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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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XVIII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 3 di Giovedì 13 dicembre 2018

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Grande Marta , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA POLITICA ESTERA DELL'ITALIA PER LA PACE E LA STABILITÀ NEL MEDITERRANEO

Audizione di Nathalie Tocci, Direttrice dell'Istituto
Affari Internazionali.

Grande Marta , Presidente ... 3 
Tocci Nathalie , Direttrice dell'Istituto Affari Internazionali ... 3 
Grande Marta , Presidente ... 10 
Quartapelle Procopio Lia (PD)  ... 10 
Tocci Nathalie , Direttrice dell'Istituto Affari Internazionali ... 10 
Ehm Yana Chiara (M5S)  ... 11 
Tocci Nathalie , Direttrice dell'Istituto Affari Internazionali ... 12 
Billi Simone (LEGA)  ... 15 
Tocci Nathalie , Direttrice dell'Istituto Affari Internazionali ... 15 
Comencini Vito (LEGA)  ... 15 
Tocci Nathalie , Direttrice dell'Istituto Affari Internazionali ... 15 
Grande Marta , Presidente ... 16

Sigle dei gruppi parlamentari:
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Lega - Salvini Premier: Lega;
Partito Democratico: PD;
Forza Italia - Berlusconi Presidente: FI;
Fratelli d'Italia: FdI;
Liberi e Uguali: LeU;
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo Italiani all'Estero-Sogno Italia: Misto-MAIE-SI;
Misto-Civica Popolare-AP-PSI-Area Civica: Misto-CP-A-PS-A;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Noi con l'Italia-USEI: Misto-NcI-USEI;
Misto-+Europa-Centro Democratico: Misto-+E-CD.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE
MARTA GRANDE

  La seduta comincia alle 9.20.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, nonché la trasmissione sul canale della web–tv della Camera dei deputati.

Audizione di Nathalie Tocci, Direttrice dell'Istituto
Affari Internazionali.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione della Direttrice dell'Istituto Affari Internazionali (IAI), professoressa Nathalie Tocci, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla politica estera dell'Italia per la pace e la stabilità nel Mediterraneo.
  Saluto e ringrazio la professoressa Tocci per la sua disponibilità a prendere parte ai nostri lavori.
  Oltre il prestigioso incarico di direzione dello IAI, Nathalie Tocci insegna in qualità di professoressa onoraria all'università di Tübingen e ricopre il ruolo di Special Adviser dell'Alta Rappresentante Mogherini sulla nuova strategia di politica estera dell'Unione europea. Precedentemente, è stata ricercatrice al Centre for European Policy Studies di Bruxelles, all'Istituto Universitario Europeo di Fiesole e alla Transatlantic Academy di Washington. I suoi attuali interessi scientifici riguardano la politica estera europea, la risoluzione dei conflitti, il Mediterraneo e il Medioriente.
  Come abbiamo avuto modo di evidenziare in occasione dell'audizione del dottor Ettore Greco, vicepresidente dello IAI, di Silvia Colombo e Andrea Dessì, ricercatori presso lo stesso IAI, l'Istituto, fin dalla sua fondazione nel 1965, ha sviluppato il programma Mediterraneo e Medioriente nella convinzione che le regioni a sud dell'Europa sono un fattore che influenza la sicurezza nazionale ed occidentale e contribuiscono a modellare il processo di integrazione europea.
  Il programma, in particolare, si pone due obiettivi: analizzare gli sviluppi politici, sociali ed economici dei Paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente come tali e come dimensione nella sicurezza occidentale ed europea; costruire una rete caratterizzata da relazioni creative e dinamiche con le istituzioni e le principali personalità della regione nel campo della ricerca.
  Do la parola alla professoressa Tocci.

