Sulla pubblicità dei lavori:
Invernizzi Cristian , Presidente ... 3
Audizione del Prof. Antonio Saitta, Professore di diritto costituzionale presso l'Università di Messina, del Prof. Gianfranco Viesti, Professore di economia applicata presso l'Università di Bari e della Prof.ssa Barbara Randazzo, Professoressa di diritto pubblico presso l'Università degli Studi di Milano, su attuazione e prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione:
Invernizzi Cristian , Presidente ... 3
Randazzo Barbara , professoressa di diritto pubblico presso l'Università degli Studi di Milano ... 3
Invernizzi Cristian , Presidente ... 8
Saitta Antonio , professore di diritto costituzionale presso l'Università di Messina ... 8
Invernizzi Cristian , Presidente ... 11
Viesti Gianfranco , professore di economia applicata presso l'Università di Bari ... 11
Invernizzi Cristian , Presidente ... 14
Russo Paolo (FI) ... 14
De Menech Roger (PD) ... 14
Errani Vasco ... 15
Presutto Vincenzo ... 16
Invernizzi Cristian , Presidente ... 17
Viesti Gianfranco , professore di economia applicata presso l'Università di Bari ... 17
Invernizzi Cristian , Presidente ... 17
Saitta Antonio , professore di diritto costituzionale presso l'Università di Messina ... 17
Invernizzi Cristian , Presidente ... 19
Randazzo Barbara , professoressa di diritto pubblico presso l'Università degli Studi di Milano ... 19
Errani Vasco ... 19
Randazzo Barbara , professoressa di diritto pubblico presso l'Università degli Studi di Milano ... 19
Invernizzi Cristian , Presidente ... 21
ALLEGATO: Documentazione prodotta dagli auditi ... 22
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
CRISTIAN INVERNIZZI
La seduta comincia alle 8.30.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-TV della Camera dei deputati.
Audizione del Prof. Antonio Saitta, Professore di diritto costituzionale presso l'Università di Messina, del Prof. Gianfranco Viesti, Professore di economia applicata presso l'Università di Bari e della Prof.ssa Barbara Randazzo, Professoressa di diritto pubblico presso l'Università degli Studi di Milano, su attuazione e prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione, ai sensi dell'articolo 5, comma 5, del Regolamento della Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale, del professor Antonio Saitta, professore di diritto costituzionale presso l'Università di Messina, del professor Gianfranco Viesti, professore di economia applicata presso l'Università di Bari, e della professoressa Barbara Randazzo, professoressa di diritto pubblico presso l'Università degli studi di Milano, su attuazione e prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione.
L'occasione è particolarmente significativa, in ragione del lavoro che la Commissione sta svolgendo in tema di attuazione dei princìpi di autonomia degli enti territoriali locali e del relativo regime finanziario e sui temi delle iniziative in atto relative all'attuazione dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione.
Nel ringraziarvi per la disponibilità dimostrata, cedo quindi la parola alla professoressa Randazzo per lo svolgimento della sua relazione.
BARBARA RANDAZZO, professoressa di diritto pubblico presso l'Università degli Studi di Milano. Grazie, presidente, dell'invito. Visti i tempi ristretti dell'incontro, colgo immediatamente l'occasione innanzitutto per inquadrare la problematica del regionalismo differenziato e poi cercherò di soffermarmi soltanto su alcuni aspetti che mi paiono quelli più critici, sorvolando, invece, su altri che pure avevo preparato, poiché i tempi probabilmente non consentono il necessario approfondimento.
Mi sembra essenziale, prima di affrontare il tema del regionalismo differenziato e, dunque, quale regionalismo differenziato, contestualizzarlo. Quando parliamo di regionalismo oggi dobbiamo fare i conti su cos'è oggi il regionalismo e dobbiamo anzitutto muovere dalla premessa che il modello binario evidentemente è un modello che, per quanto ab origine necessario per una serie di ragioni storiche e non solo, oggi probabilmente mostra i segni della sua vetustà e, quindi, naturalmente questo diventa un punto essenziale.
Procedo veramente per flash, tanto sono tutte cose ben note. Il secondo aspetto è la mancata attuazione della riforma costituzionale n. 3 del 2001 in via legislativa, Pag. 4perché, come sappiamo, quella riforma, che fu una riforma veramente epocale, la più significativa della Costituzione, di fatto venne poi abbandonata dal legislatore, il quale di per sé ritornò a fare altro rispetto, invece, a un processo che avrebbe richiesto anni di attuazione. Ricordiamo quello che fu della legge la Loggia, una delle poche leggi di attuazione, che a sua volta rinviava. Ritornerò su questo punto.
Questo ha determinato una sorta di riscrittura del Titolo V da parte della Corte costituzionale. Sulla giurisprudenza costituzionale distinguerei due fasi: la prima fase che rientra nel contenzioso costituzionale 2002-2007, che fu la fase in cui si mise in discussione soprattutto la problematica dell'attuazione della prima riforma, quella degli organi, degli statuti. Già lì la Corte costituzionale penalizzò molto questo aspetto. La seconda fase è quella del riaccentramento dovuto alla crisi del 2008, quando ci fu di fatto una ricentralizzazione del disegno.
Ricordiamo poi la riforma mancata del 2016, che pure interveniva fortemente sul tema, e, non ultima, la legge Delrio, che evidentemente è una legge fatta in attesa della riforma costituzionale, che ha fortemente compromesso il quadro delle relazioni soprattutto tra la regione e gli enti territoriali, ma che anche in questa partita svolge un ruolo non di poco conto.
Fatta questa premessa di contesto, un altro elemento fondamentale è chiarire quando si parla di regionalismo differenziato a che cosa si fa riferimento, perché molto spesso si confonde la specialità con il regionalismo differenziato. Su questo punto vorrei spendere una parola su un dibattito che mi pare determinato dal fatto che – a meno che anche l'Abruzzo abbia richiesto l'autonomia differenziata – siamo a quattordici su quindici regioni di diritto ordinario che hanno fatto istanza, formalizzata o meno, di autonomia differenziata. Allora il tema è: la realizzazione di questo disegno di regionalismo differenziato si avrà quando tutte le regioni avranno ottenuto l'autonomia differenziata? Questo è il modello? Questo è il primo punto.
Mi pare che in questo dibattito ci siano una serie di fraintendimenti. Il primo è sulla concezione del principio di eguaglianza, che sembra implicare sempre una completa uniformità in maniera assoluta, mentre sappiamo bene – e la giurisprudenza costituzionale ce lo insegna – che l'eguaglianza è un concetto relativo e, dunque, occorre distinguere dove va distinto. Un ennesimo fraintendimento è con riferimento al principio di solidarietà, che non deve essere messo in discussione in modo assoluto e non può essere messo in discussione, perché è un principio fondamentale recato dall'articolo 3, ma che non può essere letto senza la responsabilità che ne discende. Dunque: eguaglianza sempre relativa, solidarietà, responsabilità.
In questo quadro, è evidente che non si possono non porre delle condizioni per accedere a questo regionalismo differenziato e la condizione, determinata proprio dai contenuti dell'intesa, mi pare che sia quella della virtuosità, cosa che del resto la riforma del 2016, infatti, inseriva modificando il testo e richiedendo appunto la virtuosità dell'ente. Questo è necessario per la stretta correlazione che intercorre tra le ulteriori forme di autonomia, l'articolo 119 della Costituzione e il tema delle risorse. Se il tema delle risorse è cruciale, come sappiamo – poi ci tornerò – è evidente che la conditio della virtuosità non può essere elusa in alcun modo.
Un altro fraintendimento viene dal principio di unità e indivisibilità dell'articolo 5, perché certamente le esigenze unitarie debbono essere salvaguardate e qui non si deve minimamente parlare di secessionismo o di altro, che qui non ha nessun tipo di cittadinanza e non può avere un contorno costituzionale, ma ricordiamoci che l'articolo 5 è espressione di una novità assoluta per i padri costituenti: la valorizzazione del pluralismo istituzionale. Il pluralismo istituzionale è autonomia, non mero decentramento. Questo è un altro punto essenziale.
Oggi mi pare che il 116 ci consegni, almeno in questa fase di attuazione, la possibilità di realizzare un regionalismo a geometria variabile, in cui avremo lo statuto Pag. 5 delle ordinarie e continueremo ad avere delle regioni ordinarie, perché non hanno raggiunto ancora – quando l'avranno raggiunto potranno accedervi – il secondo livello di regioni ad autonomia differenziata, e poi le regioni speciali. Sulle speciali ci sarebbe da fare un discorso a parte, ma evidentemente qui non abbiamo il tempo di farlo.
Certamente il dibattito che è in corso non può non farci riflettere sul fatto che qualcuno in realtà pensa che il 116, terzo comma, sia di per sé incostituzionale, ovvero ponga dubbi di costituzionalità. Dobbiamo dircelo. I parametri potrebbero essere tanti: per esempio il 3; il 5, letto nella chiave che vi dicevo, cioè unilaterale, soltanto unità; e poi, riprendendo osservazioni di Leopoldo Elia, problematiche sotto il profilo del 138, considerato che il 116, terzo comma, consentirebbe secondo questa impostazione di modificare il riparto di competenze ex articolo 117 della Costituzione.
