Sulla pubblicità dei lavori:
Ferranti Donatella , Presidente ... 3
INDAGINE CONOSCITIVA IN MERITO ALL'ESAME DEL DISEGNO DI LEGGE C. 1921 GOVERNO, DI CONVERSIONE IN LEGGE DEL DECRETO-LEGGE N. 146 DEL 2013, RECANTE MISURE URGENTI IN TEMA DI TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DEI DETENUTI E DI RIDUZIONE CONTROLLATA DELLA POPOLAZIONE CARCERARIA
Audizione di Sebastiano Ardita, Procuratore della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di Messina e di Raffaele Cantone, Magistrato della Corte di Cassazione.
Ferranti Donatella , Presidente ... 3
Ardita Sebastiano , Procuratore della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di Messina ... 3
Cantone Raffaele , Magistrato della Corte di Cassazione ... 6
Colletti Andrea (M5S) ... 8
Bonafede Alfonso (M5S) ... 8
Ferranti Donatella , Presidente ... 8
Ardita Sebastiano , Procuratore della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di Messina ... 9
Cantone Raffaele , Magistrato della Corte di Cassazione ... 10
Ferranti Donatella , Presidente ... 11
Cantone Raffaele , Magistrato della Corte di Cassazione ... 11
Bonafede Alfonso (M5S) ... 11
Cantone Raffaele , Magistrato della Corte di Cassazione ... 11
Dambruoso Stefano (SCpI) ... 12
Ardita Sebastiano , Procuratore della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di Messina ... 12
Ferranti Donatella , Presidente ... 12
Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: FI-PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Nuovo Centro-destra: NCD;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Per l'Italia (PI);
Fratelli d'Italia: FdI;
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DONATELLA FERRANTI
La seduta comincia alle 11.05.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
Audizione di Sebastiano Ardita, Procuratore della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di Messina e di Raffaele Cantone, Magistrato della Corte di Cassazione.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione, nell'ambito dell'indagine conoscitiva in merito all'esame del disegno di legge C. 1921 Governo, di conversione in legge del decreto-legge n. 146 del 2013, recante misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria, di Sebastiano Ardita, Procuratore della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di Messina e di Raffaele Cantone, Magistrato della Corte di Cassazione.
Do quindi la parola al Procuratore della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di Messina, Sebastiano Ardita.
SEBASTIANO ARDITA, Procuratore della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di Messina. Grazie, presidente. Cercherò di sintetizzare i temi, riassumendo le questioni che sono oggetto del decreto-legge di cui oggi si discute.
La questione del sovraffollamento penitenziario, che sembrerebbe oggetto principale del decreto-legge, è legata a una molteplicità di fattori. In questa sede mi limiterò a enunciarne solo alcuni, per valutare insieme gli strumenti in esso adottati per affrontare il sovraffollamento.
I fattori sono l'aumento oggettivo dei crimini in termini numerici, legato a più fattori quali la criminalità organizzata, il disagio sociale, l'immigrazione clandestina, e l'aumento dell'area del penalmente rilevante. Sono infatti aumentate esponenzialmente le ipotesi di reato previste nell'ambito del sistema penale, anche a fronte di situazioni emozionali che hanno riguardato l'opinione pubblica (le fattispecie previste per lo stalking e per situazioni meno rilevanti quali ad esempio il maltrattamento degli animali)
A questi si aggiungano il mancato investimento in nuove strutture penitenziarie e nell'ampliamento delle stesse, una scarsa capacità di localizzare le strutture presso i luoghi di raccolta dei detenuti (i grandi centri) e infine una generale, scarsa capacità di utilizzare il carcere, risorsa limitata e rilevante, come strumento di controllo del crimine, secondo il principio internazionale del Crime control.
Questa non è la sede per affrontare tutte queste questioni, ma occorre valutare esattamente i termini del decreto-legge per capire se attraverso queste misure si ottenga lo scopo di sfollare le carceri e quale sia il criterio d'urgenza per farlo.