  NATHALIE TOCCI, Direttrice dell'Istituto Affari Internazionali. Grazie molte per l'opportunità di essere con voi questa mattina. Parlare di Mediterraneo in maniera succinta non è, ovviamente, cosa semplice. Quindi, mi soffermerò su quelle che considero le grandi trasformazioni strutturali nella regione. Ne ho identificate quattro.
  Come primo punto, credo sia utile sottolineare il fatto che il Mediterraneo è una regione che non esiste. È una regione che è sempre esistita solamente nell'immaginario collettivo europeo, in particolar modo nell'immaginario collettivo dei Paesi del sud dell'Europa. Invece, la sponda sud del Mediterraneo non si è mai considerata e definita come regione. A volte lo facevano per compiacere gli europei, però l'idea del Mediterraneo, quindi l'idea delle relazioni euromediterranee è sempre stata una nozione Pag. 4piuttosto eurocentrica. Non è un qualcosa che nasce dalla regione nel suo complesso.
  Nonostante questo sia sempre stato vero, e continua ad esserlo tutt'oggi, è ancora più evidente oggi che il Mediterraneo è una regione – ripeto – che non esiste. È una regione non soltanto divisa al suo interno, come in realtà è sempre stato, ma è anche una regione i cui confini con altre regioni non sono più chiaramente definibili.
  Abbiamo, innanzitutto, una dinamica – come sappiamo – tra Nordafrica e Africa subsahariana, soprattutto per quello che concerne la fascia del Sahel, che rende impossibile dividere geograficamente (e che questa divisione geografica abbia una sorta di ratio politica) il Nordafrica dall'Africa subsahariana. Sappiamo che la fascia del Sahel è attraversata da una serie di flussi, sia leciti che illeciti. Sappiamo che le sfide che riguardano il Nordafrica e l'Africa subsahariana, soprattutto la fascia del Sahel, sono esattamente le stesse sfide. Sia che si parli di cambiamenti climatici, sia che si parli di sicurezza o, meglio, transizione energetica, di terrorismo o di crimine organizzato o di flussi migratori, qualunque sia il tema, è evidente che sono esattamente le stesse sfide che riguardano questa intera regione collegata attraverso la fascia del Sahel.
  Ugualmente vero è che non possiamo più distinguere le dinamiche tra, da un lato, il Golfo Persico e, dall'altro, il Corno d'Africa. Qui i flussi sono di natura un po’ diversa. Sono flussi di natura culturale. Come sappiamo, soprattutto Arabia Saudita, Emirati e Qatar sono sempre più influenti nel Corno d'Africa attraverso la promozione del salafismo. Sappiamo, infatti, che i sufi, che sono sempre stati abbastanza dominanti nel Corno d'Africa, in realtà in questo momento sono in una fase discendente, proprio perché i Paesi del Golfo sono sempre più presenti da un punto di vista culturale e, ovviamente, economico. Le due cose vanno di pari passo. Questo sostegno culturale/economico spiega anche perché Paesi come l'Arabia Saudita, che in questo momento stanno tentando di creare una sorta di NATO araba, tentano di imbarcare anche i Paesi del Corno d'Africa: sostanzialmente è il qui pro quo che chiedono come ritorno per gli aiuti economici che, però, arrivano sempre con questo «prezzo» culturale. Siamo a conoscenza di una serie di flussi illeciti, a partire dalle reti terroristiche.
  Sappiamo, inoltre, che il Mediterraneo è una regione che non soltanto – come dicevo prima – è sempre stata divisa, ma è ancora più divisa. Mi riferisco alle classiche divisioni all'interno di questa regione. Cito la più evidente, ossia quella tra arabi e israeliani. A questa abbiamo aggiunto una serie di altre divisioni, che in passato non erano sentite in maniera molto forte. Oggi spesso sentiamo parlare delle divisioni tra sunniti e sciiti. Francamente, questa è una distinzione la cui rilevanza politica è un qualcosa di relativamente recente. Era molto antica, però negli ultimi duecento–trecento anni non è stata la divisione principale che ha caratterizzato questa regione. Chiaramente, non stiamo parlando di una divisione di natura religiosa. Stiamo di nuovo parlando di una distinzione di natura politica che viene, poi, espressa attraverso la religione. Qui la vera distinzione, la vera competizione è tra, da un lato, Arabia Saudita e, dall'altro, come sappiamo, Iran.
  Parliamo, quindi, di una regione che ha una serie di divisioni interne: quelle tradizionali (arabo–israeliane), quelle risorgenti (sunniti e sciiti), quelle tra Iran e mondo arabo e, all'interno del mondo arabo, tra chi sposa più una ideologia, quindi una corrente religiosa collegata al salafismo e chi, invece, segue più l'idea dell'Ikhwā´n, la fratellanza musulmana. Abbiamo una spaccatura all'interno, ad esempio, del Golfo tra Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi. Nel mezzo ci sono una serie di Paesi, come il Kuwait o l'Oman, che non hanno deciso da che parte stare, se di qua o di là.
  In aggiunta a queste divisioni intra–mediterranee, abbiamo anche – ed è questo che rende ancora più difficile, se non impossibile, parlare di Mediterraneo come regione – il tentativo da parte europea di creare una barriera nel Mediterraneo. Qui il tema principale, come sappiamo, è quello della migrazione. C'è questo tentativo, piuttosto disperato (magari poi vi spiego il Pag. 5perché, secondo me), di spostare la frontiera europea e, se vogliamo, scaricare la responsabilità della gestione delle frontiere ai Paesi della sponda sud, quindi creare una divisione all'interno del Mediterraneo.
  Parlo di tentativo piuttosto disperato perché spesso la politica ha la memoria molto corta. Questo è esattamente un tentativo fatto ripetutamente negli anni Novanta e alla fine si è sempre scontrato con l'ostacolo più ovvio: perché mai i Paesi della sponda sud si dovrebbero accollare la responsabilità della gestione delle nostre frontiere? La nostra risposta intuitiva è che diamo loro un sacco di soldi. La verità è che non diamo loro un sacco di soldi. O meglio, quello che dovremmo dare loro per accollarsi questa responsabilità è infinitamente superiore a quello che siamo, in realtà, disposti e capaci di dare. Basta fare un raffronto. Questi Paesi – parlo soprattutto di Paesi di origine, ma, con una logica un po’ diversa, il discorso si applica anche ai Paesi di transito – guadagnano molto di più attraverso le rimesse dei migranti che attraverso il sostegno economico che noi possiamo dare loro.
  Tutto questo per dire che, nonostante si tratti di un tentativo fallito in passato e che fallirà anche nel presente, c'è questo tentativo da parte europea di dividere il Mediterraneo, non di unirlo, attraverso questo spostamento delle frontiere soprattutto ai Paesi del Nordafrica.
  Il primo punto che volevo sottolineare era proprio questo, ossia l'idea di una geografia di cui continuiamo a parlare (questa è un'audizione sul Mediterraneo), mentre si tratta, in realtà, di una regione che non esiste. È fondamentale tener conto di queste divisioni interne, ma anche di questi collegamenti con altre regioni per renderci conto che, in realtà, stiamo parlando di una macroregione estremamente frammentata al suo interno, una macroregione che parte – se vogliamo – dall'Asia centrale e arriva fino all'Africa centrale. È una macroregione estremamente frammentata, con molteplici divisioni al suo interno.
  Il secondo punto che volevo sottolineare è che questa regione non soltanto è frammentata e indistinta, ma sta anche attraversando una profondissima crisi, soprattutto una profondissima crisi del mondo arabo e dell'idea stessa del progetto di Stato all'interno del mondo arabo. Sappiamo che nel mondo arabo lo Stato è una creazione relativamente recente. È una creazione coloniale. Parliamo spesso degli accordi di Sykes–Picot. Adesso ci chiediamo se questi accordi stanno, in qualche modo, implodendo, si stanno svuotando.
  Facciamo un passo indietro e ritorniamo a quelle che sono state le primavere arabe. Sappiamo bene che, al di là di quella che può essere stata la miccia per le primavere arabe, partendo dalla Tunisia, i motivi strutturali noi li conoscevamo benissimo, ben prima del 2011. Mi riferisco all'insostenibilità del progetto statuale, nato come progetto autoritario e poi diventato un progetto neo–autoritario, intendendo per «neo–autoritario» il fatto che si è dovuto riconciliare con processi, a livello globale, di globalizzazione. Sono Stati che hanno incamerato le politiche neo–liberali degli anni Novanta, però mantenendo il loro assetto autoritario. Quello è un progetto che, a partire dal 2011, è completamente fallito. Una serie di forme di insostenibilità da un punto di vista sociale, da un punto di vista ambientale, da un punto di vista energetico, da un punto di vista economico, da un punto di vista geopolitico, sono poi esplose con le primavere arabe, che – come sappiamo – avevano come grande promessa quella della democrazia, dello sviluppo economico e via dicendo nella regione.
  Oggi sappiamo che questo non è stato l'esito, anche nell'unico caso di mezzo successo, ossia quello della Tunisia: dal punto di vista politico sono stati fatti enormi passi in avanti, ma le cause sociali ed economiche delle rivolte non soltanto sono rimaste invariate, ma sono peggiorate dal 2011 ad oggi. Sappiamo che le cause che hanno portato a questa implosione dello Stato nel 2011, in realtà, sono peggiorate oggi rispetto a quanto non lo fossero all'inizio, oramai otto anni fa.
  Con questo non voglio dire che Sykes–Picot è morto e che ci sarà una ridefinizione dei confini all'interno del mondo Pag. 6arabo. Il mio punto è esattamente l'opposto. Il mio punto non è tanto che una forma di Stato funziona e un'altra non funziona, a seconda di come si disegnano le linee su una cartina geografica. Il punto è che è in crisi proprio il modello di uno Stato. Queste frontiere sulla carta possono pure rimanere invariate, ma il vero tema qui è che c'è stato uno svuotamento dello Stato. Questo è evidente in Paesi come la Siria, lo Yemen o la Libia, in cui le autorità centrali sono completamente incapaci di controllare il territorio, ma è anche vero per Paesi come l'Egitto, ad esempio.
  Ci sono grandi parti del territorio egiziano che non sono controllate dallo Stato. Pensiamo a quello che succede nel Sinai. C'è, quindi, questo svuotamento dello Stato. C'è l'incapacità dello Stato di esercitare le tradizionali funzioni weberiane di uno Stato.
  Ci sono grandi parti di territorio all'interno di questi Stati che non sono più sotto il controllo delle autorità centrali. Che cosa succede, però? Che la governance, come il potere, non ha mai vuoti. Non sono aree prive di forme di governance, quindi di politica. Esistono forme di governance a livello locale, a livello informale, a livello spesso irregolare e illegittimo e, a volte, anche criminale, ed è questo esattamente il problema. Laddove le autorità centrali sono incapaci di controllare lo Stato, altre forme di governance emergono. In realtà, la storia della mafia non è così differente.
  Il grande tema, dunque, è soprattutto quello che riguarda il mondo arabo. A tal proposito, è importante fare una distinzione. Non sto parlando della regione in toto. Questo non è un problema turco, per intenderci, non è un problema iraniano. È un problema del mondo arabo. Una riflessione che fa capire perché questo modello statuale è così in crisi: a mio avviso, lo si capisce anche ascoltando la retorica di Paesi come l'Arabia Saudita. L'Arabia Saudita dice: «Noi ce l'abbiamo con l'Iran perché interferisce negli affari di altri Paesi arabi». Ovviamente tutti sanno, a partire da loro stessi, che anche loro interferiscono negli affari di altri Paesi arabi, dai bombardamenti nello Yemen ai sequestri di Primi ministri come Hariri e via dicendo.
  In qualche modo, però, un'interferenza di questo tipo, di un Paese arabo in un altro Paese arabo, non è considerata così grave come l'interferenza di un Paese non arabo, quindi persiano (l'Iran), in questi Stati, perché in qualche modo loro stessi, accettando queste forme di interferenza, si stanno quasi svalutando da soli: «tutto sommato lo Stato è una linea disegnata su una cartina, ma non conta così tanto. Noi possiamo interferire negli affari l'uno dell'altro». Ovviamente, chi è potente interferisce negli affari di chi è più debole. Eppure non accettano l'interferenza altrui. Questo fa proprio capire il modo in cui loro stessi si concepiscono in quanto regione.
  Il terzo punto che volevo sottolineare riguarda i conflitti e le crisi e la natura di questi conflitti e crisi nella regione. Sia che si parli dello Yemen, della Libia, della Siria o di chissà cos'altro in futuro, quello che colpisce è che tutti questi conflitti sono caratterizzati da vari livelli. Tali conflitti, in qualche modo, si articolano, si sviluppano a livello locale, a livello nazionale, a livello regionale e a livello globale.
  Pensiamo, ad esempio, alla Siria. Abbiamo un conflitto a Idlib. Il conflitto a Idlib non è esattamente lo stesso conflitto a livello nazionale (tutto il tema, quindi, della transizione politica, di una nuova Costituzione e via dicendo), che a sua volta non è lo stesso conflitto delle rivalità regionali che si sviluppano e si articolano all'interno della Siria stessa, rivalità regionali che possono essere quelle tra Iran e Arabia Saudita così come tra Iran e Israele. Sono varie rivalità, varie competizioni, vari conflitti regionali che hanno come «terreno di gioco» la Siria.
  Allo stesso modo, esiste il livello globale. Un conflitto, sostanzialmente, tra Stati Uniti e Russia, una sorta di Guerra Fredda, si articola attraverso una guerra, una proxy war, quindi attraverso il conflitto siriano.
  Dico tutto questo sui conflitti semplicemente per sottolineare che stiamo parlando di conflitti estremamente complessi. Con il termine «complessi» intendo dire che non sono conflitti semplicemente complicati. Qualcosa di complicato è un qualcosa di molto difficile, ma sostanzialmente Pag. 7lineare. La complessità sta proprio nel fatto che sono conflitti che si sviluppano attraverso vari livelli interconnessi tra loro. Quindi, la difficoltà di risolvere questi conflitti è infinitamente maggiore rispetto a un conflitto semplicemente complicato perché si sviluppa in maniera lineare solamente su un livello.
