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Comunicati stampa

08/06/2015
Intervento della Presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini. Presentazione del Rapporto sullo stato sociale. Facoltà di Economia, Sapienza, Università di Roma
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Saluto il Rettore prof. Eugenio Gaudio, il Preside della Facoltà di Economia prof. Giuseppe Ciccarone, la professoressa Silvia Fedeli, Direttrice del Dipartimento di Economia e Diritto e il prof. Roberto Pizzuti, curatore del Rapporto. Un saluto agli altri relatori e a tutti i presenti, in particolare alle studentesse e agli studenti.

Questo rapporto è una denuncia forte, non una sequenza di numeri. Dà un'interpretazione di quello che non ha funzionato, di quello che è stato fatto e soprattutto di ciò che non è stato fatto per contrastare il declino del nostro sistema di welfare. Bisogna partire da qui, da questo declino, per avviare un confronto politico serio e responsabile su come rispondere ad un malessere sociale che è sempre più profondo e diffuso. Se molte persone non vanno a votare è perché c'è questo malessere diffuso.

Dobbiamo allargare la lente. Ripartiamo dal welfare della Grecia, da ciò che sto accadendo in quel Paese (che conosco bene per averci lavorato quando ero portavoce dell'Unhcr). Quando ci sono stata in visita istituzionale ho voluto verificare anche come fosse cambiata la realtà sociale. I dati sono clamorosi. L'aumento di bambini abbandonati negli orfanotrofi è del 330 per cento. Anche il tasso di mortalità infantile è aumentato come se la Grecia fosse un Paese in via di sviluppo. Un terzo dei greci - parliamo di circa tre milioni di persone - non ha copertura sanitaria. Il potere di acquisto di un intero popolo è diminuito del 40 per cento. Come quelle del Rapporto, anche queste non sono cifre fredde. Parlano in modo chiaro di ciò sta succedendo in Europa, di cosa sta diventando il nostro continente. Questo accade perché le politiche economiche degli anni passati hanno privilegiato, sul piano europeo e nazionale, l'obiettivo del consolidamento fiscale, sacrificando altre esigenze, in primo luogo quelle della crescita e dell'occupazione, con gravi conseguenze soprattutto per le fasce più vulnerabili della popolazione. L'Europa sembra avere dimenticato il suo Dna originario, altrimenti tutto questo non succederebbe. Ha dimenticato il Trattato sull'Unione, il titolo primo che parla della dignità delle persone, dell'uguaglianza, dei diritti umani. Il resto - unione monetaria, economica, ecc - viene dopo, prima c'è questo. Ci si è persi lungo la strada, abbiamo dimenticato perché esistiamo come Unione europea, cosa ha spinto tanti Paesi a mettersi insieme. L'Europa era il continente dei diritti umani e del welfare: per questo era il riferimento del mondo, e mi auguro che continui ad esserlo.

L'Italia risulta purtroppo uno dei paesi più penalizzati da queste tendenze. Nel nostro paese la diseguaglianza fra le classi sociali, dagli anni '80 ad oggi, è cresciuta del 33% contro una media OCSE del 12% - il triplo, quindi - e il 53% degli italiani resta inchiodato al suo ceto di origine. Questo vuol dire che non c'è mobilità, che l'ascensore sociale è fermo. E mentre il 40% della popolazione italiana nel 2013 aveva un lavoro non standard spesso insicuro e non adeguatamente pagato, è clamoroso il dato sugli stipendi dei super manager e su quanto sia cresciuto il divario rispetto alla retribuzione dei loro dipendenti. Credo allora che questo aspetto non sia sostenibile e che tale squilibrio vada riconsiderato. Adriano Olivetti sosteneva che "nessuno dovrebbe guadagnare dieci volte di più rispetto all'ultimo dei dipendenti". Negli anni '80 questo rapporto era di 40 a 1 negli Stati Uniti e di 20 a 1 nell'Europa occidentale. Ora si è impennato fino a 500 volte lo stipendio medio dei dipendenti. In questi anni poi il nostro sistema produttivo ha cercato di competere nei nuovi mercati internazionali puntando anziché sugli investimenti per l'innovazione e la ricerca, quasi esclusivamente sulla riduzione del costo del lavoro e sulla flessibilità. Purtroppo, i dati dimostrano che si è trattato di una strategia non lungimirante perché non è valsa ad impedire la perdita di quote di mercato e il declino della produzione. Come ha dimostrato nei suoi lavori Joseph Stiglitz, non è vero che la diseguaglianza rappresenti un incentivo alla competizione e alla crescita complessiva dell'economia. E' vero esattamente il contrario: l'insicurezza economica, la mancanza di protezioni nel rapporto di lavoro, la crescente distanza con élite sempre più ristrette portano con sé declino economico, instabilità politica, una più generale rottura del patto sociale. In una parola, la diseguaglianza crescente fa venir meno nel corpo sociale il collante forse più essenziale del nostro stare insieme: la speranza. E ciò è tanto più vero in Italia, dove alla diseguaglianza si aggiunge il blocco dell'ascensore sociale, la progressiva riduzione delle opportunità di crescita nelle prospettive di vita dei singoli e delle famiglie. Lo conferma il numero drammatico dei giovani disoccupati e dei cosiddetti NEET, i giovani fra i 15 e 29 anni che non studiano, non fanno formazione, né lavorano e che in Italia sono cresciuti costantemente dal 2005, attestandosi nel 2013 al 26 % del totale, oltre dieci punti sopra la media UE.