Nella parte che riguarda i due articoli sui quali ho espresso alcune riflessioni per iscritto, ossia l'articolo che prevede la liberazione anticipata speciale e quello che Pag. 4prevede un procedimento speciale di reclamo giurisdizionale dei detenuti, il decreto-legge sembrerebbe aver adottato la soluzione di aumentare la possibilità di raggiungere la libertà attraverso l'incremento dei giorni previsti per la liberazione anticipata da 45 a 75 giorni.
Premetto che la liberazione anticipata è la più controversa delle misure alternative alla detenzione, perché è vero che presuppone la partecipazione all'opera di rieducazione, ma bisogna considerare che l'offerta trattamentale per i detenuti, specie per i più pericolosi, è limitata a poche attività, quali i rapporti con la famiglia, l'attività sportiva o ricreativa, quindi attività per occupare il tempo libero alle quali è difficile che un detenuto anche pericoloso non partecipi.
Questo non significa che abbia rotto il suo rapporto con la realtà criminale o modificato il suo modo di intendere l'esistenza reintegrandosi nella società, ma è sufficiente che abbia mantenuto una buona condotta.
La liberazione anticipata è una delle misure alternative previste, però, mentre per le altre misure alternative (l'affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare, i permessi premio) è previsto uno sbarramento, in quanto non si può accedere a queste misure se si è detenuti di mafia e si è commesso un particolare delitto di quelli previsti all'articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975, per la liberazione anticipata questo sbarramento non c’è, quindi spetta a chiunque.
L'effetto deflattivo consiste quindi nel consentire a un certo numero di detenuti di raggiungere prima la libertà, dando uno sconto di pena, perché il presupposto è provare di aver seguito l'opera di rieducazione, cioè di aver partecipato alle attività prima citate.
In termini concreti, numerici, questa misura non è in grado di operare uno sfollamento consistente dei detenuti, perché è come tentare di svuotare il mare con un guscio di noce. Si avrà invece l'effetto di incidere su una fascia peculiare di popolazione detenuta, quella dei detenuti con pene lunghe, perché il provvedimento sarà applicabile a partire dal 1 gennaio 2010 e per i 2 anni successivi alla sua pubblicazione, quindi per 6 anni.
Chi ha quindi una pena di 6 anni o superiore avrà il massimo dell'applicazione del beneficio, mentre chi sconta una pena modesta avrà un beneficio proporzionale all'entità della pena. Un detenuto condannato per l'associazione mafiosa che stia in carcere dal 1 gennaio 2010 dopo circa 3 anni e 6 mesi riacquisterà la libertà, in quanto lo sconto di pena sarà pari a 2 anni e mezzo.
Il profilo che più rileva in questa sede è la circostanza che, non essendovi sbarramento, vi è la possibilità di favorire l'uscita dei soggetti più pericolosi dal punto di vista criminale. Cercando di trarre dunque le conclusioni su questo articolo 3, la soluzione al problema del sovraffollamento sembrerebbe perseguita attraverso una scelta di rinuncia, sia pure indiretta, alla pena.
A chi conosce il meccanismo dei flussi di entrata e di uscita dei detenuti questa scelta non sembra adeguata a ottenere lo scopo deflattivo che si vorrebbe perseguire. L'individuazione dei soggetti da far uscire avviene partendo dai più pericolosi. Si parla di «indulto mascherato», ma mi permetto di dire che è più di un indulto mascherato, perché, mentre l'indulto opera in modo lineare e uguale per tutti per cui, se si dà un indulto di un anno di pena, tutti i detenuti avranno un anno di sconto, con questo meccanismo lo sconto cresce con il crescere della pena, quindi riguarda i più pericolosi e poi tutti gli altri, a decrescere.
Si è detto che questa decorrenza dal 2010 sarebbe motivata dal fatto che i detenuti avrebbero un risarcimento per il sovraffollamento patito, ma questa affermazione con riferimento ai detenuti di mafia è assolutamente contrastante con la realtà, perché i detenuti mafiosi vengono allocati normalmente in celle singole, i 41-bis e gli A.S.1 dal 2010, epoca nella quale ero al DAP (Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria), per ragioni di maggiore prevenzione e sicurezza e comunque Pag. 5anche gli altri, A.S.2 o A.S.3 stanno sempre in spazi compatibili con i criteri del sovraffollamento.