Non entro ovviamente nel merito. Sarebbe interessante discutere di queste problematiche, ma evidentemente qui il dibattito politico prende il sopravvento rispetto ai profili squisitamente tecnici che, invece, ci sono affidati, almeno spero, in questo contesto.
Veniamo al processo in atto. Sarò veramente molto schematica sulle osservazioni. Non si può eludere anzitutto la problematica legata agli aspetti procedurali, che sono evidentemente essenziali, perché la procedura sicuramente implica anche garanzie di carattere sostanziale, in assenza di una legge di attuazione del 116, terzo comma.
Avevamo uno schema di disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri del 2007 (Governo Prodi), che in realtà è stato in parte seguito anche dal Governo Gentiloni e poi dall'attuale Governo, quantomeno nelle sue linee essenziali, prima per definire gli accordi preliminari e oggi per definire le bozze che sono state depositate nel febbraio 2019.
Certo è che, però, sono veramente elementi molto essenziali. L'unico punto di riferimento normativo è il ben noto articolo 1 della legge di stabilità, che però chiarisce un aspetto essenziale, visto il dibattito alquanto confuso: l'iniziativa è un'iniziativa regionale. Si parla di obbligo quantomeno di avvio del procedimento, non ovviamente di obbligo di conclusione.
L'individuazione dei soggetti è abbastanza evidente. Per le regioni la definizione resta appannaggio degli Statuti, per lo Stato del Governo e del Ministro degli affari regionali. Per quanto concerne la modalità di negoziazione sarebbe interessante vedere in concreto come viene fatta questa istruttoria, ma certamente è trilaterale. Non coinvolge soltanto il Ministro per gli affari regionali e la sua struttura, ma anche i vari ministeri competenti e la parte regionale. Un ruolo fondamentale evidentemente è quello del Ministero dell'economia. Se c'è tempo, anche questo aspetto della modalità di negoziazione forse meriterebbe qualche approfondimento in più.
Dunque, è un ruolo solo degli esecutivi? Veniamo un po’ al cuore di questa questione, vista la sede in cui ci troviamo a discutere. Evidentemente questo è un profilo problematico: non si può affidare tutto soltanto agli esecutivi, da un lato alla giunta e dall'altro allo Stato. È evidente che c'è la necessità di coinvolgere da un lato i consigli e gli enti territoriali minori, oltre ad altri soggetti, e dall'altro lato il Parlamento.
Non mi soffermo sul lato regionale, perché l'ho fatto per la regione Lombardia. Mi soffermo, invece, sul lato del necessario coinvolgimento del Parlamento. Lo faccio prima ancora di ragionare sul rapporto formale legge-intesa, sul quale tornerò in seguito. Mi pare che sia essenziale questo ruolo, da affidare a delle Commissioni parlamentari, che sono quelle già esistenti, senza doversi sempre inventare qualcosa di nuovo. Io vedo in questo disegno il ruolo fondamentale di questa Commissione per l'attuazione del federalismo fiscale naturalmente, che deve essere valorizzato senza pensare a commissioni paritetiche, che non ho capito bene quali contorni avranno. Mi pare centrale il ruolo di questa Commissione, così come il ruolo della Commissione per le questioni regionali.
Naturalmente la cosa migliore – ma come sempre l'ottimo può essere nemico Pag. 6del bene, quindi mi accontenterei della Commissione questioni regionali – sarebbe che questa Commissione fosse integrata con i rappresentanti regionali, come previsto del resto dall'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, anche questa inattuata.
Questo sarebbe il momento per rimettere in campo questo tipo di attuazione. Secondo me, uno dei problemi centrali di tutto il contenzioso costituzionale è stata proprio l'assenza di un raccordo politico nelle sedi proprie. Dove lo facciamo? In Conferenza Stato-regioni? Su questo dovremmo aprire un bel discorso, perché certamente adesso c'è tutta la polemica sul fatto che facciamo fare agli esecutivi questa attività di negoziazione e di raccordo, ma è così dal 2001 in poi. Da quando questa commissione non è stata istituita, è chiaro che tutti i raccordi si sono sempre giocati sul piano degli esecutivi e forse è il caso che, invece, si riporti in Parlamento un ruolo fondamentale come sede di raccordo e si rimettano un po’ in discussione i confini tra il sistema delle conferenze e il ruolo dei Parlamenti.
Questo evidentemente è un discorso che sta alla base della valutazione in concreto del rapporto legge-intesa, che naturalmente è un altro discorso, ma che ha sullo sfondo questo problema. Il rapporto legge-intesa che cosa ci impone? Anche su questo tema molti sarebbero gli aspetti da approfondire, però procediamo anche in questo caso per flash, partendo dal problema dell'attribuzione. L'attribuzione delle ulteriori forme di autonomia non può che essere fatta dalla legge, perché questo dice il testo del 116. Non è l'intesa che attribuisce, ma è la legge, quindi ci deve essere una legge, questo è fuor di dubbio.
Il problema cruciale è il rapporto tra l'intesa e questa legge e su questo la dottrina si è scatenata nell'individuare tutte le possibili alternative. È un po’ defatigante seguire l'evoluzione della dottrina. Certamente c'è chi dice che è una legge di mera esecuzione, quindi l'intesa definisce tutto e poi il Parlamento ratifica, in quella forma appunto della mera ratifica, il che vuol dire articolo 1, ratifica alla stregua dei trattati, intesa allegata e nessun potere di emendamento del Parlamento. Mi pare veramente un po’ troppo questa tesi. Chiaramente come sempre è una forzatura.
Altro è dire che c'è un metodo, che è quello della negoziazione, che deve essere salvaguardato e che evidentemente impone al Parlamento, nel momento in cui non dovesse essere d'accordo con uno o più oggetti specifici dell'intesa, una rinegoziazione sugli specifici punti. Anche questo ragionamento dell'emendabilità va condotto tenuto presente l'oggetto specifico del contendere, non in generale, perché discutere in generale spesso può diventare un ambito problematico e dare luogo a una pluralità di fraintendimenti.
Mi pare che il modello sia il modello delle intese ex articolo 8, terzo comma, quelle con le confessioni diverse dalla cattolica, mutatis mutandis naturalmente, non stiamo parlando dal punto di vista dei contenuti della stessa cosa. Fa benissimo chi distingue le confessioni religiose dalle regioni, è fuor di dubbio che non stiamo parlando della stessa cosa. Le confessioni religiose non sono enti territoriali, su questo siamo tutti d'accordo. Una cosa è dire che sono soggetti diversi, altro è dire che la procedura e le problematiche che nel tempo si sono poste per dare attuazione, sono risultate enormi... Ricordiamo che per arrivare alle intese del 1984 di cammino se ne è dovuto fare, non solo politico, ma anche con riferimento alle procedure. Quello può essere un buon modello.
Il modello alternativo della legge delega è un modello molto problematico, perché scardina l'assetto costituzionale del 116, terzo comma. Infatti, se l'attribuzione deve essere fatta dalla legge, è chiaro che non posso con la legge limitarmi a porre dei princìpi e far fare l'attribuzione ad altro atto.
Nelle intese o nelle interpretazioni delle intese – questo non lo so – pare esserci una confusione tra due piani: quello dell'attribuzione e quello, invece, del trasferimento delle funzioni. Un conto è l'attribuzione, che – ripeto – non può che essere in legge, un conto è il trasferimento. Il trasferimento (articolo 4) può essere fatto Pag. 7anche con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. Non vedo nelle intese il rischio che l'attribuzione venga fatta nel decreto del Presidente del Consiglio. A oggi il testo mi dice che io ho delle disposizioni generali (il primo titolo) e sto aspettando di leggere il titolo secondo, in cui ci sarà la parte speciale con le declinazioni. Non mi aspetto che la bozza d'intesa si concluda con la parte generale e che, invece, come qualcuno pure ha sostenuto, venga poi rinviata ai decreti del Presidente del Consiglio l'individuazione e l'attribuzione delle funzioni. Tuttavia, devo dire che dal punto di vista formale è improprio il titolo dell'articolo 4 che parla di competenze attribuite, mentre qui il problema è quello del trasferimento, quindi anche dal punto di vista terminologico forse si potrebbe fare qualche pulizia.
Vorrei spendere qualche parola sul tema della durata, che è venuta meno. Mi pare evidente che ci debbano essere dei meccanismi di verifica, da meglio ponderare, rispetto alla tempistica e ai soggetti preposti a questa verifica.
Faccio un'osservazione molto rapida sul tema dell'articolo 2, ovvero dell'individuazione delle materie. A me pare che a oggi tutto il dibattito sia veramente prematuro, perché non sappiamo in realtà di quali tipi di autonomia si tratta. Infatti, come sappiamo bene, istruzione, lavoro eccetera sono titoli di materia; ciò che conta, invece, è il contenuto, che si definisce attraverso l'indicazione di che cosa mettiamo dentro. Anche su questo c'è il ruolo del Parlamento. Perché il Parlamento non ha mai definito le materie del 117? Potrebbe essere questa l'occasione in cui il Parlamento, almeno sulle materie oggetto di discussione, definisca il perimetro delle materie in generale, così da agevolare il processo di differenziazione?