  Il quarto punto riguarda le rivalità regionali, il grande scontro in corso tra Iran e Arabia Saudita, oramai implicitamente alleato con Israele. Quello che colpisce di questa competizione regionale, a mio avviso, è la strategia che viene seguita. Abbiamo ripetutamente esempi di un Iran che, in maniera estremamente capace, va sottolineato, riesce a sfruttare gli errori e i vuoti lasciati da altri. L'Iran raramente – anzi, sinceramente non mi viene in mente neanche un esempio – è l'attore che fa il primo passo. L'Iran tende ad aspettare. Aspetta l'errore o il vuoto lasciato da altri (questi «altri» tendono ad essere o Arabia Saudita o Israele o, ovviamente, Stati Uniti) e riesce a sfruttare questi errori.
  Pensiamo agli esempi degli ultimi anni, alla mossa avventata dell'Arabia Saudita. Citavo prima il caso di Hariri. L'Iran, senza fare nulla, ha semplicemente aspettato il disastro per poi rafforzare ulteriormente la propria posizione in Libano. Pensiamo alle mosse avventate dell'Arabia Saudita in Qatar. È incredibile, se ci pensiamo. L'Iran è riuscito non dico a diventare «alleato di», perché sono ben lontani da questo, ma sicuramente a ristabilire un rapporto relativamente amichevole, o perlomeno una dimensione molto pragmatica. Chiaramente, non c'è un'affinità ideologica tra i due Paesi. L'Arabia Saudita si è accanita in questo modo con il Qatar e, anche in questo caso, l'Iran non ha fatto molto, ha semplicemente aspettato e incassato.
  Abbiamo l'esempio di Israele e Palestina. Diciamoci la verità: all'Iran della causa palestinese, sotto sotto, interessa ben poco. È sempre stata una cosa sentita fortemente nella cosiddetta «strada araba». L'Iran, se pensiamo a tutto il periodo della monarchia sotto lo Scià, era, anzi, un alleato. Era l'alleato principale, insieme alla Turchia, di Israele nella regione. Solamente a seguito della rivoluzione islamica nel 1979 l'Iran ha fatto un cambiamento, non tanto perché il tema riguardava Israele, quanto perché Israele era alleato degli Stati Uniti, era un contesto di Guerra Fredda e via dicendo.
  Cito il tema della Palestina come un altro esempio di un Iran che riesce a sfruttare gli errori altrui. Per il discorso che facevo prima, ossia che l'interferenza iraniana nei Paesi arabi è vista in maniera molto negativa dalla strada araba stessa, a differenza dell'interferenza di altri Paesi arabi, qual è l'unico modo che l'Iran ha di riconquistarsi la fiducia? Citare la causa palestinese, cui i governi arabi stessi, i regimi arabi stessi hanno completamente abdicato. Vediamo, quindi, questa crescente affinità tra Arabia Saudita e Israele. Anche in questo caso, l'Iran non deve fare granché. Deve semplicemente aspettare e incassare. Ed è esattamente quello che è stato fatto.
  Ovviamente, Trump ha dato una mano fenomenale attraverso la mossa su Gerusalemme, con il grande imbarazzo di Riad, che si faceva promotore del deal – che non sarà più deal of the century. Probabilmente sarà un accordo che non verrà mai presentato, proprio perché è stato completamente svuotato di significato. Anche in questo caso, l'Iran ha semplicemente aspettato e incassato.
  Un ultimo esempio che riguarda l'Arabia Saudita è il caso Khashoggi, che ha completamente indebolito la reputazione dell'Arabia Saudita a livello globale, ma anche nel mondo arabo. Tanto l'Iran quanto la Turchia hanno saputo sfruttare molto questa situazione a loro vantaggio.
  Lo stesso meccanismo, la stessa strategia l'Iran la persegue anche nel suo conflitto con Israele. Anche in questo caso, l'Iran raramente – anzi, mai – è il primo attore a fare una mossa. Può fare provocazioni, ma non è mai l'attore che muove il primo scacco. Lo vediamo anche in questi giorni attraverso i bombardamenti del tunnel di Hezbollah, chiaramente sostenuti da Israele. In questo caso, è Israele che fa la prima mossa. Il tema è capire se l'Iran Pag. 8risponde, quindi se Hezbollah risponde oppure no.
  Per fare il punto, quello che vi sto dicendo è che qui abbiamo una regione che, da un lato, è geograficamente enorme, va – ripeto – dall'Asia centrale fino all'Africa centrale, con tutta una serie di frammentazioni interne, frammentazioni che sono sia all'interno dello Stato (fragilità e implosione dello Stato, soprattutto del mondo arabo), sia con l'esplosione di una serie di conflitti che si articolano su livelli locali, nazionali, regionali e globali, sia una serie di rivalità all'interno della regione, soprattutto tra Arabia Saudita e Iran e tra Israele e Iran.
  Ciò premesso, arrivo al punto: che cosa può fare l'Italia? Francamente nulla. L'Italia, in questo gran delirio, non può fare assolutamente nulla. Può organizzare conferenze, fare un po’ di catering diplomacy (siamo sempre molto bravi a fare questo), ma a livello di politica reale l'Italia non può fare nulla in quanto Italia. Cos'è l'unica cosa che l'Italia può tentare di fare? Influenzare le politiche europee nel Mediterraneo. Questo è l'unico quadro. Siamo di fronte a una situazione così complessa, così grande, con una tale portata storica da renderci piccini. Essendo così piccini, l'unica cosa – ripeto – che possiamo fare è cercare di influenzare un quadro più grande di noi, del quale facciamo parte, che ovviamente è quello dell'Unione europea.
  Con questo non voglio dire – ed è l'ultimo punto che voglio sottolineare – che l'Unione europea ha la bacchetta magica per risolvere tutta questa complessità nella regione. Assolutamente no. L'Unione europea al massimo può rafforzare, costruire alcuni meccanismi, alcuni progetti, ma sicuramente non può risolvere questa situazione.
  Detto ciò, non è che altri attori globali se la stiano cavando molto meglio. Se stiamo parlando ancora di Siria, di Yemen, di Libia e via dicendo è perché nessun altro ha questa bacchetta magica. Che cosa può fare l'Europa? Che cosa ha fatto l'Europa? Sicuramente si è prefissata, oramai da tre anni, tre obiettivi generali che, in realtà, si applicano molto bene a questo quadro mediorientale o mediterraneo, come lo si voglia chiamare. Si è prefissata l'idea di rafforzare la resilienza nella regione, la resilienza dello Stato nella regione, facendo molta attenzione a utilizzare la parola «resilienza» non solamente in termini di governance. Se si vuole rafforzare la resilienza semplicemente dello Stato, in quanto istituzione, questo tende a prender forma nella regione come un rafforzamento di regimi autoritari. No, l'Unione europea dice: «Noi vogliamo rafforzare la resilienza non solamente dello Stato, ma anche delle società». Questa resilienza sappiamo che ha una serie di sfaccettature: governance, economia, livello sociale, quindi società civile, livello di partecipazione politica, livello ambientale, livello energetico e via dicendo.
  Quindi, attraverso tutte le sue politiche, l'Unione europea tenta di diminuire questa fragilità dello Stato, soprattutto nel mondo arabo. Ci sono stati grandi successi? La verità è che non lo sappiamo. Sappiamo che cosa sarebbe successo in Paesi estremamente fragili – come il Libano o la Giordania – se non ci fosse stato affatto un intervento, soprattutto dell'Europa. Forse sì, forse no. Non lo sappiamo. Sicuramente le cose potevano andare ancora peggio e sicuramente c'è stato, comunque, un grande investimento da parte degli Stati membri dell'Unione europea e dell'Unione europea stessa in questi Stati. Cito soprattutto Tunisia, Giordania e Libano come casi che erano e continuano a essere proprio al limite. Insomma, se domani ci dovessimo svegliare con un'implosione dello Stato libanese, probabilmente nessuno di noi sarebbe particolarmente sorpreso, purtroppo.
  L'Unione europea ha fatto qualcosa in Siria? Sicuramente l'Unione europea non è un attore nell'attuale conflitto siriano, ma sappiamo bene che l'attuale conflitto siriano è ancora un conflitto in una fase militare del conflitto, in una fase acuta. È vero che questa fase di violenza acuta è oramai in una fase discendente, ma lo stiamo dicendo già da un anno e mezzo e, comunque, ancora continua questa fase discendente e ancora non si è conclusa.
  L'Unione europea non è un attore in questa fase, e non lo è con orgoglio. Quello Pag. 9che l'Europa ha sempre detto e continua a dire, a mio avviso con ragione, è che non esiste una soluzione militare a questo conflitto e che, quindi, evidentemente non può essere uno degli attori seduti attorno al tavolo in questa fase. Ma quello che continua a dire ormai da due anni è che vuole essere e sarà un attore nella fase post–violenza. Non la chiamo fase post–conflitto, perché il conflitto continuerà per molti anni, se non per decenni, in Siria.
  Ricordo che l'anno prossimo si terrà la terza Conferenza sulla ricostruzione della Siria, in cui è stata assunta una serie di impegni da parte di una serie di Stati e di organizzazioni internazionali per la ricostruzione della Siria, ma il vero dilemma che noi, in quanto europei/occidentali, ancora non abbiamo affrontato è il discorso di cosa vuol dire fare ricostruzione in un conflitto che si è perso militarmente.
  Noi italiani, europei, occidentali in genere siamo abituati a fare la ricostruzione in conflitti che o abbiamo vinto o perlomeno pensavamo di aver vinto, che poi magari non abbiamo vinto affatto. Però, sul momento, quando la ricostruzione è iniziata – si pensi all'Iraq – si riteneva che gli Stati Uniti avessero vinto questa guerra, e quindi siamo andati. Chiaramente, se uno ha la percezione di aver vinto, può imporre tutta una serie di condizioni nella propria ricostruzione e, attraverso queste condizioni, avere un impatto sulla ricostruzione di uno Stato e la ricostruzione di una società. Generalmente, abbiamo fatto un errore dopo l'altro quando abbiamo percorso questa strada, però voglio semplicemente sottolineare che questo è stato il processo.
  Che cosa vuol dire fare ricostruzione in conflitto che si è perso militarmente? Sappiamo benissimo che, quando ci sarà la fine, ad esempio, del conflitto siriano, questa sarà una guerra che è stata vinta, stravinta da Russia, Iran e regime di Damasco di Bashar al–Assad. Chiaramente, loro hanno bisogno dei fondi che provengono dall'Europa, che provengono dall'Occidente, e noi siamo disposti a entrare, ma naturalmente vogliamo entrare non semplicemente per distribuire fondi, ma per far sì che questi fondi abbiano un impatto sul futuro assetto della Siria, però non possiamo pretendere di avere la stessa influenza che avevamo, ad esempio, nei Balcani.
  Temo che questo purtroppo sia un dibattito ancora non approfondito. Abbiamo ancora un po’ il prosciutto sugli occhi, pensando che possiamo semplicemente ripetere l'iter del passato. Quindi, probabilmente sarebbe utile, più prima che poi, iniziare ad affrontare questo discorso.
  Vi potrei fare molti altri esempi, ma non li faccio. Chiudo semplicemente dicendo che, sia che si parli di rafforzamento dello stato all'interno del mondo arabo, sia che si parli di tentativo di risolvere conflitti in tutta la loro complessità, sia che si parli del tema delle rivalità regionali e di come si posiziona l'Europa a tal riguardo, sappiamo che l'Unione europea ha la convinzione che non esiste un assetto mediorientale (qua soprattutto si parla di Medio Oriente) in cui «una parte» possa effettivamente vincere sull'altra, che sia l'Iran sull'Arabia Saudita, o viceversa. Questa chiaramente non è la percezione da parte dell'Amministrazione Trump, era la percezione dell'Amministrazione Obama.
  L'Amministrazione Trump ha fatto la grande scommessa, che sta straperdendo ovviamente, che basta puntare su una parte del conflitto, quindi soprattutto su Arabia Saudita e Israele, e assicurarsi che vinca sull'altra. Purtroppo il problema è che, al massimo, sta avvenendo esattamente il contrario. Quindi, il modo in cui l'Unione europea sta cercando di gestire questi rapporti è nel tentativo, ben consapevoli che siamo ben lontani dal tentare di riconciliare queste parti, di posizionarsi in modo tale da essere considerata – ed è considerata in questo modo – un interlocutore di tutte queste potenze.
  Il tentativo del salvataggio del JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action), quindi l'accordo sul nucleare iraniano, è fatto esattamente in questa luce. Quindi, non è semplicemente il tentativo di salvare un accordo cruciale sulla non proliferazione, non è semplicemente il tentativo di sottolineare che la diplomazia e il multilateralismo funzionano Pag. 10 – perché di fatto il JCPOA è un esempio di multilateralismo, di diritto internazionale e di diplomazia che ha funzionato – è anche perché l'Unione europea ha la profonda convinzione, a mio avviso assolutamente corretta, che la mancanza di un accordo sul nucleare iraniano darebbe il via a una escalation di proliferazione nella regione. Molto probabilmente, se l'Iran, stufo delle sanzioni degli Stati Uniti e dell'effetto delle sensazioni secondarie anche su tutti gli altri Paesi nel mondo, a un certo punto iniziasse a «barare» sull'accordo, questo darebbe il via a un programma nucleare non soltanto in Arabia Saudita, ma molto probabilmente anche in Turchia e in Egitto.
  Questo, chiaramente, è ciò che l'Unione europea tenta di evitare, assolutamente. Quindi, il suo tentativo di salvare l'accordo sul nucleare iraniano è anche fatto alla luce di queste rivalità regionali, non tanto con l'ambizione di risolverle, perché è molto complicato in questo momento risolverle, ma perlomeno di contenerle.
  Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie molte per questa analisi e per questo approfondimento sul tema, che penso siano stati particolarmente utili.