Il sovraffollamento ha riguardato quindi i detenuti meno pericolosi, che sono stati stipati a decine nelle sezioni penitenziarie. Avremmo dunque l'effetto di risarcire per il sovraffollamento patito da altri quei soggetti che non lo hanno patito, e che sono i più pericolosi.
Questi dispiegati dal provvedimento sono effetti sostanzialmente irretrattabili, perché nei provvedimenti della sorveglianza già sono stati applicati in più circostanze sconti di pena legati alla liberazione anticipata e, siccome si tratta di norme penali, anche se il decreto non verrà convertito, emergerà un problema serio, perché queste norme hanno avuto vigore e quindi varrà il principio della retroattività della norma penale più favorevole, né è pensabile che si possa togliere un beneficio già concesso con un provvedimento.
Sarà molto complesso, però si potrà lavorare per il futuro. Quello che è accaduto con riferimento alla liberazione anticipata retroattiva non si può più modificare, ma per il futuro si potrebbe operare.
Sul piano tecnico l'operazione fatta consiste nell'operare con un meccanismo che ha effetti più che proporzionali rispetto all'indulto sulle pene lunghe e quindi dal punto di vista del Crime control molto pericoloso, con un'invisibilità legata al fatto che si trova inserito in una disposizione che prevede misure alternative alla detenzione.
Con il trattamento penitenziario, però, questa misura non ha nulla a che spartire, perché il principio della rieducazione, anche per un penitenzialista dilettante come colui che vi parla, passa attraverso una interazione che presuppone sacrificio, impegno, dimostrazione reattiva e concreta di partecipazione alla modifica del proprio precedente vissuto.
L'articolo 3 è molto importante perché riguarda un'ipotesi generale di reclamo giurisdizionale che entra in un campo molto delicato, sul quale si erano già avute due importanti pronunce, la sentenza n. 26/99 della Corte costituzionale e la sentenza a sezioni unite cosiddetta «Gianni» del 23 febbraio 2003, con le quali prima la Consulta e poi la Cassazione hanno affrontato il tema della possibilità di avere un procedimento giurisdizionale su tutte le posizioni giuridiche che riguardano i diritti dei detenuti.
Alla fine, però, hanno rinunciato a una scelta di tipo generalista quale quella fatta in questo provvedimento normativo, che prevede una generica possibilità di utilizzare lo strumento giurisdizionale con possibilità di ordinare all'amministrazione condotte, di punire e condannare l'amministrazione e di risarcire per il mancato adempimento alle condotte.
Ci hanno rinunciato perché la legge parla in modo molto semplice di inosservanza di norme del Regolamento che provochino un grave pregiudizio all'esercizio dei diritti, non di lesione dei diritti, perché il principio della lesione dei diritti è già coperto dall'articolo 2043, per cui, se lo Stato sbaglia, ovviamente paga.
Ci chiediamo quindi a quali posizioni giuridiche soggettive ci vogliamo riferire. La Corte Costituzionale dichiarò che non se la sentiva di stabilire che per tutte le posizioni soggettive si dovesse prevedere un procedimento di tipo giurisdizionale, perché stiamo pericolosamente lavorando sulla linea di confine fra Esecutivo e Giurisdizione, laddove tutte le volte che si vuole ottenere un diritto non è detto che quel diritto programmatico allo studio, al lavoro, alla salute, che è presente nella Costituzione e riguarda tutti i cittadini, non solo i detenuti, possa essere ottenuto de plano, in quanto deve essere ottenuto attraverso un'attività di gestione delle risorse pubbliche, dei beni pubblici. C’è un'attività politica che ricade propriamente nelle responsabilità dell'Esecutivo.
La Corte costituzionale non si azzardò a fare questo passo così importante e attraverso questo procedimento si rischia di far entrare posizioni giuridiche che non possono essere considerate diritto. Quando ero direttore del DAP un detenuto disse che per garantire il suo diritto all'informazione Pag. 6non erano sufficienti i sette canali che l'amministrazione penitenziaria gli offriva con un televisore allocato nella sua cella singola, ma voleva dei canali ulteriori (RAI Storia, Videomusic).