Vengo ora al tema delle funzioni e delle risorse finanziarie. Non entro nel dettaglio, perché altrimenti sarebbe problematico. Mi pare che comunque per il momento il testo non ponga problemi di carattere generale, finché non saranno declinate una serie di altre questioni. Credo che sotto questo profilo il ruolo della Commissione parlamentare di attuazione del federalismo debba essere centrale. Non condivido, invece, il fatto che la determinazione delle risorse possa essere fatta da questa Commissione paritetica ad hoc. Può fare proposte eventualmente, ma certamente la determinazione non può esaurirsi nella Commissione paritetica.
Un altro elemento problematico, infine, è l'articolo 7 dell'intesa sui rapporti tra legislazione statale e regionale. Mi pare che possa diventare foriero dell'accrescimento di ulteriore contenzioso costituzionale il rimettere alla sola legge regionale la definizione delle disposizioni statali delle quali cessa l'efficacia a seguito dell'entrata in vigore della legge di attuazione del 113. Sulla decorrenza non c'è nessun problema, ma sull'individuazione delle disposizioni statali forse bisogna fare una riflessione ulteriore.
Concludo. Mi pare che oggi, al di là delle questioni tecniche... Infatti, noi siamo bravi a istruire tecnicamente qualunque soluzione, sempre nel rispetto del quadro costituzionale, perché dentro quel quadro ci stiamo muovendo e ripeto che il secessionismo non ha nessun tipo di cittadinanza nel ragionamento che si sta conducendo qui.
Il regionalismo differenziato impone che la politica ci faccia sentire la sua voce, in primo luogo che prenda atto della crisi dell'attuale regionalismo, determinata dalle cause che ho esposto nella parte introduttiva di contesto, e in secondo luogo che ci faccia comprendere quali determinazioni ha sul regionalismo. Ci crede? Non ci crede? Quel disegno costituzionale che valorizzava il pluralismo istituzionale è un disegno sul quale si vuole ancora investire e a cui si vuole dare slancio? Se è così – e lo chiedo a voi, non posso essere io a indicarvi la direzione – se ancora si ritiene che il pluralismo istituzionale sia fondamentale per questo Paese, per le sue dinamiche interne e nei suoi rapporti con l'Europa, se questa è la determinazione, allora mi pare che il passaggio di maturità che deve essere fatto nelle diverse stagioni del regionalismo oggi sia quello di dire: regionalismo sì, ma non senza se e senza ma, un regionalismo Pag. 8che appunto coniughi le esigenze di differenziazione e di solidarietà sicuramente, ma anche di responsabilità. Questo mi pare che sia essenziale. I termini che debbono essere tenuti sempre in relazione, secondo me, sono responsabilità e competenza, dove il termine competenza è da intendersi in vari modi, e solidarietà e responsabilità.
PRESIDENTE. Grazie, professoressa. Ovviamente qualunque contributo scritto, anche successivo all'audizione, sarà ben accetto dalla Commissione.
Do la parola al professor Saitta per lo svolgimento della sua relazione.
ANTONIO SAITTA, professore di diritto costituzionale presso l'Università di Messina. Grazie, presidente. Buongiorno a tutti. Anch'io ringrazio lei e la Commissione per l'invito.
Partirò proprio dalle parole finali della collega Randazzo, cioè dalla crisi del regionalismo, che è un fatto conclamato da sempre nelle vicende del nostro autonomismo.
Stiamo discutendo di un processo, quello del regionalismo differenziato, di fondamentale importanza, perché può servire appunto a superare la crisi endemica del regionalismo italiano e, quindi, può essere un'occasione preziosa per rilanciare la ragione profonda dell'istituzione delle regioni, che era quella di mitigare le differenze economiche e sociali del Paese. Di contro, se affrontato in termini disallineati con la funzione delle ragioni profonde originarie che sono nella stessa storia della nascita della Repubblica e, se vogliamo, anche delle vicende unitarie, può, invece, diventare occasione per acuire le differenze del Paese, che peraltro negli ultimi anni già hanno registrato una forte divaricazione.
Il dibattito che si sta affrontando soffre notevolmente per una scarsezza di informazioni e di documenti messi a disposizione, non solo dell'opinione pubblica, ma anche dello stesso legislatore.
Questo non trae, secondo me, piena giustificazione dalla scelta – su questo forse non sono del tutto d'accordo – del riferimento che fu fatto con le pre-intese del febbraio 2018 all'applicazione dell'articolo 8 della nostra Costituzione, cioè mutuare il procedimento per l'approvazione delle intese con le confessioni religiose diverse dalla cattolica.
Infatti, qui noi stiamo discutendo dei rapporti con dei soggetti che non sono originari, anzi non sono neanche interni nel caso delle confessioni religiose. Non sono enti originari e sono enti esterni allo Stato, mentre qui invece stiamo discutendo dei rapporti con le regioni, che sono enti di autonomia interni allo Stato stesso, per i quali il principio della negoziazione è insito proprio in quanto previsto nell'articolo 116 della nostra Costituzione. Su questo tornerò.
Veniamo al ruolo del Parlamento. Io credo che il Parlamento non possa essere tenuto nella condizione di mero controllore o promotore finale delle intese, senza avere nessuna possibilità di incidere sulle scelte contenutistiche, anche perché il disegno che sta venendo fuori sia dalle pre-intese del 2018 sia dalla bozza che è conosciuta di febbraio 2019 sostanzialmente esclude il Parlamento sia ex ante sia ex post. Infatti, ex ante tutta la fase della negoziazione e della determinazione delle intese, giungendo in Parlamento in termini sostanzialmente di inemendabilità, è gestita dagli esecutivi regionali e dal Governo. Nella fase successiva tutti i provvedimenti concretamente attuativi dovrebbero avere, in base a quello che si legge, la forma del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri e questo appunto esclude ogni possibilità di incidere sui contenuti. Peraltro, la forma del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri pone altre criticità, che adesso vedremo.
Anche un'eventuale ipotesi di richiedere un parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali rischia di riservare al Parlamento un ruolo puramente consultivo e non, invece, pienamente rappresentativo della comunità nazionale. Peraltro, teniamo presente che il rapporto bilaterale tra Stato e regioni in questo caso è un rapporto inadeguato, perché in realtà sono scelte che vanno a incidere sulla forma di Stato e sull'intera configurazione del Pag. 9regionalismo, quindi è inevitabile che siano prese in considerazione degli interessi generali del Paese e anche degli interessi delle altre regioni. Infatti, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti finanziari, ma non soltanto, le scelte che vengono fatte in tema di assegnazione di risorse inevitabilmente hanno delle refluenze per quanto riguarda tutto il resto del Paese.
Io credo che forse, per rivitalizzare e per dare il giusto ruolo al Parlamento in questo fondamentale processo, si potrebbe recuperare un'esperienza che, per dire la verità, fu a suo tempo criticata dalla dottrina (ad esempio da Martinez), che fu quella seguita nei primi anni 1970 in occasione dell'approvazione degli statuti regionali.
Prima della riforma del 1999 l'articolo 123 della Costituzione assegnava alla legge dello Stato il compito di approvare gli statuti delle regioni ordinarie. Anche in quel caso la lettura della norma costituzionale sembrava dare al Parlamento un ruolo di controllore finale di statuti che venivano predisposti dai consigli regionali e che il Parlamento avrebbe potuto soltanto approvare o respingere in blocco. La prassi, invece, fu diversa, perché proprio in sede di commissione il Parlamento allora instaurò un vero e proprio confronto tra il Governo e le singole regioni e quest'ultime, per non andare incontro a possibili bocciature dei loro statuti, ritennero di modificare i contenuti degli statuti stessi.
Ripeto che la dottrina al tempo criticò questa prassi come una forma di limitazione dell'autonomia regionale, ma in realtà a me pare che sia un'esperienza che potrebbe essere recuperata, perché nel caso del 116 la forma della trattativa è insita nello stesso disegno costituzionale. Mentre nel caso dell'approvazione degli statuti era la prima e primigenia manifestazione dell'autonomia regionale, qui si tratta, invece, di stabilire i rapporti e i contenuti dei rapporti fra le singole regioni e lo Stato. Pertanto, un confronto trilaterale aperto tra governo, regioni e Parlamento in sede di commissione, secondo me, potrebbe essere un'esperienza, non solo utile per ridare l'assoluta centralità che secondo me il Parlamento deve avere quale luogo di rappresentanza degli interessi generali del Paese, ma anche per arricchire il contenuto delle intese e della successiva legge di una valutazione complessiva e generale.
Poc'anzi parlavo della forma del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri per dare concreto contenuto e sostanza alle intese. È una scelta estremamente problematica questo tipo di atto, perché il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri esclude totalmente il Parlamento, ma esclude anche i controlli da parte del Presidente della Repubblica, in quanto tale decreto non passa per la firma del Presidente della Repubblica e successivamente della Corte costituzionale. Infatti, il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri non è neanche atto che può andare incontro al giudizio di legittimità costituzionale, se non nell'ipotesi, abbastanza teorica, del conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato.
Di conseguenza, sostanzialmente noi avremmo un processo di trasferimento di competenze, risorse e beni strumentali che bypassa tutta la filiera dei controlli costituzionali e che viene gestito dal Governo e dalle regioni, anzi neanche dal Governo, perché, per come sono configurati i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, dovrebbero essere provvedimenti interministeriali, che non vanno neanche in Consiglio dei ministri, ma sono affidati al Presidente del Consiglio dei ministri e ai singoli ministri che sono di volta in volta interessati.