  Do, quindi, la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  LIA QUARTAPELLE PROCOPIO. Grazie mille a Nathalie Tocci per questo sguardo onnicomprensivo su una regione che è difficile sintetizzare.
  C'è un attore nella regione che riesce a fare cose che gli altri non riescono, che è la Russia, che in questi anni di grandi sconvolgimenti globali è avanzata, in questo momento ha buoni rapporti con l'Iran e Israele, con l'Arabia Saudita e per certi versi la Turchia. Insomma, è un grande attore regionale.
  I rapporti difficili dell'Unione europea con la Russia li conosciamo, comunque vorrei chiederle due cose. Innanzitutto vorrei sapere se gli sviluppi in Siria possono essere, e a quali condizioni, un terreno sul quale si ricomincia come Unione europea a parlare con la Russia e poi vorrei avere una sua valutazione sul tema più scottante emerso dalla Conferenza di Palermo, cioè il rapporto Russia–Libia.
  Certamente in questi anni la Russia è stato un attore da tenere informato sulla Libia, al tempo stesso con la Conferenza di Palermo si è aperta una porta alla presenza e alla possibilità che la Russia possa dire la sua sulla Libia, squilibrando una situazione già complicata nel Paese. D'altronde, la Russia entra attraverso un attore, che è Haftar, che non rappresenta tutta la Libia, ed entra con dei rapporti complicati nei confronti di tutti quegli attori libici che hanno a che fare con la Fratellanza musulmana, vicini, lontani, comunque più islamisti rispetto al precedente regime e ad Haftar. Questo, quindi, rischia di essere un nuovo atto nel gioco libico che squilibra oltremodo la situazione e che può mettere anche in discussione gli interessi italiani.