Questa, che è un'aspirazione di qualunque cittadino rispetto alla gestione di risorse pubbliche, è stata considerata un diritto, ma è chiaro che, finché sono stato direttore dell'Ufficio detenuti, non l'ho ritenuto coercibile. Questo è il discrimine sul quale si gioca la possibilità di incidere con il nuovo ricorso giurisdizionale.
Un punto però fondamentale è quello dell'ottemperanza perché, se rispetto a questi diritti soggettivi pieni, posizioni giuridiche qualificate, che bisognerà riempire di contenuto giurisprudenziale perché la legge non lo specifica, dovesse essere riconosciuto il diritto a stare in un ambiente non affollato e questo diritto dovesse essere ritenuto coercibile attraverso un risarcimento nella misura prevista dalla legge (100 euro), un istituto penitenziario con mille detenuti che dovrebbe contenerne settecento presupporrebbe un sovraffollamento per tutti e mille.
Il costo ipotetico sarebbe dunque di 36.500 euro l'anno per ciascun detenuto, che moltiplicato per mille fa 36,5 milioni di euro, esattamente quello che ci vuole per il Piano carceri. Per pagare per un istituto il sovraffollamento penitenziario, dovremmo quindi pagare l'intera cifra stanziata per il Piano carceri. Se poi tutti gli altri dovessero avanzare la stessa richiesta, arriveremmo a miliardi di euro.
È quindi importante capire se esista la copertura finanziaria, perché questa legge prevede la possibilità concreta, qualora siano riconosciute certe posizioni soggettive, di giungere a pesantissimi risarcimenti.
Parlando da tecnico abituato a interloquire con chi compie le scelte finali, il problema è molto semplice: il costo sociale della carenza di adeguatezza delle carceri oggi lo pagano i detenuti sotto forma di ulteriore disagio, e questo non è giusto. Occorre intervenire, occorre fare nuove carceri e quant'altro, però questo costo sociale che viene pagato oggi sotto forma di disagio si potrebbe scaricare sui cittadini.
Oggi il costo sociale è pagato da persone che non dovrebbero pagarlo, ma che comunque hanno rotto il patto sociale, mentre si scaricherebbe sui cittadini sia per quanto riguarda i diritti, perché vi garantisco che scarcerare soggetti pericolosi che sono al vertice di associazioni mafiose comporta sicuramente un rischio e bisogna assumersene la responsabilità, sia per quanto riguarda l'aspetto economico, perché i risarcimenti sono miliardari.
Gli altri articoli riguardano il Garante sui diritti dei detenuti, che a questo punto sembrerebbe, più che sovrabbondante, davvero inutile, visto il punto raggiunto dal controllo giurisdizionale frammentato sull'attività dell'amministrazione penitenziaria.
RAFFAELE CANTONE, Magistrato della Corte di Cassazione. Non ho un documento scritto, ma mi rifaccio al documento predisposto dall'Ufficio del Massimario che ha preparato uno studio approfondito su tutti gli articoli.
Il mio giudizio sul decreto-legge non è in termini disastrosi e solo parzialmente concordo con le valutazioni del collega. Credo che, tenendo conto dell'esigenza di un provvedimento a legislazione emergenziale, fosse l'unico idoneo a soddisfare le richieste che venivano purtroppo da una sentenza della CEDU (Convenzione europea per la tutela dei diritti dell'uomo), che, ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione, è immediatamente vincolante anche nel nostro ordinamento.
Forse avremmo dovuto riflettere con attenzione prima di modificare quell'articolo 117 e soprattutto di prevedere quel meccanismo, ma oggi, stando così le cose, quella sentenza è vincolante nel nostro sistema. Credo che all'interno della legge ci siano delle scelte corrette, anche se alcuni passaggi di tali scelte meritano una riflessione.