Questa mi pare una procedura fortemente lesiva, non solo della visione generale dell'interesse nazionale, ma anche delle attribuzioni dei singoli poteri dello Stato, che, peraltro, andrebbe rimeditata alla luce di una lettura sistematica della Costituzione.
Faccio solo una battuta per quanto riguarda gli elenchi delle materie, che poi vanno riempiti di contenuti. Francamente, almeno da quello che abbiamo letto nelle bozze di accordo di febbraio, ci sono molti dubbi di opportunità e altre volte di vera e propria legittimità costituzionale. Penso alla produzione, al trasporto e alla distribuzione nazionale dell'energia, che saranno Pag. 10assegnati alle singole regioni. Penso alle grandi reti nazionali di trasporto e di navigazione. Mi domando se l'Autostrada del sole o una linea ad alta velocità possano essere realizzate con un frazionamento di competenze da parte di singole regioni. Penso ai porti e agli aeroporti civili, all'ordinamento della comunicazione, alle professioni. Se una regione disciplina una determinata attività professionale, mi domando come, anche in base al principio della libera circolazione, non solo europeo ma anche nazionale, la disciplina dettata da una regione su una professione possa poi essere applicata nelle altre diciannove. Gli esempi potrebbero continuare.
Sul piano amministrativo c'è un altro elemento di fortissima criticità: mi pare ribaltato il principio di sussidiarietà verticale (quello orizzontale è totalmente non menzionato) per quanto riguarda il trasferimento delle funzioni amministrative. Voi sapete che secondo l'articolo 118 le funzioni di competenza delle regioni sono attribuite ai comuni, alle province e alle città metropolitane in base al principio di sussidiarietà. Le bozze che sono note, invece, prevedono che per le materie oggetto di trasferimento di competenza le competenze amministrative sarebbero tutte regionali e poi le regioni potrebbero, con una propria legge, trasferirle ai comuni. Pertanto, noi avremmo per la generalità delle competenze delle regioni potestà amministrativa dei comuni; per le nuove materie, invece, avremmo un neocentralismo regionale e poi eventualmente le regioni (ma è di là da venire) potrebbero a loro volta trasferire. I conflitti di competenza, con tutto quello che ne deriva in termini di disorganizzazione e di lungaggini amministrative, sono sotto gli occhi di tutti.
C'è poi il problema della durata delle intese. Il 116 non vi fa riferimento. Le bozze del febbraio 2018 prevedevano una durata decennale, sparita invece nelle bozze successive. In generale io vedo un grande problema di coordinamento fra le due bozze, perché non si capisce esattamente che fine fanno quelle del 2018 in riferimento a quelle successive ed è un problema non da poco.
Io non credo, però, che dalla lettura sistematica della Costituzione il regionalismo differenziato del 116 possa essere un trasferimento sine die, perché, se fosse un trasferimento sine die – lasciamo stare se poi dovesse riguardare tutte le quindici regioni, perché è partita, com'era prevedibile, una corsa alla differenziazione da parte praticamente di tutte le regioni – noi realizzeremmo in sostanza una sorta di ulteriore specialità, il che è possibile, al netto che la specialità nasce da ragioni storiche ben individuate.
Se si vuole creare un regime speciale di autonomia permanente e a sistema di alcune regioni, lo si può benissimo fare, ma lo si deve fare seguendo la procedura della specialità, cioè uno statuto approvato con legge costituzionale, ammesso che ve ne siano le condizioni.
Perché dico questo? Perché, se così non fosse, per le tre regioni delle quali stiamo discutendo noi avremmo uno statuto di autonomia più favorevole rispetto a quello delle regioni speciali. Infatti, mentre per le cinque regioni speciali la loro autonomia deriva da un atto unilaterale dello Stato, una legge costituzionale che può essere discussa ed emendata in Parlamento, come è naturale che sia, da parte dei rappresentanti di tutto il Paese, per quanto riguarda le tre regioni la loro speciale – fatemelo dire – autonomia sarebbe frutto di una negoziazione. Pertanto, le tre regioni, come si sta registrando, avrebbero una maggiore forza rispetto a tutte le altre.
Non entro nel merito delle considerazioni relative al trasferimento delle risorse. Sono state fatte numerose osservazioni. Ho letto, ad esempio, quelle della SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno), che mi sembrano condivisibili, così come quelle sull'uso improprio che si fa del concetto di residuo fiscale in alcuni dibattiti.
C'è, però, certamente il tema solidaristico. C'è un punto che mi fa sorgere particolari perplessità, cioè la previsione che in nessun caso le tre regioni interessate potrebbero ottenere fondi, per soddisfare i fabbisogni standard, in misura inferiore al valore medio pro capite. Pertanto, per le tre Pag. 11regioni si andrebbe dal valore medio in su. Ciò significa che si istituzionalizza che per altre dodici regioni è possibile avere dal valore medio in giù, perché, se i saldi devono essere quelli, noi avemmo l'istituzionalizzazione della possibilità che alcune regioni godano di trasferimenti inferiori alla media nazionale. Credo che questo sia un principio difficilmente compatibile con il principio di solidarietà ex articolo 2.
Concludendo, io credo che la lettura complessiva della Costituzione, in particolare del 117, secondo comma, lettera m), e del 120, secondo comma, che è poco citato in questo dibattito, imponga di procedere all'attuazione dell'articolo 116, che è tutt'altro che incostituzionale, solo dopo aver individuato i LEP (livelli essenziali delle prestazioni). Infatti, solo dopo aver individuato uno standard minimo che deve essere garantito su tutto il territorio nazionale è possibile ed è giusto differenziare singole regioni per valorizzare i loro virtuosismi, le loro specificità e le vocazioni territoriali. Ciò è possibile – lo ripeto – solo dopo aver individuato qual è lo standard da riconoscere su tutto il territorio nazionale, per evitare che il regionalismo si ribalti nel suo contrario, cioè da strumento per realizzare l'eguaglianza fra tutti i territori a strumento per enfatizzare le differenze storiche che vi sono sempre state.
Peraltro, individuare prioritariamente i LEP prima di mettere mano ai contenuti del regionalismo differenziato è anche il modo per valorizzare appieno il ruolo del Parlamento, perché i LEP devono essere individuati con legge del Parlamento, come tutti sapete, e così il Parlamento diventa, come è naturale, come è doveroso, come è costituzionale che sia, il protagonista di questo fondamentale processo che, invece, oggi ha visto la regia esclusiva del Governo.
PRESIDENTE. Grazie, professore.
Do la parola al professor Viesti per lo svolgimento della sua relazione.
GIANFRANCO VIESTI, professore di economia applicata presso l'Università di Bari. Buongiorno, grazie dell'invito e grazie per il lavoro che state facendo, perché il processo di attuazione del 116 richiede un'attenzione straordinaria.
Le esperienze di regionalismo differenziato sono poco frequenti nel quadro internazionale. Nella maggior parte dei casi mirano a garantire condizioni di particolare favore per territori meno sviluppati o con caratteristiche geografiche molto singolari.
L'esperienza spagnola, con la concessione di particolare autonomia e condizioni finanziarie favorevoli per i Paesi Baschi, che sono più ricchi della media spagnola, è stata ed è foriera di gravissima instabilità in quel Paese e ha contribuito in misura significativa alle crisi delle relazioni con la Catalogna.
La lunga esperienza italiana con le quattro regioni a statuto speciale e le due province autonome, che sono oggi i territori più ricchi del Paese, mostra rilevanti profili di criticità. Ad esempio, tra il Trentino-Alto Adige, il Friuli e il confinante Veneto vi sono sperequazioni – pensate che la spesa pubblica per studente in Trentino è del 70 per cento superiore a quella del Veneto – che sono alla base di tensioni, come vediamo dai referendum comunali.
Inoltre, come sappiamo, l'Italia è caratterizzata da profondi e crescenti divari territoriali e la crisi economica sta comportando una significativa riduzione del finanziamento di fondamentali servizi pubblici.
Alla luce di questo, le richieste di attuazione avanzate da Veneto, Lombardia ed Emilia presentano profili di criticità, che attengono a tre grandi questioni: il merito delle richieste, i meccanismi di finanziamento e i processi decisionali.
Gli ambiti potenzialmente coperti dalle intese sono straordinariamente vasti. Essi sono in grado di modificare le concrete modalità di funzionamento del settore pubblico e di erogazione dei fondamentali servizi pubblici in Italia. Perché quelle competenze a quelle regioni? In tutte e tre le bozze Stefani – gli articoli sul sito del dipartimento – si sostiene che l'attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia corrisponde a specificità proprie della regione. Tale testo è identico per Pag. 12le tre regioni e prelude, all'articolo 2, a un'estesissima elencazione di materie, che sono largamente sovrapposte.
Queste specificità sono le stesse per le tre regioni, ma dato che detto schema sarà quello adottato per ogni altra regione, viene da chiedersi se tali specificità non si possano ritrovare anche nelle altre dodici regioni a Statuto ordinario. Se l'attribuzione delle ulteriori forme di autonomia può riguardare tutte le regioni in tutti gli ambiti, perché sono tutte specifiche allo stesso modo, non stiamo assistendo a una surrettizia riforma dell'articolo 117?