  NATHALIE TOCCI, Direttrice dell'Istituto Affari Internazionali. Faccio innanzitutto una riflessione sulla strategia russa, sugli obiettivi russi e sulle ragioni di questo successo della Russia nella regione.
  Credo che il successo sia dovuto a due fattori. Il primo è il fatto che la Russia non ha obiettivi molto ambiziosi nella regione. Tende ad avere obiettivi piuttosto conservatori. È molto più facile rafforzare o evitare che crolli un regime esistente che tentare di sostenere una rivoluzione, banalmente. Quindi, è molto più facile sostenere Bashar al–Assad, piuttosto che sostenere chi vuole eliminare Bashar al–Assad e, quindi, stabilire un nuovo regime.
  Questo ha fatto sì che la Russia perseguisse anche obiettivi militari molto contenuti. Sappiamo che la Russia è entrata in Siria nel 2014, con Aleppo sostanzialmente, solamente perché in quel momento effettivamente c'era il rischio di un collasso del regime. Una volta messo al riparo il regime, la Russia, chiaramente, ha lasciato una presenza militare in Siria, ma è una presenza che non costa molto e che, quindi, è sostenibile nel tempo. Pag. 11
  Questa prima riflessione la faccio perché, secondo me, è una riflessione che noi europei e occidentali dovremmo fare, cioè quello che è stato e che purtroppo ancora oggi continua a essere il nostro grande errore: la hybris, l'errore di pensare di poter risolvere determinati problemi attraverso lo strumento militare, quindi sostenendo cambi di regime. Questa era un po’ la hybris della fine della Guerra Fredda: la storia sta andando in una determinata direzione, noi dobbiamo semplicemente darle una mano, ma tanto comunque le cose andranno in quel senso. Ebbene, non è così. La Russia questo lo sa bene. In questo senso noi abbiamo da imparare dal modo in cui la Russia si è mossa in Siria.
  Vi è un altro aspetto della questione, che riguarda più la Libia che la Siria, e anche questo dovrebbe portarci a fare una riflessione sulla strategia della Russia, un po’ come quello che dicevo sull'Iran. La Russia è un attore che sfrutta i vuoti e gli errori degli altri. L'influenza russa in Libia risale (se non ricordo male) a un anno e mezzo, due anni fa, non di più.
  Ricordo che ero in un incontro con un gruppo di russi, che vedo abbastanza regolarmente (all'epoca c'era il Governo Gentiloni e l'Italia mostrava una certa cautela nei confronti della Russia, anche se l'Italia è sempre stato un Paese relativamente amico alla Russia, ma da parte dell'opposizione ovviamente il sostegno era molto più forte) e chiesi a questo gruppo di russi: «Sapete che la Libia forse è l'unico Paese in cui l'Italia ha un interesse strategico. Perché state mettendo due dita in un occhio agli italiani? A voi che cosa interessa?». E loro mi hanno risposto dicendo: «Tu pensi troppo. Noi non pensiamo all'effetto secondario che può avere una nostra azione. Noi vediamo la situazione. In questo caso nella Libia c'è un vuoto, l'Occidente sta commettendo una serie di errori, perché non è abbastanza presente, perché sostiene una parte che non riesce effettivamente a conquistare il controllo del territorio, a noi costa relativamente poco e ci dà in qualche modo una carta che ci possiamo giocare in altri scacchieri in futuro: perché non farlo? Ci mettiamo adesso a pensare all'effetto che può avere su un Paese come l'Italia, che è nostro amico? Non ci pensiamo». Io sono rimasta scioccata. Però, credo che sia proprio così. Quindi, perché non farlo?
  È molto simile alla strategia iraniana. Hai un vuoto, un errore commesso da altri, tu lo sfrutti. Comunque, intanto hai incassato qualcosa. Poi vedi come te la giochi.