In primo luogo, concordo con la scelta di trasformare la fattispecie del comma 5 Pag. 7dell'articolo 73 in reato autonomo. La Cassazione con una sentenza dell'8 gennaio 2014 si è già espressa sul punto (ovviamente non c’è ancora la motivazione, ma solo la notizia di decisione) ritenendo che quella fattispecie dovesse essere considerata reato autonomo, con tutta una serie di vantaggi che assegnano al giudice maggiore capacità di incidere sulla pena in relazione alle ipotesi di piccolo spaccio, evitando i meccanismi derivanti dall'applicazione delle norme sulla recidiva.
C’è un limite in questa norma, che riguarda il problema della prescrizione del reato, che si abbrevia e potrebbe avere ricadute rilevanti anche sui processi in corso, perché anche ai fini della prescrizione questa norma è applicabile retroattivamente ai sensi dell'articolo 2.
Come Ufficio del Massimario avevamo segnalato la necessità di modificare una serie di altre norme, soprattutto l'articolo 73, comma 5-bis e l'articolo 74, comma 6, perché non sono state coordinate con l'idea che il comma 5 dell'articolo 73 è nuova ipotesi di reato, ma vi si continua a parlare del comma 5 come di qualcosa di diverso rispetto agli altri reati di cui all'articolo 73.
Credo che sia un problema di coordinamento, che potrebbe creare problemi interpretativi anche tenendo presente la prima pronuncia in questo senso, e in fase di conversione sarebbe opportuno operare quella indicazione.
Mi entusiasma meno, invece, l'altra norma in materia di stupefacenti, che è la modifica dell'articolo 94, perché considero particolarmente rischiosa l'eliminazione di ogni limite all'affidamento in prova in casi particolari. Forse sarebbe opportuna una riflessione maggiore, perché questo strumento spesso è stato utilizzato anche da soggetti legati alla criminalità organizzata come mezzo per derogare un certo regime detentivo particolare.
Quanto alle misure svuota carceri, considero una scelta intelligente ritornare al braccialetto elettronico, però bisogna evidenziare che le precedenti sperimentazioni non avevano dato alcun esito e che la dotazione del braccialetto elettronico, che pure era stato introdotto e promosso con grande pubblicità, è rimasta negli archivi o negli scantinati di qualche ufficio del Ministero degli Interni e non ha dato esiti positivi.
Se si vuole puntare sugli arresti domiciliari come misura alternativa, bisogna consentire alle forze dell'ordine di effettuare i controlli, perché, se il braccialetto elettronico non funziona come non ha funzionato in passato, delegare il controllo della sicurezza agli uffici di polizia giudiziaria rischia di essere eccessivo, soprattutto in un momento in cui le forze di polizia hanno i limiti economici a tutti noti. Bisognerebbe prevedere nel decreto-legge meccanismi che riguardino il controllo dell'attuazione del braccialetto elettronico, per evitare che l'ennesima operazione finisca in un nulla di fatto.
Sulla liberazione anticipata condivido le preoccupazioni del collega. Credo che l'ampliamento della liberazione anticipata a 75 giorni sia eccessivo e rischi di creare le condizioni perché questa misura divenga stabile. Arriveremmo al paradosso per cui in Italia su ogni anno di reclusione si sconterebbero 7 mesi, cosa che mi sembra eccessiva, soprattutto considerando che si tratta di un istituto elargito con larghezza, i cui casi di revoca si possono davvero contare sulle dita di una mano.
Il decreto-legge amplia significativamente i presupposti dell'affidamento in prova, portandolo a 4 anni. Questa è una scelta politica, su cui forse occorrerebbe una riflessione perché 4 anni è un range molto ampio, ma considero poco condivisibile il riferimento contenuto nella norma, che prevede che la valutazione sul comportamento debba essere limitata all'anno precedente alla concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale.
Questa indicazione contenuta nella lettera c) dell'articolo 3 prevede che «l'affidamento in prova può essere altresì concesso al condannato che deve espiare una pena, anche residua, non superiore a 4 anni quando abbia serbato, quantomeno nell'anno precedente alla presentazione Pag. 8della richiesta, ...un comportamento...», ma credo che si tratti di una valutazione eccessivamente buonista nei confronti del detenuto.