Seconda domanda preliminare: perché è preferibile che tali competenze siano esercitate dalle Amministrazioni regionali piuttosto che da quelle statali? È comprensibile che gli amministratori regionali lo preferiscono, perché così aumenta il loro potere e la capacità di intermediare risorse pubbliche, ma una così estesa allocazione di poteri regionali non rischia di comprimere quelli di città, enti locali, autonomie funzionali? E soprattutto, quali vantaggi porta ai cittadini e alle imprese? Nei voluminosi dossier regionali vi sono argomentazioni molto generiche a tale riguardo, eppure il tema è decisivo.
Vi riporto un esempio. Tutte le federazioni nazionali degli ordini delle professioni sanitarie e sociali hanno chiesto al Governo di elaborare un'analisi rischi-benefici delle proposte di autonomia differenziata presentata dalle regioni, al fine di misurare l'impatto di tali riforme sulla finanza pubblica, sulla mobilità interregionale dei pazienti, sul ruolo di garante dei LEA, sui diritti dei pazienti e sull'equità dell'assistenza. I professionisti italiani della sanità sono preoccupati per i possibili impatti sulla tutela della salute, e i loro appaiono interrogativi che meritano risposte precise prima di decisioni irreversibili, interrogativi che sono riproponibili per molte altre materie, a cominciare dall'ambiente.
Infatti, le richieste sono straordinariamente estese. La regione Lombardia ha chiesto il trasferimento di 131 competenze legislative e amministrative. La sola elencazione di dettaglio degli ambiti coperti dalle richieste necessiterebbe molte decine di minuti. Basti ricordare che toccano le attività produttive e le politiche per le imprese, il diritto allo studio universitario, le zone franche, la formazione specialistica in sanità, la definizione dei farmaci, lo stesso modello di Servizio sanitario con i fondi integrativi regionali, le normative ambientali sui rifiuti, la tutela del lavoro, la previdenza complementare, le energie rinnovabili, la ricerca scientifica, il governo del territorio, delle acque e del paesaggio, le politiche dei beni culturali e dello spettacolo e la protezione civile.
Vanno segnalate almeno, in particolare, le richieste delle regioni Lombardia e Veneto di trasferire al demanio regionale alcune reti infrastrutturali. A parte gli effetti che questo potrebbe provocare sull'efficienza e sul funzionamento delle reti, è lecito chiedersi in base a quale criterio di equità la collettività nazionale dovrebbe far dono di parte del suo patrimonio, realizzato attraverso il contributo fiscale di tutti gli italiani, alle collettività regionali più ricche del Paese. Inoltre, vanno segnalati gli estesi poteri di veto che acquisirebbero le Amministrazioni regionali sulla realizzazione di infrastrutture.
Un discorso a parte merita la scuola. Le regioni Veneto e Lombardia (non l'Emilia) chiedono di regionalizzare la principale infrastruttura immateriale del nostro Paese, chiedono competenze sulle norme generali sull'istruzione, il passaggio immediato dei dirigenti scolastici alle dipendenze della regione, canali e criteri differenti di reclutamento e condizioni normative ed economiche diverse per gli insegnanti, piena libertà nel riconoscimento e nel finanziamento delle scuole paritarie. Comunque la si pensi, si tratterebbe di una scelta storica di straordinario momento per il nostro Paese, con effetti che si percepirebbero per decenni, contro la quale sono, ad esempio, unitariamente schierate tutte le organizzazioni sindacali, anche delle regioni richiedenti.
Nell'analisi del possibile impatto di questo trasferimento bisogna tener conto che, se talune competenze saranno concesse alle prime tre regioni, sarà molto difficile che le altre non le richiedano e che non vengano Pag. 13loro concesse. È difficile capire che scenario si potrà realizzare. Un esempio ci viene dalle richieste della regione Liguria, che fanno esplicito riferimento alla possibilità di determinare le tariffe autostradali e i tributi portuali, con ricadute incognite sui costi di utilizzo del porto di Genova per il sistema delle imprese, in particolare del Nordovest.
Nell'insieme, si potrebbe configurare un assetto del Paese con due province autonome, quattro regioni a Statuto speciale e altre ad autonomia differenziata, ma con ambiti differenti e con poteri e competenze centrali ritagliate ai margini. In un quadro del genere, che non si ritrova in nessun Paese del mondo, la realizzazione delle politiche pubbliche, la tutela dei diritti di cittadinanza, l'unità delle condizioni operative per le imprese potrebbero diventare problematici.
Sulle questioni finanziarie non si può non ricordare che le regioni Lombardia e Veneto (non l'Emilia) hanno mirato ad ottenere competenze e risorse pubbliche molto maggiori rispetto a quelle oggi impiegate dalle Amministrazioni centrali sul loro territorio e che nella bozza Bressa, all'articolo 4, era stabilito che i fabbisogni standard fossero parametrati in relazione al gettito dei tributi maturati sul territorio, una formulazione che statuirebbe che i cittadini che vivono nelle regioni caratterizzate da maggior reddito hanno, per questo motivo, diritto a un maggiore finanziamento dei servizi.
Tutto ciò suggerisce grandissima attenzione alle possibili ricadute finanziaria e sperequativa delle richieste regionali. Nelle bozze Stefani, pur non apparendo questi princìpi, compaiono diverse norme che possono condurre ad esiti simili, per quanto l'impatto finale – come ha detto anche il Ministro Tria – del processo rimanga largamente imprevedibile. Colpisce, da questo punto di vista, l'assenza di riferimenti alle disposizioni della legge n. 42. Colpisce che, in riferimento ai fabbisogni standard, vi sia solo un generico accenno ai LEP. La determinazione dei LEP non può che precedere quella dei fabbisogni standard, dato che le fonti di finanziamento attribuite alle regioni devono consentire l'integrale finanziamento dei LEP. La loro mancata fissazione può essere foriera di iniquità e contrasti. Garantire risorse certe ad alcune regioni prima di fissare regole valide per tutti può portare a contrasti nella stessa determinazione dei LEP, che sarà interesse egoistico delle collettività più ricche tenere al livello più basso possibile.
La definizione dei fabbisogni standard, comunque, non è esercizio semplice tecnicamente e politicamente, dato che essa – come ha detto il presidente Arachi, anche recentemente qui – si sostanzia nell'individuazione di chiavi di riparto territoriali di risorse date. Alla luce di questo, la previsione contenuta all'articolo 5.1.b delle bozze Stefani, cui si faceva cenno ora, per cui l'ammontare delle risorse assegnate, qualora non siano stati adottati i fabbisogni standard, non può essere inferiore al valore medio nazionale, è assai pericolosa. Essa determina una garanzia per alcune regioni, ma non per altre e può portare egoisticamente ad ostacolare la determinazione dei fabbisogni standard, potendo contare su una garanzia di risorse molto maggiori.
Il valore medio pro capite, infatti, è ben lungi dal rappresentare un criterio di equità. Non ho tempo per argomentare, ma nel testo che consegno alla Commissione vi è l'analisi di quello che questo comporterebbe nel settore della scuola, dove potrebbe determinare un trasferimento cospicuo di risorse alle tre regioni che hanno una spesa media pro capite inferiore, ma senza considerare che la spesa media per studente è assai diversa, senza considerare che in alcune regioni, per esempio la Calabria, la dimensione media delle classi è più piccola, quindi sono più costose perché i bambini vanno a scuola nei paesi di montagna, e senza considerare l'anzianità del personale.
Ancora, l'articolo che disciplina la dinamica del gettito dei tributi compartecipati, che se superiore alla media nazionale viene attribuito alla regione, ma non viceversa. Infine, l'articolo 6 – molto importante – sul fabbisogno per investimenti pubblici, un articolo di difficile comprensione nella sua attuale formulazione, ma Pag. 14che rischia di determinare una riallocazione di risorse da attingersi da fondi finalizzati allo sviluppo infrastrutturale del Paese a favore delle regioni richiedenti, che è opposta rispetto alle previsioni dell'articolo 119, quinto comma, della Costituzione.
Le tre regioni rappresentano il 40 per cento del PIL italiano. Garantire loro previe compartecipazioni al gettito di ampia dimensione può ridurre significativamente le risorse disponibili per il Ministero dell'economia per far fronte al debito pubblico italiano, che rimarrebbe a carico di tutti i contribuenti, e potrebbe porre tali risorse al riparo da programmi nazionali di revisione della spesa o da manovre di bilancio di emergenza, per cui si dovesse rendere necessario un forte taglio di spesa, o da decisioni politiche come conseguenza di interventi di sensibile riduzione delle aliquote. In sostanza, l'effetto combinato delle autonomie regionali differenziate e della flat tax, per stare al dibattito attuale italiano, potrebbe essere assai asimmetrico tra gli italiani.
Comunque la si pensi nel merito, si tratta di decisioni che potrebbero avere un'influenza assai rilevante sul futuro del Paese. Tale rilevanza suggerisce un processo deliberativo assai attento da parte del Parlamento, di cui tutti i cittadini siano il più possibile informati, e un esame puntuale delle bozze delle intese da parte del Parlamento con potestà di emendarle. Per esempio, per alcune delle tante richieste di carattere amministrativo, se ritenute opportune, si può procedere con legge ordinaria per le sole regioni richiedenti o per tutte le altre.
