Legge Pinto: questione di legittimità costituzionale
20 febbraio 2014
Il Consiglio di Stato, con ordinanza 17 febbraio 2014, n. 754, ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della legge n. 89 del 2001 (c.d. legge Pinto), che prevede un'equa riparazione in caso di violazione del termine di ragionevole durata del processo, nella parte in cui dispone che «l'erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene nei limiti delle risorse disponibili» (art. 3, comma 7).
La vicenda giudiziaria che ha determinato l'ordinanza di rimessione scaturisce dall'appello proposto dal Ministero della Giustizia contro undici sentenze del TAR, che condannavano l'amministrazione a pagare in sede di giudizio di ottemperanza, ulteriori somme a titolo di penalità di mora (ai sensi dell'art. 114, comma 4, lettera e), del c.d. Codice del processo amministrativo di cui al d.lgs. n. 104 del 2010), per non aver la stessa amministrazione della giustizia dato tempestivamente esecuzione ai provvedimenti giurisdizionali che imponevano l'indennizzo per violazione del termine di ragionevole durata del processo.
Secondo il Consiglio di Stato, la disposizione che consente il pagamento nel limite delle risorse disponibili configura una sorta di «legittimo impedimento» all'immediata corresponsione dell'indennizzo da eccessiva durata del processo che incide anche sulla penalità di mora. Infatti, il ritardo dell'Amministrazione risulta giustificato ogni qual volta l'amministrazione «alleghi e comprovi che il ritardo nell'ottemperare al decisum giurisdizionale è ascrivibile alla indisponibilità in bilancio di risorse, essendo difficile negare che tale circostanza integri valida "ragione ostativa" all'immediata esecuzione». Tale previsione, peraltro, contrasta con l'articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e con l'interpretazione che ne dà la Corte di Strasburgo, secondo cui il tempo per il pagamento dell'indennizzo fa parte del processo stesso, e quindi va computato ai fini del rispetto da parte dello Stato del diritto fondamentale alla durata ragionevole dell'iter processuale. Mentre la carenza di risorse «non costituisce ex se idoneo fattore giustificativo del ritardo dello Stato».
Non potendo il giudice amministrativo procedere a diretta disapplicazione della norma nazionale, la questione della compatibilità dell'art. 3, comma 7 della legge Pinto con l'art. 6 della Convenzione EDU, e dunque con l'art. 117, primo comma, della Costituzione, che impone al legislatore di rispettare i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, viene sottoposta alla Corte costituzionale.
Alla Consulta il Consiglio di Stato ricorda che comunque il principio dell'equilibrio di bilancio - ora affermato dall'art. 81 della Costituzione - e del quale la disposizione della Legge Pinto può dirsi attuazione, potrebbe rappresentare un principio fondamentale del diritto interno, suscettibile di escludere l'idoneità della previsione della Convenzione europea a fungere da "norma interposta" del parametro ex art. 117, comma 1, Cost. Ormai esisterebbe «un complesso di principi, di rango costituzionale e comunitario, in virtù dei quali ben potrebbe astrattamente predicarsi l'illegittimità di una regola di valore sub-costituzionale – quale è, secondo il costante orientamento della Corte costituzionale, il valore delle norme della CEDU – alla stregua della quale affermare l'obbligo dell'Amministrazione di reperire sempre e in qualsiasi momento, se necessario anche attraverso variazioni di bilancio, le risorse finanziarie necessarie ad assolvere agli obblighi indennitari derivanti dalle decisioni di condanna per eccessiva durata del processo ai sensi della legge nr. 89 del 2001».
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