Queste misure che consentono grandi spazi di libertà devono essere concesse a soggetti considerati non pericolosi, e mi chiedo perché limitare a un anno per soggetti che abbiano avuto un lunghissimo periodo di detenzione. In linea di massima, invece, credo che si possa essere favorevoli alla modifica della normativa sull'espulsione e soprattutto ritengo che la norma abbia inciso su una delle questioni che creavano più problemi dal punto di vista della giurisprudenza, eliminando la possibilità che il cumulo potesse rappresentare un limite all'espulsione. In questa normativa è opportunamente prevista una deroga su questo aspetto.
Chiudo riportandomi alla relazione in cui affrontiamo tutti i temi, in quanto c’è un aspetto da valutare: il senso di insicurezza dei cittadini non è affatto diminuito e soprattutto in alcune realtà la situazione dell'ordine pubblico non deve essere sottovalutata.
In una città come Napoli, che per certi aspetti è una città violenta ma che non aveva mai visto manifestazioni di violenza eclatante nei confronti delle forze dell'ordine, nei giorni scorsi due rapinatori solo per essere stati intercettati su un motorino hanno sparato vari colpi di pistola nei confronti di un poliziotto, ed entrambi erano soggetti a misure alternative.
Per quanto riguarda il senso di insicurezza percepito dai cittadini questo rischia di essere un grave danno, per cui queste misure avranno senso se ci sarà la possibilità di operare con meccanismi di controllo a distanza. La possibilità di questo decreto-legge di avere effetti è collegata alla possibilità che il braccialetto elettronico funzioni davvero, cosa su cui, vista l'esperienza, nutro qualche dubbio.
PRESIDENTE. Grazie. Do ora la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti e formulare osservazioni.
ANDREA COLLETTI. Ringrazio gli auditi. Avevamo avuto notizia dell'uscita del primo condannato per 416-bis ad Agrigento, Nicola Ribisi, grazie all'articolo 4.
Saputo questo, la domanda che avevo anche fatto al Capo Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia, dottor Tamburrino, ma anche all'ANM (Associazione nazionale magistrati), riguarda l'effettiva applicazione dell'articolo 54 della legge n. 354 del 1975 ai condannati per mafia, a cui indirettamente ha risposto. Ignoro però se l'articolo 54 e quindi anche questo articolo 4 si possano applicare anche a coloro che hanno un trattamento ex articolo 41-bis oppure la norma sia applicabile ma non è applicata.
ALFONSO BONAFEDE. Grazie, presidente. Le perplessità non nascono dal braccialetto elettronico in sé per sé, quanto da un sistema infrastrutturale in cui dovrebbe essere inserito il controllo esterno, perché è impensabile concepire il braccialetto elettronico senza misure accessorie allo stesso.
Vorrei sapere se possa suggerirci qualcosa di immediatamente applicabile, visto che ci troviamo dinanzi a un decreto-legge.
PRESIDENTE. Se ho capito bene, da parte di entrambi (in maniera più vigorosa da parte del Procuratore Ardita) è stata espressa contrarietà verso il sistema di liberazione anticipata speciale, in particolare con riferimento all'applicazione ai delitti di cui all'articolo 4-bis.
Fermo restando che questo sarà oggetto di riflessione da parte della Commissione, è stata espressa una critica perché finora una legge che è in vigore dal 1975, su cui di vari Governi nessuno è intervenuto, è applicabile a tutti i detenuti da articolo 4-bis, quindi anche per mafia. Diamo quindi per assodato questo elemento che mi sembra determinante. Tra l'altro, su questo sono intervenuti anche precedenti auditi.
Ci si chiede un presupposto diverso, una specie di prova rafforzata per i 4-bis e per gli ulteriori trenta giorni, ovvero che vi sia un concreto recupero sociale, quindi Pag. 9si è posto un problema diverso rispetto a quello da voi evidenziato. Si va infatti a differenziare con un aggravamento delle condizioni di concessione persone che adesso hanno un unico regime. Vorrei sapere se riteniate che sia un'ipotesi adeguata o possa portare a questioni di incostituzionalità.