Per materie, invece, di grandissima importanza, dopo 158 anni vogliamo porre fine alla scuola pubblica nazionale italiana? Non può che essere il Parlamento a deciderlo. Il rischio principale è che le intese possano limitarsi alla mera elencazione delle materie, essendo il testo delegificato rinviato ad atti successivi elaborati in sede di Commissione paritetica e poi adottati con DPCM, come si diceva.
Il punto è che, una volta avviato il processo, è difficile prevederne l'evoluzione. Può costituire un salto nel buio per il nostro Paese. Appare, quindi, indispensabile che Governo e Parlamento ne conservino il pieno controllo, anche attraverso apposite clausole nelle intese che facciano salve le possibilità di rivederle. A quasi cinquant'anni dall'avvio del regionalismo, è certamente opportuno che il Paese tutto e il Parlamento in particolare si interroghino sul suo stato e sulle sue prospettive, alla luce dell'indispensabile necessità di assicurare efficienza e responsabilità nell'azione pubblica ed equità per i cittadini. Può essere, però, dubbio che tale processo possa partire dalla concessione di ulteriori differenziazioni e norme speciali e non, invece, da un ordinato processo di revisione. Il rischio è quello di rendere meno efficiente, più iniquo e frammentato il quadro nazionale e complessivamente più debole l'intero Paese.
PRESIDENTE. Grazie.
Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
PAOLO RUSSO. Vorrei che mi aiutaste a capire meglio. La procedura seguita sinora riguarda l'approvazione di pre-intese nel 2018. Questa figura istituzionale della pre-intesa come si colloca nell'ambito del processo ordinario di regionalismo? Soprattutto, come si colloca alla luce della lettura costituzionale di questo aspetto?
ROGER DE MENECH. Ringrazio gli auditi. Mi scuso per il ritardo, ma eravamo impegnati anche in altre Commissioni alla Camera.
Due considerazioni. La prima riguarda la procedura. In questi mesi, se c'è un aspetto positivo, dal punto di vista del dibattito parlamentare rispetto alla capacità del Parlamento, vista la portata di una modifica e di un cambiamento sostanziale dell'assetto funzionale del Paese, un passo avanti lo avevamo compiuto. Per voce di esponenti importanti del Governo, dei presidenti di Camera e di Senato, la capacità di portare un documento su cui il Parlamento possa esprimere non soltanto un Pag. 15parere positivo o negativo, ma anche una capacità di emendare e di migliorare i testi mi pare una cosa abbastanza assodata.
Questo si innesca sulla procedura che, di fatto, storicamente è sempre stata eseguita rispetto alle regioni a Statuto autonomo. Le revisioni. Esempio dell'ultima legislatura: la revisione dello Statuto del Friuli ha seguito esattamente questo doppio binario. È arrivata in Parlamento con un preaccordo tra il Governo e la regione; il Parlamento, tra l'altro, l'ha modificata; poi è ritornata in Consiglio regionale, per poi ritornare in accordo. Dobbiamo mettercelo in testa, e lo dico per chi ha dentro di sé veramente uno spirito federalista e cerca di mettere al centro non tanto la procedura o il metodo, quanto il risultato finale. Arrivo all'ultima relazione. Sono state citate le regioni autonome come caso di sperequazione. Io provengo da una di quelle realtà che è incastrata tra il Trentino Alto Adige e il Friuli, però io le capovolgo e mi metto dalla parte dei cittadini. Per quanto riguarda le politiche sviluppate in Trentino Alto Adige, a differenza del Friuli Venezia Giulia, le do solo un dato: l'indice di spopolamento delle zone di montagna. A me interessa che il servizio che rendiamo al cittadino venga aumentato di efficacia e di efficienza. Qui abbiamo risultati demografici completamente diversi. Nella provincia autonoma di Bolzano abbiamo il miglior indice che c'è in Italia, addirittura anche rispetto alle zone di pianura. Abbiamo un crollo demografico sia della parte del Veneto che di quella del Friuli, con tre condizioni di autonomia diverse.
Perché faccio questo riferimento? Perché secondo me dovremo – lo dico soprattutto ai colleghi e al Governo – mettere al centro quale forma di autonomia, quale progetto per i territori, il modello, come ho già detto, seguito dalla regione Emilia-Romagna che, prima di proporre e di chiedere le materie e l'autonomia, fa gli stati generali dell'Emilia-Romagna, mette insieme le parti sociali, i sindacati, le associazioni eccetera e propone un progetto per la propria regione, e in base a quel progetto chiede le materie e le competenze per svilupparlo, tutto questo – nell'audizione di ieri mi pare siano stati chiari gli auditi – dentro un impianto di finanza complessiva che non deve toccare gli equilibri nazionali.
La cosa significativa è che tutti quelli che sono intervenuti – anche ieri i tre esperti – hanno ribadito l'invarianza dei saldi, il fatto di non spostare le partite di bilancio da una regione all'altra eccetera. Probabilmente, se vogliamo fare un passo avanti, dobbiamo iniziare a contingentare quale tipo di autonomia e perché alcune funzioni servono allo sviluppo del territorio.
VASCO ERRANI. Vi ringrazio per le vostre relazioni e i vostri contributi.
La domanda la rivolgo sostanzialmente a tutti e tre. Parto da un'osservazione che faceva la professoressa Randazzo, che condivido. L'esperienza che abbiamo alle spalle è emblematica e ci dà già delle risposte, che vanno oltre la crisi del regionalismo e entrano nella crisi dell'impianto istituzionale complessivo di questo Paese. Le ragioni del conflitto costituzionale non stanno di per sé nel 117, ma stanno nella non applicazione del 117, laddove il Parlamento non ha prodotto – come ha detto lei, giustamente, professoressa – i princìpi fondamentali, dico io, delle materie e, come ha detto il professor Saitta e, indirettamente, anche il professor Viesti, la definizione dei livelli – professore – essenziali, non minimi. La discussione su essenziali o minimi è stata, nella riforma del 2001, una discussione fondamentale.
Se l'analisi che io faccio è obiettiva, cioè non di parte, è del tutto evidente che nasce una decisione a monte. Senza aver definito questi due elementi – definizione che spetta, come dice la Costituzione, al Parlamento – non si può procedere con l'autonomia differenziata. Perché? Perché – e qui sono d'accordo con il professor Saitta e con il professor Viesti – non è che c'è un rischio: al di là perfino delle volontà specifiche di questa o quella regione che hanno fatto richiesta, è certo che dal titolo della competenza si desume un Paese o Arlecchino, quindi – attenzione – ingovernabile o, diversamente, una situazione nella quale l'autonomia produrrà una situazione tanto diversificata Pag. 16 da essere un tema costituzionale. Non so se sono riuscito a spiegarmi.
Abbiamo detto che il 116, terzo comma, a cui io convintamente mi riferisco: a) non è la definizione di nuove regioni a Statuto speciale; b) non è una secessione mascherata; c) non è, non un trasferimento di competenze, ma un cambio dell'assetto costituzionale surrogato che porta a trasferire la titolarità primaria legislativa di quelle competenze tra lo Stato e le regioni. Se questi punti che ho detto sono condivisibili, abbiamo già fatto un salto di qualità stratosferico.
Vorrei informazioni su questa processualità di cui abbiamo bisogno. Questo Paese è sempre preso tra la morsa pendolare «o tutto o niente, o centralismo iper-accentrato». Successivamente si passa a un federalismo «fai da te», quindi a una confusione a cui, per fortuna, la Corte costituzionale in qualche modo ha cercato di porre rimedio. Ora tocca alla politica.
Ultimo punto: questione delle risorse. Adesso è diventata una banalità dire che non si parla del residuo fiscale. Faccio presente che la regione Veneto ha fatto una legge nella quale al centro c'è il residuo fiscale. Si sono sbagliati, va bene. Non è un problema e non è una polemica. Chiedo scusa, bisognerà trovare il modo per discuterne. Sciogliamo tutti gli equivoci. Non esiste la possibilità di fare contemporaneamente princìpi fondamentali, LEP e costi standard in attuazione del processo di federalismo. È il caos! Il caos produce spesa, sprechi e inefficienza, così come la storia – ahinoi – di questo Paese ha sancito in modo indiscutibile.
VINCENZO PRESUTTO. Ringrazio la professoressa Randazzo, il professore Saitta e il professore Viesti.
Continuo il ragionamento che ha appena avviato il collega Errani. Ho ascoltato con attenzione le vostre valutazioni e devo dire che ho rilevato prevalentemente e quasi esclusivamente delle criticità – spero di non sbagliare nelle mie valutazioni – sia nel merito che nel metodo, ovviamente, del federalismo. Ho preso degli appunti volanti. Cerco di aggregarli in maniera logica e razionale.