Se non contrastiamo questa tendenza, vedremo inevitabilmente crescere nei cittadini i sentimenti di esclusione che alimentano anche la cosiddetta antipolitica e atteggiamenti di rabbia e intolleranza, magari contro altre componenti ancora più vulnerabili della società, come ad esempio gli immigrati. E' la sindrome di Rosso Malpelo: ce la dobbiamo pur prendere con qualcuno, no?

Il sostegno ai redditi più bassi deve essere assunto come assoluta priorità. Le strade possono essere diverse, dal reddito di cittadinanza al reddito minimo garantito, dall'uso della leva fiscale, accentuandone la progressività, al supporto alle famiglie più bisognose. Comunque sia, bisogna scegliere ed agire. Il tempo è scaduto. Bisogna tenere a mente che la disuguaglianza fa male a tutti, nel medio e lungo termine, mentre ridurre la disuguaglianza è un'azione che va a vantaggio del Paese intero. Tra i fattori che maggiormente determinano questo disagio sociale c'é indubbiamente l'indebolimento degli strumenti di welfare. Questo indebolimento lascia milioni di persone senza tutela e scarica il peso dell'assistenza sulle famiglie. Anzi, lo scarica soprattutto sulle donne, che devono fare tre-quattro lavori insieme, che si devono occupare di due-tre famiglie. Anche questo è uno spreco di risorse. Ce lo dice l'Ocse, ma anche il Fondo Monetario Internazionale. Non favorire l'accesso delle donne al mondo del lavoro ci danneggia come Paese in termini di Pil: il Fondo Monetario parla di una penalizzazione del 15 per cento del Pil potenziale.

Le politiche economiche nazionali ed europee vanno dunque radicalmente ripensate, riportando al centro i concreti bisogni dei cittadini e non astratti parametri fiscali. Non si vince la competizione globale con una corsa verso il basso nelle protezioni sociali, né si può pensare di governare l'Europa con la sola ingegneria monetaria, come ammoniva profeticamente già nel 1979 Federico Caffè, giustamente ricordato nel vostro rapporto. Queste sfide si vincono puntando su ricerca e innovazione - anziché tagliando i fondi, come è accaduto anche recentemente -, migliorando la qualità dell'istruzione, aumentando l'inserimento delle donne nel mondo del lavoro. Sono tre misure che tutti ci raccomandano di mettere in atto. E' questa la prospettiva capace di fare ripartire la crescita e di riportare anche il progetto europeo all'altezza delle speranze dei suoi fondatori.

Pochi giorni fa ho compiuto una visita istituzionale in America Latina e sono stata anche in Brasile. Il paese è un major player, come si usa definire i Paesi emergenti che sono riusciti a farsi largo. Certo, anche in Brasile oggi c'è una diminuzione della crescita: ma questo non può in alcun modo sminuire ciò che lì è stato fatto. Le politiche sociali di quel Paese hanno ridotto la povertà e la fame: ben 30 milioni di persone in pochi anni sono uscite dalla morsa della fame. Questo accade quando al centro delle politiche si mettono gli interessi dei cittadini, il futuro del proprio Paese. La politica può fare la differenza, non è vero che siamo tutti uguali, una politica può essere diversa da un'altra.

Dobbiamo allora essere consapevoli che l'Italia ce la può fare, che siamo un grande Paese che ha saputo superare tante prove difficili. Che ha saputo risorgere dalle macerie materiali e morali della guerra, sconfiggere il terrorismo, affrontare altre fasi di difficile congiuntura economica. Le potenzialità ci sono, bisogna però indirizzarle nella direzione giusta.

Ogni generazione ha una missione da svolgere. Quella dei nostri padri e dei nostri nonni ha dovuto impegnarsi nella ricostruzione post-bellica e nella modernizzazione del paese. Alla mia generazione è toccato l'impegno dell'affermazione di nuovi diritti civili e sociali per tutte le persone. Ai giovani di oggi il compito di farsi classe dirigente e di guidare il nostro paese fuori dalle difficoltà che lo attanagliano e di portare a compimento il progetto dell'unificazione europea valorizzando i suoi tratti originari che erano quelli di uno spazio condiviso di libertà e di giustizia sociale.

Alla politica, alle istituzioni, il compito di porre le condizioni perché ciò avvenga. In questo senso il vostro rapporto dà un contributo importante e costituisce al tempo stesso un monito per scelte che non sono ormai più rinviabili.

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