Con riferimento alla questione del reclamo, lei, Procuratore Ardita, ha citato la Corte costituzionale, però non è la Corte costituzionale che deve ritenere di introdurre delle norme che attuino appieno le garanzie giurisdizionali. Questo è uno dei punti della CEDU, che nell'anno di ottemperanza che concede all'Italia inserisce, a parte la questione del sovraffollamento, anche l'esigenza di rendere effettivo il reclamo giurisdizionale, come se adesso fosse un reclamo che per le sue modalità muore in se stesso.
Do quindi la parola agli auditi per la replica.
SEBASTIANO ARDITA, Procuratore della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di Messina. Per quanto riguarda la domanda sull'applicazione ai detenuti per mafia: attualmente in Italia i detenuti per mafia sono poco più di diecimila, di cui 1.300 ergastolani. Dando per scontato che tutti abbiano, ovviamente, un'ostatività alla concessione delle misure alternative e quindi anche alla possibilità di un concreto ritorno in libertà, circa novemila di questi, che sono in custodia cautelare o in esecuzione pena ma non all'ergastolo, beneficeranno comunque di questo provvedimento. Non tutti oggi naturalmente, ma chi oggi, chi fra due, fra cinque, fra dieci o fra vent'anni, per cui il beneficio si spalmerà su tutti questi soggetti in modo indifferenziato, anche i 41-bis, salvo la disposizione che la presidente ha letto, i cui contenuti andranno rivisti alla luce del ricco dibattito sul discrimine che porta il membro di un'associazione mafiosa alla rieducazione.
Ci si chiede infatti come si possa dimostrare la rieducazione del soggetto che appartiene all'associazione mafiosa, attraverso quali elementi si riesca a verificare, perché la legge italiana con il 4-bis ha dato un criterio normativo, sancendo che la collaborazione con la giustizia è il criterio attraverso cui un detenuto si rieduca e dunque automaticamente può accedere alle misure alternative.
Nel tentativo lodevole di recuperare un contenuto di rigore all'applicazione, questa norma finisce per contraddirsi con il 4-bis, la cui essenza è già chiara: in assenza di comportamenti di rottura, l'associazione mafiosa non consente a un soggetto di rieducarsi, nel senso di rompere con il passato, perché quel reato rappresenta un modo di atteggiarsi rispetto al mondo esterno, a tutta la società e ai valori della vita che può essere ritrattato solo con un'aperta rottura come la collaborazione con la giustizia.
La seconda domanda è molto interessante e riguarda il complesso problema della CEDU, che esprime indicazioni che riguardano i princìpi, non scende nel merito della questione, quindi inevitabilmente, essendo un organismo che ha l'importante compito di guardare alla correttezza di un sistema istituzionale, ci impone di dare corpo a un sistema che renda effettivi i diritti dei detenuti.
Questo problema era stato già affrontato dalla Corte anni prima, in termini assolutamente identici, e da lì nasce tutto il dibattito che poi porta alla CEDU la questione. Il problema è se affrontarlo attraverso una tipizzazione specifica delle situazioni concrete, come quella per esempio della lettera a) del nuovo comma 6 dell'articolo 69 dell'ordinamento penitenziario, che prevede la tipizzazione delle ipotesi disciplinari, perché il diritto soggettivo pieno, che corrisponde a un dovere dell'amministrazione e non si traduce in un facere (questo è il discrimine: il facere a cui è condannata un'amministrazione passa attraverso un atto di governo, un atto di gestione delle risorse) comporta una sovrapposizione rispetto alle scelte dell'Esecutivo.
Si possono fare esempi concreti perché parlare di massimi sistemi è difficile. Se ad esempio a Catania c’è un affollamento penitenziario del 20 per cento e un magistrato Pag. 10di sorveglianza in base alla nuova norma è in grado di ordinare all'amministrazione lo sfollamento di un carcere, questo provvedimento parziale, frammentato, senza il circuito complessivo comporta che questi detenuti debbano essere inviati altrove e saranno sfollati in altre carceri, dove magari l'affollamento sarà non del 20, ma 30 o 40 per cento, e lo incrementerà, perché questa capacità di intervenire nella gestione delle risorse complessive spetta all'Esecutivo per definizione, è la linea di discrimine fra l'Esecutivo e la giurisdizione.