  YANA CHIARA EHM. Un ringraziamento anche da parte mia per il suo intervento estremamente interessante. In effetti, a pensarci è veramente difficile provare a riassumere, peraltro in così poco tempo, una regione che è vastissima, con problematiche ben distinte, nel mezzo di conflitti complessi e rivalità.
  Provo a fare un breve brainstorming, per poi arrivare a due domande finali.
  Una considerazione che ritengo fondamentale, guardando sia la questione dei conflitti, sia la questione del ruolo dell'Europa e dell'Italia, sia la questione dei flussi migratori, che in questo momento sta diventando un tema centrale in tutto il mondo e riguarda la necessità fondamentale di capire le cose a fondo prima di giudicare e fare azioni; diversamente, si rischia di creare un caos incredibile. E in effetti stiamo andando proprio verso quella direzione, considerato che tutti gli attori presenti in quella regione molto spesso compiono azioni senza prima studiare a fondo la situazione.
  Probabilmente la sua ultima considerazione sulla Russia potrebbe essere uno spunto interessante. Effettivamente siamo in un momento di instabilità molto forte, a partire dall'Europa per arrivare agli altri attori internazionali, per cui questi attori si sentono liberi di tentare, per poi vedere quel che succede. Potrebbe essere interessante, ma anche molto pericoloso in un certo senso, perché così facendo si potrebbero creare danni irreparabili.
  Sui flussi migratori, con il nuovo Governo e la nuova maggioranza stiamo provando a porre particolare attenzione alle radici di queste azioni. Le persone scappano dalle guerre, ma anche dalla povertà, dagli eventi climatici eccetera e, contestualmente, le frontiere nordafricane, come quelle turche, stanno scoppiando. Ebbene, come primo approccio concreto, cosa potrebbe Pag. 12fare l'Italia non dico per risolvere la situazione, perché risolverla è veramente complicato, ma per fare dei primi passi risolutivi in questo senso?
  Sulla questione dei conflitti, facendo parte della delegazione presso l'Assemblea parlamentare dell'Unione per il Mediterraneo, in varie occasioni mi trovo ad ascoltare e interloquire con gli attori principali del Mediterraneo, che effettivamente la questione dei conflitti l'hanno ben presente. Ho trovato molto interessante che, da quando il Presidente Trump ha fatto la sua virata, in maniera un po’ unilaterale, lasciando perdere (lo dico provocatoriamente) altri punti, questi conflitti che non trovano più l'interlocutore che prima c'era – penso al conflitto israelo–palestinese, ma ci sono anche altre situazioni – provano a rivolgersi all'Europa e, quindi, anche all'Italia.
  Alla fine Lei ha detto: «Che cosa può fare l'Italia? Nulla». Ne sono parzialmente consapevole e sono parzialmente d'accordo, anche in considerazione delle richieste all'Unione europea e all'Italia di fare qualcosa, dato che sono sempre stati partner importanti.
  In ultimo, desidero fare riferimento a una visita che ho fatto, qualche settimana fa, in Giordania, dove ho avuto modo di conoscere la politica interna, che sta passando un momento estremamente complesso, e sono d'accordo con il fatto che certamente quei Paesi hanno bisogno di un sostegno, altrimenti diventa tutto veramente complicato.
  Ho avuto anche modo di interloquire sulla questione migratoria, tema su cui desidero porle una domanda. Vorrei sapere se il rafforzamento da parte nostra di Giordania, Libano e Tunisia, tutti e tre attori principali, potrebbe avere importanti risvolti sulla questione della sicurezza regionale, ma anche sulla questione migratoria, specialmente da parte di Siria e Yemen.
  Con riferimento alla questione Iran, credo che il JCPOA sia stato un risultato grandissimo e molto importante. L'Italia sta provando a mantenere i nostri rapporti stabili, anche se effettivamente credo che l'Italia e l'Unione europea siano il fanalino di coda, perché effettivamente le decisioni vengono prese altrove. Vorrei sapere quali potrebbero essere, secondo lei, i passi necessari per uscire da questo stallo e per riportare la stabilità e la pace in questa questione, visto che l'Iran comunque rimane un partner fondamentale.
  Grazie.