Lo Stato, come Pubblica amministrazione, come chi ha ideato il modello, probabilmente ha generato quella conflittualità che non aveva motivo di essere, creando un sistema più competitivo che cooperativo. Io stesso, ad esempio, parlando con il mio Gruppo politico, ho più volte detto di fare attenzione e di evitare di cascare in un tranello di tipo conflittuale, altrimenti si sposta l'attenzione tra la necessità di avere un modello che funzioni rispetto ad un'Italia che ha bisogno, ovviamente, di funzionare meglio, ma non attraverso le regioni. Sicuramente le regioni hanno un dovere di prossimità, come i comuni di prossimità, molto importante, perché interagiscono direttamente con i cittadini, con ambiti di competenza importanti, come la sanità o altri. I comuni ancora di più. Ad esempio, abbiamo complessità – che sono state evidenziate da voi – sugli aspetti giuridici, sugli aspetti fiscali e sugli aspetti finanziari. Ci troviamo di fronte ad un ritardo che non è più giustificato. Parliamo di troppi anni. È come se il progetto fosse stato ragionato e ideato per metterlo in una condizione di stallo.
La domanda che vorrei porvi è la seguente: quanto pesa, in questo ritardo, la mancata attenzione dell'efficientamento del vero responsabile, forse, di questo ritardo, ossia lo Stato, con un debito pubblico che non riesce ad essere contenuto e che viene trattato sempre poco e male rispetto ad un processo, quello delle autonomie, che, attuato bene e ragionato bene, come ha fatto la Germania quando ha unito la Germania dell'est alla Germania dell'ovest... Lì lo Stato è stato propositivo, è stato cooperativo e ci ha messo i soldi.
Effettivamente i LEP rappresentano l'elemento principale. Oggi se in un'intervista non dici che ci vogliono i LEP vieni flagellato. Noi saremo bravi. Al Senato faremo i LEP. Alla Camera verranno approvati, seconda lettura, facciamo i LEP, stabiliamo il fondo perequativo, stabiliamo i fabbisogni standard. Ma poi il MEF ce li mette i soldi? Vogliamo dare anche un ruolo di attenzione all'efficientamento dello Stato? Con i colleghi che si trovano con me in Commissione bilancio io mi trovo sempre a parlare Pag. 17di «copertura sì» e dell'articolo 81. Vogliamo parlare anche delle performance della Pubblica amministrazione?
Secondo voi – la domanda è questa – quanto conta la mancata attenzione all'efficientamento dello Stato rispetto ad un ritardo che io non trovo più giustificabile riguardo al tema del federalismo? I cittadini hanno bisogno di servizi pubblici essenziali degni di quel nome.
PRESIDENTE. Se non ci sono altre domande, direi di procedere con l'ordine inverso rispetto a quello degli interventi iniziali.
Do la parola al professor Viesti per la replica.
GIANFRANCO VIESTI, professore di economia applicata presso l'Università di Bari. Partirei rapidissimamente da quest'ultima domanda. Non c'è dubbio che la grande crisi fiscale collegata alla crisi economica così profonda e persistente abbia un ruolo importantissimo in questa materia. Essa è stata scaricata in misura rilevante sulle regioni e sugli enti locali di tutto il Paese, quindi ha provocato un abbassamento nella capacità di fornire servizi essenziali per i cittadini. Questo è un grande problema. Da questo grande problema la mia opinione è che ci siano due grandi vie d'uscita. Una via d'uscita è quella prettamente conflittuale. Un esempio – ne parlava ancora, ho letto la sua audizione, il professor Arachi – riguarda i fondi comunali. Lì c'è stata una vera e propria guerra tra comuni ricchi e comuni poveri per l'allocazione delle risorse. Un altro esempio – quello a cui mi riferirò tra un attimo – riguarda alcune previsioni delle bozze Stefani.
L'altra via d'uscita è, invece, quella cooperativa, nella quale tra livello centrale, livello regionale e livello locale si assumono responsabilità e necessità di efficienza e si cerca di procedere in maniera coesa attraverso indicatori che per tutti i livelli di governo mettano insieme le necessità di efficienza con le necessità di fornitura dei servizi.
L'invarianza dei saldi, a cui si fa riferimento anche nelle bozze Stefani, riguarda i saldi complessivi di finanza pubblica, non necessariamente i saldi di ciascun territorio. Molte di queste questioni si trovano nei dettagli. È assai prezioso, quindi, il lavoro che questa Commissione sta facendo.
Torno un attimo alla spesa media pro capite. Sul sito del dipartimento degli affari regionali è apparsa una tabellina che comprende le tre regioni che hanno fatto richiesta e quattro altre regioni del Paese, del sud. Chissà perché non tutte le regioni. Da questa tabellina si vedono sperequazioni enormi nella spesa pro capite per l'istruzione scolastica. Per cui, il Veneto ha un livello molto più basso della Calabria.
Attraverso questo, la garanzia del livello medio, della spesa media pro capite, sembra una misura di equità nei confronti dei cittadini di quella regione, ma, come accennavo poc'anzi, non è la spesa media pro capite nell'istruzione scolastica che rileva, ma è la spesa media per studente, tenendo conto, come una sorta di fabbisogni standard già definiti nell'esperienza pluridecennale del MIUR, di alcune caratteristiche di fornitura del servizio scolastico che sono, per esempio, la dimensione media delle classi o l'anzianità media degli insegnanti.
Il rischio che vedo è che persista un pericolo di conflittualità all'interno del sistema fra regioni ricche e regioni povere, così come c'è stato fra comuni ricchi e comuni poveri. Questo mi preoccupa moltissimo, non tanto e non solo per i comuni o le regioni povere, ma per la tenuta dell'intero Paese. Non vorrei che dalla pazzesca crisi che abbiamo attraversato e che stiamo ancora attraversando venissero fuori forze centripete.
Il nostro è un Paese indebolito, ma ho paura che scontri di questo tipo potrebbero renderlo ancora più debole. Invece, c'è bisogno – è una discussione certamente non semplice – di tenerlo unito attraverso regole precise che valgano per tutti.
PRESIDENTE. Do la parola al professor Saitta per la replica.
ANTONIO SAITTA, professore di diritto costituzionale presso l'Università di Messina. Grazie. L'onorevole Russo chiedeva la Pag. 18collocazione delle pre-intese nel procedimento.
Noi abbiamo due documenti. Uno, come è noto, firmato a febbraio del 2018, che è definito accordo preliminare in merito all'intesa e quindi, dichiaratamente, è un primo step che avrebbe portato il Governo successivo e questa legislatura alla definizione delle intese trasfuse nel disegno di legge.
In questo accordo preliminare è contenuta l'affermazione che si sarebbe seguito il procedimento di cui all'articolo 8, sul quale valgono le considerazioni che ho fatto successivamente. Poi, il 15 febbraio 2019 sono state rese pubbliche delle bozze concordate con le tre regioni che si autoqualificano per una rinegoziazione degli accordi del febbraio 2018, ma questa volta si fa riferimento non a degli accordi preliminari, ma a delle intese. Sono state rese pubbliche, sono reperibili, in via informale, su siti di associazioni scientifiche. Mi riferisco alla seconda parte di queste bozze, perché la prima è l'unica che è stata pubblicata dal Ministero e che contiene la cosiddetta «parte generale». La parte speciale ancora non è formalizzata.
Queste bozze, una volta rese definitive e formalizzate, costituiranno il contenuto, l'oggetto dei tre disegni di legge, per il quale, seguendo la procedura dell'articolo 8, e arriviamo alle altre considerazioni, il Parlamento dovrà approvare o respingere a blocco.
Lo statuto speciale della regione Friuli è un esempio molto opportuno, perché si tratta dell'ossatura di una regione speciale che, dal punto di vista formale e procedurale, è approvato con legge costituzionale, quindi con atto unilaterale dello Stato.
Il Parlamento, saggiamente, ha ritenuto di aprire un'interlocuzione con la regione interessata per superare la rigidità del 116 e farne, nei limiti del possibile, un documento condiviso, perché qua c'è il paradosso della specialità per cui le regioni ordinarie si danno da sé il proprio statuto, che può essere contestato dallo Stato soltanto per vizi di legittimità dinnanzi alla Corte costituzionale, mentre le regioni che dovrebbero avere maggiore autonomia invece hanno uno statuto che è unilateralmente dettato dallo Stato e sul quale possono avere poteri di iniziativa, ma non hanno potere di codeterminazione. Hanno le norme d'attuazione con le Commissioni paritetiche, ma la prima manifestazione di autonomia è la potestà statutaria.
Ho una mia posizione su questo, e non sono da solo.
È un'ipotesi che si può recuperare, come io ho adombrato, in questa situazione. Non ritengo che sia costituzionalmente corretto, né tantomeno obbligato, che il Parlamento abbia soltanto un potere di approvare o respingere in blocco. Il Parlamento si deve appropriare di una centralità in questo processo che, come è evidente da tutti gli interventi, è di una portata straordinaria, perché va a ridisegnare la forma dello Stato. Abbiamo un trasferimento di competenze e un assetto dei poteri, così come configurato all'articolo 117, straordinario.
Insisto affinché il Parlamento si riappropri di un potere di interlocuzione contenutistico in questo processo.
