oltre 1.300.000 abitanti e quasi 548.000 famiglie vivono in zone a rischio frane, mentre quasi 7 milioni di abitanti si trovano in aree soggette ad alluvione. Secondo gli ultimi dati ISPRA, raccontati anche da qualche altro collega, abbiamo che il 18,4 per cento del nostro territorio nazionale è nelle classi di maggiore pericolosità per frane e alluvioni e degli oltre 213.000 beni architettonici - perché siamo un Paese che ha nel DNA il bene architettonico -, ben 12.000 di essi sono soggetti a fenomeni franosi nelle aree a pericolosità - attenzione - elevata. Infatti, se pensiamo a tutti i livelli di pericolosità, questi arrivano a 38.000. Anche su questo, non è che si possa generalizzare e dire: sono a pericolosità alluvionale quelli che vengono allagati ogni 100 anni. Non è così: quello è un concetto tecnico molto importante, che si chiama periodo di ritorno, ma la pericolosità non è soltanto legata al periodo di ritorno, ma anche alla morfologia e, soprattutto, all'acqua che scende. Abbiamo 2.115.000 edifici, che, insieme a 727.000 imprese, si trovano nelle aree più esposte al rischio idrogeologico: oltre 220.000 addetti esposti al rischio. In Italia sono esposti al rischio: cittadini, imprese, lavoratori, beni culturali ed opere pubbliche.

E, allora, cosa intendono fare il Governo e la maggioranza di questo Paese per dare le risposte a coloro che abitano nelle aree a rischio idrogeologico e nelle aree a rischio sismico? Una Commissione d'inchiesta. Una Commissione d'inchiesta che - lo dicevo in Commissione -, come quella sul COVID, che dovrà appurare che la causa del COVID è stata un virus, appurerà che la causa delle alluvioni e delle frane in Italia è perché piove troppo. Che grande Commissione d'inchiesta! Sembra l'ennesimo poltronificio da parte di questa maggioranza.

Vi voglio ricordare che, appena insediati, voi nella legge di bilancio del 2022, dando seguito alle parole che ascoltai in quest'Aula, avete tagliato 350 milioni di euro destinati al dissesto idrogeologico per questo Paese, avete tolto soldi. Dopo l'alluvione del 2023, quando avete stanziato inizialmente 20 milioni per le prime risposte ai territori alluvionati, cosa avete fatto? La domanda è: cosa avete fatto da allora ad oggi? Noi vi avevamo avvisati che senza pianificazione e programmazione non si va da nessuna parte, eppure se voi non vi organizzate e non governate il fenomeno come dovreste farlo, qui ci ritroveremo nuovamente a piangere morti e distruzione. Anche all'epoca lo dicemmo: una delle poche cose certe che c'è in questo Paese è che ci saranno terremoti, frane e alluvioni. La maggioranza cosa propone? Una Commissione d'inchiesta.

Anziché andare a finanziare e a trovare i soldi, ad esempio attraverso la tassazione degli extraprofitti e la tassazione dei colossi del web, anziché trovare altri modi per spendere bene i soldi; anziché trovare risorse per andare a realizzare le opere pianificate e programmate dagli enti preposti, si fa la Commissione d'inchiesta. Che cosa volete fare con questa Commissione d'inchiesta? Volete trovare dei colpevoli tra la regione che ha un colore diverso da questa maggioranza, oltre ai sindaci che non sono del vostro partito? Cosa volete fare? E allora, siamo costretti ad assistere alle uscite pubbliche di esponenti di Governo di questa maggioranza. Giorgetti, il 20 settembre, ha scoperto che i fenomeni meteo avversi costano troppo. Ci voleva un Ministro dell'Economia per dirci che i fenomeni meteo avversi costano troppo. Ma va. Qualcuno dovrebbe ricordargli i 15 miliardi che spende inutilmente per un ponte che non serve. Lei sta al Governo, glielo può dire, no? Con quei 15 miliardi, che vi sforzate di trovare per il ponte, anziché appunto metterli sul Ponte sullo Stretto, date una risposta alla pianificazione e alla programmazione: utilizzateli per gli interventi di difesa del suolo!