  NATHALIE TOCCI, Direttrice dell'Istituto Affari Internazionali. Sulla migrazione che cosa possiamo fare? Innanzitutto possiamo iniziare a essere un pochino più onesti con noi stessi (questo non guasterebbe) ammettendo che questo non è un fenomeno che si può bloccare. Noi possiamo fare tutto il lavoro che vogliamo sulle radici, e via dicendo, questo non fermerà la migrazione. Quindi, già questo primo passo è conditio sine qua non per articolare una politica che abbia un senso e, quindi, possa essere efficace.
  Perché faccio questo discorso dell'ammissione? Qual è l'unico modo per affrontare realmente questo problema? Anzi, prima ancora di affrontarlo, sollevo un altro punto sul perché la narrazione che abbiamo utilizzato fino adesso è, comunque, una narrazione sbagliata. È un totale errore empirico dire che lo sviluppo porta a una riduzione dei flussi migratori. Tutta l'evidenza ci fa vedere che è esattamente il contrario: quando aumenta lo sviluppo, aumenta anche la migrazione.
  Se andiamo a vedere quali sono i Paesi di origine dai quali provengono i flussi migratori, non stiamo parlando dei Paesi più poveri dell'Africa. Perché? Perché costa migrare. Quindi, chi migra è chi in realtà è in ascesa sulla scala sociale. Chiaramente, stiamo parlando comunque di condizioni di estrema povertà, quindi è tutto relativo quello che sto dicendo, naturalmente. Però, è proprio quando uno inizia ad avere un assaggio di che cosa potrebbe voler dire avere una vita migliore che fa i salti mortali per iniziare questo viaggio.
  Chiaramente arriva un punto in cui lo sviluppo è tale che non c'è più un incentivo a migrare. Nessuno ha un incentivo a migrare se le condizioni nel proprio Paese sono adeguate, sono migliori. Però, stiamo parlando di un processo che dura venti o Pag. 13trent'anni, bene che vada. Quindi, non è qualcosa che oggi iniziamo ad aiutarli a casa loro ed ha un impatto tra sei mesi, tra un anno o tra cinque anni sulla migrazione. No.
  Che cosa si può fare, quindi, non per bloccare questi flussi, cosa impossibile, che peraltro ci mette anche mentalmente in una condizione tale da rendere impossibile l'articolazione di una politica efficace, ma per governare questo fenomeno, che è un fenomeno strutturale che sempre c'è stato e sempre ci sarà? Offrendo dei pacchetti, che siano pacchetti di offerta ai Paesi di origine o ai Paesi di transito. Chiaramente l'offerta che viene fatta cambia a seconda che si parli di Paesi di origine o di Paesi di transito.
  All'interno di questi pacchetti che cosa ci possiamo mettere? Sicuramente c'è una componente di cooperazione allo sviluppo, benissimo. Ma quella è una minima parte perché – lo ripeto, questo è lo spunto che ho sottolineato anche prima – in realtà quello che noi diamo a loro attraverso la cooperazione allo sviluppo è esattamente un terzo di quello che loro guadagnano attraverso le rimesse dei migranti. Quindi, semplicemente il gioco non vale la candela.
  A questa componente di cooperazione allo sviluppo, quindi, noi dobbiamo aggiungere – l'offerta varierà da Paese a Paese, naturalmente – una componente di dialogo politico, una componente di cooperazione in materia di sicurezza, una componente di politiche commerciali che sono nell'interesse di quei Paesi e non dei nostri. Le nostre politiche commerciali favoriscono noi e non loro. No, noi dobbiamo deciderci: cos'è che vogliamo meno, l'olio tunisino o il migrante tunisino? Dobbiamo scegliere. Non possiamo avere le due cose. Quindi, un pacchetto che comprende politica commerciale, dialogo politico, cooperazione allo sviluppo, cooperazione in materia di sicurezza, più naturalmente una componente di migrazione legale.
  Per questo sono partita ponendo quella domanda e dando quella risposta. Che cosa possiamo fare? Ammettere. Ammettere il fatto che, al massimo, quello che possiamo fare è trasformare un flusso irregolare, che pone effettivamente dei problemi di sicurezza, in un flusso regolare. Questo è quello che possiamo fare. Ma se non ammettiamo con noi stessi che la migrazione è inevitabile, non riusciremo mai a metterci mentalmente nella condizione di iniziare un negoziato su pacchetti di questo genere.
  Sul discorso dei conflitti, in particolar modo quello che coinvolge Israele e Palestina, e sullo sbilanciamento del Presidente Trump e l'opportunità che questa può o non può presentare per l'Italia e per l'Europa, io sono d'accordo con Lei. A mio avviso, la politica estera europea non è semplicemente la politica estera delle istituzioni europee. La politica estera europea è una politica estera fatta di ventotto Paesi (chi lo sa, forse ventisette a questo punto, non lo so neanch'io) più le istituzioni europee. Quella è la politica estera europea.
  Ci sta che un gruppo di Stati membri porti avanti una determinata iniziativa politica con il cappello europeo. In questo senso dico che l'Italia, in quanto Italia, sola non può fare assolutamente nulla. L'Italia – può essere nel caso Israele e Palestina, così come può essere in altri casi – che si unisce alla Francia, alla Germania e alla Svezia su un determinato conflitto (naturalmente ci può essere qualunque configurazione) e attraverso un collegamento con le istituzioni europee porta avanti un'iniziativa e lo fa con il capello europeo, lì certo che può esserci un impatto. Non a caso qua faccio il passaggio al JCPOA: da chi è stato negoziato? Da tre Stati membri, con il cappello dell'Unione europea attraverso il ruolo dell'Alto Rappresentante. Quello è stato il gruppo di contatto, e nessuno nega che sia stato un successo europeo. Quindi, facciamo la distinzione tra istituzioni e politica estera europea, che ovviamente include un ruolo estremamente attivo degli Stati membri, a partire dall'Italia, ma lo devono fare in questo quadro europeo.
  Con riferimento a cosa fare con Paesi come Giordania, Tunisia e Libano e se stiamo facendo abbastanza, come Lei ha giustamente sottolineato, se non avessimo fatto quello che abbiamo fatto, sicuramente Pag. 14 le cose sarebbero andate molto peggio.
  Questo nostro rafforzamento della statualità di questi Paesi non ha evitato del tutto, ma ha un minimo prevenuto il fatto che non si siano schierati in maniera troppo esplicita da una parte o dall'altra in quelle che sono le rivalità regionali. Il caso più evidente è quello del Libano, che proprio per la sua complessità interna è sempre stato estremamente attento nel suo posizionamento.
  Ed è esattamente quello che dobbiamo cercare di fare: rafforzare la resilienza di questi Stati, che passa anche attraverso una loro «indipendenza» da un punto di vista di politica estera e di geopolitica.
  L'ultimo punto riguarda l'accordo sul nucleare iraniano. Che cosa possiamo fare, se stiamo facendo abbastanza e via dicendo. Se la domanda è: arriviamo al 2020 e Trump viene rieletto Presidente degli Stati Uniti. Si può salvare il JCPOA? La mia risposta è molto netta: no. Possiamo fare tutti i salti mortali di questo mondo, inventarci tutti i meccanismi di questo mondo, ma questo è un accordo che ha alla sua radice un contratto sociale che prevede l'eliminazione di tutte le sanzioni collegate al nucleare in cambio del contenimento del programma nucleare iraniano. Se una parte, quella statunitense, viene meno, si può cercare di stiracchiare un po’ questo contratto sociale, di allungare i tempi, ma alla fine cade il cuore dell'accordo.
  Stiamo facendo abbastanza per persuadere gli iraniani a rimanere nell'accordo da qui al 2020? Sì. La mia risposta non sarebbe stata così netta due mesi fa. Siamo partiti un po’ a rilento. Su quelle dichiarazioni, chiaramente, siamo partiti a bomba sin dall'inizio («faremo di tutto per sostenere l'accordo» e via dicendo). Abbiamo già attraversato una prima fase in cui inutilmente abbiamo cercato – per «noi» intendo, in questo caso, Francia e Regno Unito, soprattutto; di meno la Germania – di convincere Trump a rimanere nell'accordo. Tentativo, come sappiamo, assolutamente fallito. Arrivati all'estate, abbiamo iniziato un pochino ad ingranare, però attraverso misure di natura piuttosto simbolica, quello che viene definito «blocking regulation», che però – senza entrare nei tecnicismi – ha un impatto di natura più simbolica che concreta. In ogni caso, è stato un primo passo.
  Vi è stato, poi, un credito di 30 milioni per le piccole e medie imprese che vogliono investire in Iran. Adesso c'è la grande sfida del cosiddetto «SPV», Special Purpose Vehicle. Che cosa sarebbe? Un meccanismo finanziario, una piattaforma finanziaria che permette una sorta di baratto, mettiamola così. Tutto quello che noi importiamo dall'Iran, le nostre importazioni e le nostre esportazioni non passano attraverso scambi finanziari, ma attraverso uno scambio di valore. Questo meccanismo inizialmente lo abbiamo portato avanti un po’ «all'europea». Francesi, tedeschi e britannici sono partiti dicendo: «Dobbiamo creare questo meccanismo finanziario. Sarebbe molto bello se lo potesse ospitare l'Austria». L'Austria si è chiesta il motivo – stiamo parlando di un Paese piuttosto piccolo – e, sotto pesante pressione statunitense, ha risposto di no.
  A questo punto, che cosa sta accadendo? Il tutto si sta ancora definendo nei suoi dettagli, ma l'iniziativa sta andando avanti. Francesi e tedeschi hanno detto: «A questo punto ci rendiamo conto – per citare un proverbio iraniano – che non possiamo nuotare senza bagnarci. Quindi, se vogliamo salvare l'accordo nucleare dobbiamo, ahimè, pagare un costo. In merito a questo costo, ossia l'ira americana, dobbiamo in qualche modo condividere la pena. Che cosa facciamo? Creiamo questo meccanismo finanziario che sarà territorialmente basato in un Paese, però sarà legalmente registrato anche nell'altro», in modo che se gli americani se la devono prendere con qualcuno se la prendono sia con la Francia sia con la Germania.
  Questi tentativi, con questa accelerata di iniziative, hanno assunto sempre più una valenza concreta per gli iraniani, nonostante il tutto sia insufficiente nel lungo periodo, e hanno mandato agli iraniani un messaggio estremamente importante, ossia che in realtà siamo abbastanza seri e onesti nel dire che vogliamo salvare questo accordo. Pag. 15 Per una lunga fase, gli iraniani pensavano che ci fosse una sorta di good cop/bad cop, un giochetto tra americani e europei. Il poliziotto buono e il poliziotto cattivo. Adesso gli iraniani si rendono conto che siamo disposti a pagare il prezzo di una rottura con gli Stati Uniti per tentare di salvare questo accordo. Questo ha cambiato il loro approccio, la loro impostazione. Aggiungiamo a questo il fatto che dobbiamo chiederci che cosa hanno da guadagnare gli iraniani oggi nel violare l'accordo.
  Come ultimo punto, è importante sottolineare il motivo per cui gli iraniani all'epoca avviarono il loro programma nucleare. Era un problema di status, un problema di sicurezza. Come sappiamo, il grande rivale dell'Iran nella regione, ossia Israele, ha l'arma nucleare. Gli iraniani, quindi, avevano iniziato proprio per motivi legati alla loro percezione della loro sicurezza. Come dicevo durante la presentazione prima, gli iraniani non stanno vincendo nella regione, stanno stravincendo. In realtà, hanno meno bisogno di un programma nucleare, quindi non hanno grande interesse a violare quest'accordo, che peraltro li pone per la prima volta, dal 1979, in una situazione in cui il paria internazionale sono gli Stati Uniti e non loro. Non è male come situazione. In più, stanno pure vincendo nella regione. A mio avviso, da adesso al 2020, rimarranno nell'accordo.
  Ripeto, quello che succederà dopo il 2020, laddove dovesse essere rieletto Trump, è tutta un'altra storia.