Nell'intervento del senatore Errani ho risentito molte delle considerazioni che ho fatto e delle altre che ho scritto e che per brevità di intervento non ho potuto rassegnare nell'intervento orale. Sono convinto che i LEP vadano determinati prioritariamente, perché è l'unica cornice all'interno della quale il regionalismo differenziato può manifestare le sue finalità, che sono quelle non di acuire le differenze all'interno dello Stato, ma quelle di superarle. Questo può esser fatto solo all'interno di una cornice ben determinata e che peraltro pone il Parlamento al centro del processo. Su quanto pesi il mancato efficientamento dell'Amministrazione non c'è dubbio: pesa su tutta la vicenda il tema più importante che il Paese si porta dietro sin dalla sua unità, che è la questione meridionale, che è talmente non risolta da ribaltarsi nella questione settentrionale, che è una questione, ovviamente, fondamentale e centrale, ma che è frutto di un disegno che non è stato realizzato e che il regionalismo deve servire a realizzare, cioè un'unità del Paese che sia un'unità dei valori, un'unità nel godimento dei diritti, che è la ragione per la quale il Pag. 19regionalismo differenziato può e deve essere attuato, in coerenza con una visione di Paese umanitario.
Grazie.
PRESIDENTE. Do la parola alla professoressa Randazzo per la replica.
BARBARA RANDAZZO, professoressa di diritto pubblico presso l'Università degli Studi di Milano. Risponderò insieme ai quesiti sia dell'onorevole Russo che del senatore Errani. Poi, ho messo insieme le domande del senatore Presutto e dell'onorevole De Menech.
Per quanto riguarda la questione del procedimento, la inquadro nella risposta che do anche al senatore Errani. Condivido, perché abbiamo condiviso la lettura del quadro. Che cosa non mi convince della conclusione a cui perviene? Lei dice, alla fine, che siccome mancano pezzetti essenziali per la ridefinizione del quadro, dobbiamo fermare il processo perché non si può e si rischia il caos.
A me pare che sia molto problematica questa conclusione, perché siamo ormai a 19 anni dalla riforma costituzionale del 2001 e a dieci anni, se volessimo ragionare anche soltanto della legge n. 42, dalla inattuazione della legge n. 42 del 2009.
Invocare, a conclusione di questo processo, sostanzialmente una sorta di ammissione di colpa del Parlamento per bloccare tutto a me pare eccessivo. Che cosa voglio dire? Lo dico in termini costruttivi e mi collego un po’ anche alla vicenda. Rischiamo per l'ennesima volta di inserirci in quella palude che poi divenne il dibattito sulla riforma costituzionale del 2016, con l'inasprimento completamente dei toni e gli eccessi, senza andare a essere un po’ pragmatici e a verificare che cosa si può fare per rimettere in moto il Paese, considerato che questo è il problema e lo condividiamo tutti: l'inefficienza e le varie altre cose.
Questo è l'obiettivo comune. Uscendo un po’ dagli approcci meramente ideologici, se potessimo pragmaticamente intravedere un percorso da condividere positivamente per riavviare un sistema, coinvolgendo le autonomie e non vedendo le autonomie come una minaccia, ma come una risorsa per il Paese, non per se stesse, allora forse potremmo dare anche qualche speranza e fiducia ai nostri figli per questa Repubblica, che è una Repubblica dentro un contesto complessivo.
Mi spiego in maniera molto semplice. Da buona madre di famiglia, sono abituata a fare i conti della serva e a fare proposte concrete, al di là delle grandi astrazioni. Ripeto, ho letto tutto sul punto – o quasi – e ho letto tutto e il contrario di tutto. Sono d'accordo e posso essere d'accordo con tutto e il contrario di tutto.
Voglio andare un po’ sul concreto. Reputo assolutamente inaccettabile per un cittadino – parlo da cittadino a questo punto – che il Parlamento dica che siccome non ha fatto nulla prima e siccome rivendica la sua competenza, si blocca tutto. Questo mi pare veramente incredibile. Il problema c'è. Il problema dell'assenza di una cornice è chiaro ed evidente. I rischi di iscrivere un procedimento di regionalismo differenziato fuori da questa cornice ci sono. Quello che io ritengo è che positivamente si potrebbe pensare di mettere in campo contemporaneamente un processo che proprio muovendo dalle richieste di autonomia cominci a mettere in moto un processo virtuoso di attuazione di quella riforma del 2001, salvo rimettere in discussione quella riforma.
In che modo? Le regioni chiedono autonomia in una serie di materie. Perché il Parlamento non comincia a definire quelle materie, il perimetro di quelle materie? Perché non comincia a fare delle leggi quadro? Parliamo di leggi quadro che non sono mai state fatte. Possiamo quindi prendere quattro-cinque materie e su quelle materie, che sono proprio quelle oggetto di richiesta delle regioni, cominciare a definirne il perimetro in modo da costituire una premessa forte per poi consentire la definizione di questa seconda parte?
VASCO ERRANI. Quindi prima si fa questo!
BARBARA RANDAZZO, professoressa di diritto pubblico presso l'Università degli Studi Pag. 20di Milano. Se «prima» significa che non si muove più nulla «senza che», non so se questo sia coerente con le dinamiche complessive, perché c'è un inadempimento ormai di 19 anni. Un conto è dirlo ieri, un conto è dirlo oggi. Credo che contemporaneamente il Parlamento possa cominciare a ragionare in termini di definizione di materie.
La giurisprudenza costituzionale fornisce un ausilio molto importante sul quale il Parlamento può confrontarsi e decidere se i perimetri di quelle materie possono rimanere dentro quello descritto dalla Corte costituzionale oppure se possono essere mutate. Questo dal punto di vista della legge cornice.
Ancora, e mi collego alla domanda dell'onorevole Russo, c'è il problema dell'accordo preliminare. Intanto faccio notare che sono due accordi diversi perché due erano gli interlocutori, diversi. Avevamo un Governo prima, e un Governo dopo. È chiaro che qualcosa è mutata in questo contesto.
Ma rimane il problema di fondo; la sua domanda, ovvero qual è la fonte che disciplina questo accordo, non c'è. Ecco un altro problema. Non abbiamo una legge di attuazione generale del 116 che definisca una procedura condivisa e che faccia uscire dalle secche di tutto questo dibattito defatigante, polemico, aspro, inutile, a mio avviso, perché non porta da nessuna parte.
Discutiamo ancora per un paio d'anni, come abbiamo fatto con la riforma costituzionale, e poi tutto finisce nel nulla, lasciando soltanto disperati e privi di speranza coloro che un po’ di speranza nelle istituzioni ancora ce l'hanno.
Chiederei un approccio pragmatico, un approccio che parta da ciò che si può in concreto fare e che il Parlamento può già da oggi cominciare a fare, come l'attuazione della legge n. 42, che è la cornice. Sono d'accordissimo con quanto si diceva.
Se non ci sono le definizioni dei LEP, se non ci sono le definizioni dei costi standard è chiaro che il processo rischia veramente di raggiungere obiettivi diversi da quelli che si prefigge. Però, è necessario a questo punto che ci sia una cooperazione, una leale cooperazione di tutti gli organi coinvolti, il Parlamento in primis.
Certamente dobbiamo rivalorizzare in tutto questo processo la centralità del Parlamento, però anche la responsabilità del Parlamento va sottolineata, perché io sono d'accordo nel rimarcare il ruolo delle Commissioni, la necessità che si discuta e che non sia tutto rimesso agli Esecutivi, ma il Parlamento deve fare la sua parte, però, perché se poi dopo, in realtà, non facciamo che constatare inadempimenti del Parlamento e supplenze della Corte costituzionale allora credo che questo sia un problema, debba essere un problema.
Ripeto, sono preoccupata della stagione, perché i toni rischiano ancora di accendersi in modo aspro. C'è sempre un grido estremo: no alla riforma costituzionale o sì alla riforma costituzionale, senza pensare che forse c'è una misura, una concreta misura in cui su alcuni specifici aspetti si può dire sì e su altri si deve dire no, in una logica che valorizza le autonomie per il Paese.
C'è un'ambiguità di fondo, in tutto il discorso, che l'interesse generale appartenga solo ed esclusivamente allo Stato centrale. L'ambiguità di fondo è questa, che soltanto lo Stato centrale può farsi carico dell'interesse generale. Credo che, invece, debbano essere anche corresponsabilizzate le autonomie in questo tema e quindi valorizzate.
Arrivo subito, e concludo, alla risposta all'onorevole Presutto e all'onorevole De Menech, che hanno posto veramente il punto. Certamente quello è un problema, quello dell'inefficientamento. Può questo processo di autonomia differenziata rimettere in moto positivamente anche un efficientamento statale? Abbiamo la chance di valorizzare le best practices che in questo Paese ci sono e di far contaminare questo Paese con le best practices che si ci sono, come realtà virtuose nell'intero Paese e fare in modo che ciò che viene bene amministrato in certe regioni possa essere altrettanto ben amministrato nelle altre? Possiamo contaminare anche il bene e il positivo che c'è? Pag. 21
Credo che ci sia questa possibilità. Voglio credere che questo processo possa mettere in moto meccanismi positivi di contaminazione di ciò che di efficiente c'è in questo Paese e che venga valorizzato non solo per alcune realtà territoriali, ma messo a disposizione anche delle altre realtà territoriali, perché la cultura del Paese, la cultura della buona amministrazione deve essere condivisa.
Non credo – questa è stata la partita che abbiamo giocato per tanti anni – che la cultura dell'amministrazione centralista possa farci vincere questa partita.
PRESIDENTE. Ringrazio tutti gli auditi per il loro intervento. Dispongo che la documentazione prodotta sia allegata al resoconto stenografico della seduta odierna e dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 10.
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