O ancora: far pagare ai cittadini la lotta al dissesto idrogeologico con una polizza anticalamità, che il Ministro Musumeci voleva mettere a tutti i costi; poi, però, giustamente, il suo partito ha detto: “Ma che stai dicendo?” e quindi ha ritirato l'emendamento dal DL omnibus al Senato. Parlatevi un po' tra voi, vediamo cosa volete veramente fare.

O ancora: Lollobrigida che, dopo una stagione che ha messo letteralmente in ginocchio l'agricoltura per la crisi idrica che c'è stata nel nostro Paese, quando ne parla dice che ci sono troppe opere incompiute. Ma le opere incompiute vanno completate: questo Governo deve trovare le risorse e le modalità per realizzarle quanto prima ma, soprattutto, bene.

Siamo praticamente dinanzi ad un Governo a babbo morto, cioè “oggi parla, poi faremo”. Dovremmo tornare noi al Governo per fare qualcosa, perché cambiamo la visione, perché effettivamente parliamo di scala di bacino e non parliamo di questa o di quella regione o di questo o di quel comune.

Ma l'annuncio più bello l'ha fatto la Presidente Meloni quando, all'inizio dell'estate del 2023, ci ha detto che il Paese sarebbe stato curato da un piano nazionale per il dissesto idrogeologico. Sono passati 14 mesi, vi sono state disgrazie in Emilia-Romagna, ma il Ministro Musumeci ci viene a dire che è fermo, per motivi imprecisati, al Ministero dell'Ambiente. Ditegli di telefonare a Pichetto Fratin, così almeno si fa spiegare i motivi per poter rilanciare questo piano di cui tutti noi vorremmo venire a conoscenza. Ovviamente, al festival delle dichiarazioni non poteva mancare Salvini.

Che cosa ha detto Salvini? Che il dissesto si ferma con le infrastrutture. Esatto, ma quelle che funzionano per il dissesto, non il Ponte sullo Stretto che non serve a niente. Apro e chiudo parentesi: un altro collega, prima, ha nominato la faglia. Era preoccupato per le faglie. Però, per queste faglie, quando se ne parla in relazione al Ponte sullo Stretto, la preoccupazione scompare. Mah!

Comunque, quando noi eravamo al Governo un paio di cosucce siamo riusciti a farle. Per esempio, abbiamo fatto arrivare al Paese una voce cospicua del Piano nazionale di ripresa e resilienza e l'abbiamo impiegata proprio per la tutela del territorio e delle risorse idriche: 15 miliardi di cui 2 miliardi e mezzo per l'Investimento 2.1, che ricordo essere “Misure per la gestione del rischio di alluvione e per la riduzione del rischio idrogeologico”. Ecco, dovreste iniziare spendendo tutte quelle somme.

Presidente, vado a concludere. Come MoVimento 5 Stelle crediamo che questa Commissione d'inchiesta sia un nuovo modo per avviare un'altra caccia alle streghe. Noi a questo gioco non ci stiamo.

Crediamo che un Governo serio, sapendo quali sono le opere da pianificare e programmare (basta farsi mandare i progetti dal Ministero per l'Ambiente, chiedere al Ministro Pichetto Fratin), debba trovare le risorse per completare, avviare e realizzare quelle opere, senza - se volete un consiglio - citare i tempi entro cui verranno completate, né le risorse complessive che serviranno. Perché, caro Presidente, c'è solo un ente che può dirci quanto costeranno in totale e quando verranno finite: appartiene all'aldilà. Salve.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche - Doc. XXII, n. 31-A)

PRESIDENTE. Hanno facoltà di replicare la relatrice Semenzato e il Governo.

Prendo atto che sia la relatrice che il Governo rinunciano alla replica.

Il seguito del dibattito è dunque rinviato ad altra seduta.

Sui lavori dell'Assemblea.

PRESIDENTE. Ricordo che domani, martedì 24 settembre, alle ore 12,30, è convocato il Parlamento in seduta comune per l'elezione di un giudice della Corte costituzionale. Siamo al settimo scrutinio. La chiama avrà inizio dai senatori.