  SIMONE BILLI. Grazie, dottoressa, per la presenza e la disponibilità qui oggi.
  Vorrei chiederle rapidamente cosa ne pensa della tassazione sulle rimesse prevista in finanziaria.

  NATHALIE TOCCI, Direttrice dell'Istituto Affari Internazionali. Sulle rimesse dei migranti? Francamente, non ne vedo molto il senso. Quale deve essere la ratio? Ritorno alla riflessione sul pacchetto complessivo. Il pacchetto complessivo serve per capire in che modo assicurare e dare incentivi sufficienti allo Stato di origine X, Y, Z affinché collabori con noi per un'effettiva gestione di questo fenomeno.
  Noi possiamo ragionare in questi termini: anziché aggiungere quello che diamo, riduciamo. Questo, però, avrebbe un impatto sull'incentivo dell'individuo, non sull'incentivo dello Stato a collaborare con noi nella gestione del fenomeno. Noi, quando negoziamo, non negoziamo con gli individui. Negoziamo con gli Stati. Per carità, magari ci guadagniamo qualcosa, ma stiamo veramente parlando di noccioline.
  Sicuramente non cambia l'incentivo dello Stato di origine a collaborare con noi sulla gestione del flusso. Quello che crea un incentivo per lo Stato di origine a collaborare con noi sulla gestione dei flussi – ripeto – sono pacchetti che prevedono migrazione legale, politica commerciale, cooperazione allo sviluppo, tutta una serie di incentivi, non disincentivi. In questo modo, effettivamente, a loro conviene di più collaborare con noi anziché chiudere un occhio.
  Questo è il tema.

  VITO COMENCINI. Il mio sarà un intervento veloce, so che è già tardi.
  La ringrazio, innanzitutto, per le cose molto interessanti che ha detto e per le analisi fatte.
  In merito alla questione della Libia e alla criticità che c'è in questo momento con la divisione e così via, vorrei chiederle quanto è ancora forte il pericolo del Daesh o del fondamentalismo islamico nella zona ancora sotto il loro controllo, quanto, quindi, può essere ancora un pericolo che può dilagare.

  NATHALIE TOCCI, Direttrice dell'Istituto Affari Internazionali. È chiaramente ancora un pericolo, che si chiami Daesh che si chiami Hakim e via dicendo.
  Il tema è questo. Man mano che la dimensione mediorientale è stata risolta, anche se questa è la parola sbagliata, diciamo «contenuta», perlomeno in questa sua dimensione, perché sappiamo la fine che ha fatto Daesh in Siria, in Iraq e via dicendo, c'è stato uno spostamento nella fascia in Libia, in tutta la fascia del Sahel. Pag. 16Chiaramente, questo è un problema e continuerà ad essere un problema.
  Detto ciò, come sappiamo, la vera minaccia terroristica è una minaccia interna. Questi crimini generalmente vengono commessi da cittadini europei che spesso hanno avuto esperienze fuori, che sia l'Afghanistan di quindici–venti anni fa, che sia la Libia di oggi o la Siria di ieri. Sappiamo che tendono a esserci questi percorsi, ma sono cittadini europei che hanno diritto di tornare in Europa, laddove non sono schedati. A volte – lo abbiamo visto adesso a Strasburgo – anche quando hanno una bella «S» chiara e marchiata, questo non impedisce a un attentato di verificarsi. È un problema, quindi, che esiste e che persiste.
  Quando si verificano avvenimenti come quelli dell'altro ieri ce lo ricordiamo. Tendiamo a dimenticarcene finché non succede qualcosa. Purtroppo, è difficile immaginare di risolvere una cosa del genere in maniera netta nel breve periodo. Dal momento che si parla soprattutto di un problema intraeuropeo, l'unico modo per tentare di contenere sempre di più, per poi arrivare a risolvere, è una cooperazione intraeuropea in primis. Come sappiamo, uno dei problemi principali che abbiamo nell'affrontare la minaccia terroristica sta proprio nel fatto che i nostri servizi non sono collegati tra loro. Questo è il grande problema dell'Europa ed è quello che la rende così fragile.

  PRESIDENTE. Ringrazio nuovamente la dottoressa Tocci. Speriamo di poter continuare ad approfondire il tema del Mediterraneo, nello specifico con lo IAI.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 10.05.