Ordine del giorno della prossima seduta.

PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della prossima seduta.

Martedì 24 settembre 2024 - Ore 10:

1. Svolgimento di una interpellanza e interrogazioni .

(ore 14,30)

2. Esame e votazione delle questioni pregiudiziali riferite al disegno di legge:

Conversione in legge del decreto-legge 16 settembre 2024, n. 131, recante disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi derivanti da atti dell'Unione europea e da procedure di infrazione e pre-infrazione pendenti nei confronti dello Stato italiano. (C. 2038​)

3. Seguito della discussione del disegno di legge:

S. 924-bis - Revisione della disciplina in materia di valutazione delle studentesse e degli studenti, di tutela dell'autorevolezza del personale scolastico nonché di indirizzi scolastici differenziati (Approvato dal Senato). (C. 1830​)

Relatrice: DI MAGGIO.

4. Seguito della discussione delle mozioni Bakkali, Zanella, Magi ed altri n. 1-00314, Baldino ed altri n. 1-00320, Faraone ed altri n. 1-00323 e Richetti ed altri n. 1-00324 concernenti iniziative per una riforma della disciplina in materia di cittadinanza .

5. Seguito della discussione delle mozioni Caso ed altri n. 1-00315, Manzi ed altri n. 1-00318, Faraone ed altri n. 1-00319, Sasso, Amorese, Tassinari, Pisano ed altri n. 1-00321, Grippo ed altri n. 1-00325 e Piccolotti ed altri n. 1-00330 concernenti iniziative volte a garantire il diritto allo studio .

6. Discussione della Relazione della Giunta per le autorizzazioni sulle richieste di deliberazione in materia di insindacabilità, ai sensi dell'articolo 68, primo comma, della Costituzione, nell'ambito di un procedimento penale nei confronti di Vittorio Sgarbi (deputato all'epoca dei fatti). (Doc. IV-ter, n. 3-A)

Relatrice: DONDI.

7. Discussione della Relazione della Giunta per le autorizzazioni sulla richiesta di deliberazione in materia di insindacabilità, ai sensi dell'articolo 68, primo comma, della Costituzione, nell'ambito di un procedimento civile nei confronti di Vittorio Sgarbi (deputato all'epoca dei fatti). (Doc. IV-ter, n. 8-A)

Relatrice: CAVANDOLI.

8. Seguito della discussione del disegno di legge:

Disposizioni in materia di lavoro (Testo risultante dallo stralcio, disposto dal Presidente della Camera, ai sensi dell'articolo 123-bis, comma 1, del Regolamento, e comunicato all'Assemblea il 28 novembre 2023, degli articoli 10, 11 e 13 del disegno di legge n. 1532). (C. 1532-bis-A​)

Relatrice: NISINI.

9. Seguito della discussione della proposta di legge:

CHIESA ed altri: Riconoscimento del relitto del regio sommergibile " Scirè " quale sacrario militare subacqueo. (C. 1744​)

Relatrice: CHIESA

10. Seguito della discussione delle mozioni Richetti ed altri n. 1-00316, Appendino ed altri n. 1-00327 e Grimaldi ed altri n. 1-00328 concernenti iniziative per il rilancio produttivo e occupazionale degli stabilimenti italiani di Stellantis .

11. Seguito della discussione delle mozioni Ghirra ed altri n. 1-00326 e Quartini ed altri n. 1-00329 concernenti iniziative in materia di parità di genere, con particolare riguardo alle condizioni lavorative, economiche e sociali delle donne .

12. Seguito della discussione della proposta di inchiesta parlamentare:

BICCHIELLI ed altri: Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sul rischio idrogeologico e sismico del territorio italiano, sull'attuazione delle norme di prevenzione e sicurezza e sugli interventi di emergenza e di ricostruzione a seguito degli eventi calamitosi verificatisi dall'anno 2019. (Doc. XXII, n. 31-A)

Relatrice: SEMENZATO.

La seduta termina alle 17,25.