Ecco perché questa normativa presenta dei lati oscuri, perché lavora su un terreno che ci porterà inevitabilmente all'ingovernabilità delle carceri. La realtà penitenziaria ha bisogno di riferimenti certi, di trasparenza, di rispetto delle regole, di civiltà della pena, ma anche di forza, di autorevolezza, di capacità decisionale.
Questo porterà inevitabilmente a un momento di confusione. Andava tipizzato in maniera specifica tutto l'elenco dei diritti dei detenuti sulla base dell'isolamento di quelle situazioni in cui non vi è il coinvolgimento di una scelta gestionale, ma vi è semplicemente la possibilità di esercitare un diritto, come fece la «sentenza Gianni» con riferimento ai colloqui e alla corrispondenza telefonica, attività che possono essere esercitate de plano, che fanno già parte di una cornice di previsioni normative, per cui l'amministrazione non deve fare altro che ammettere o non ammettere il detenuto.
Laddove invece c’è di mezzo una scelta gestionale, una scelta di risorse, di investimenti, di appalti, lì interviene la competenza del Governo e dunque una sovrapposizione rischia di rendere ingovernabile la realtà penitenziaria.
Tra l'altro, un problema fondamentale riguarda la tematica generale della tutelabilità delle posizioni soggettive dei singoli, la parità di trattamento fra cittadini. Se infatti ad esempio un detenuto ha una patologia e l'ASL lo mette in lista di attesa, posto che comunque se viene leso un suo diritto può rivolgersi al giudice, anche per una patologia non grave e cure che possono essere prestate successivamente ha la possibilità di chiedere al giudice una modifica che alteri il meccanismo della lista di attesa.
Il cittadino libero che abbia lo stesso interesse non ha questa possibilità. In più, se non si ottempera a questo ordine del giudice, è possibile un risarcimento, mentre al comune cittadino questo risarcimento non spetta quando subisce i ritardi o la cattiva gestione delle risorse pubbliche legate al cattivo funzionamento dell'amministrazione pubblica. Se si richiede un esame diagnostico e questo arriva troppo tardi, causando un aggravamento della sua condizione di salute, non è in condizione di fare un processo allo Stato, cosa che invece in questo modo viene consentita al detenuto.
Non dico che ci debbano essere preclusioni, ma che ci debba essere una parità di trattamento nel dare spazio a posizioni soggettive che possono non essere quelle del diritto soggettivo, sul quale tutti siamo d'accordo, ma possono essere legate all'aspirazione a ottenere beni nella vita, quindi lo sport, l'attività culturale, lo studio, che attengono al profilo programmatico rispetto al quale vi è una responsabilità politica, oltre che di tipo diretto e personale.
RAFFAELE CANTONE, Magistrato della Corte di Cassazione. Prima una breve indicazione sulla questione della liberazione anticipata. Nella nostra relazione abbiamo dato atto dell'opportunità di questa introduzione della norma che prevede un criterio di valutazione alternativo per i detenuti in regime di 4-bis, però la norma dal punto di vista della sua chiave di lettura lascia qualche perplessità, perché viene inserita nel capo che riguarda la liberazione anticipata speciale, fa riferimento ai 75 giorni laddove per esempio per i periodi precedenti si tratta non di 75, ma di 15 giorni.
Chi ha già goduto della liberazione anticipata per i 60 giorni non capirebbe bene quale sarà il suo regime per i 60 giorni che ha goduto e i 15 giorni che non ha ancora goduto, e proprio questa differenza Pag. 11rischia di essere valutata sul piano della legittimità costituzionale, perché in pratica avremo detenuti che hanno già ottenuto i 60 giorni in base alla normativa generale, perché su questo la presidente ha ragione: in tema di liberazione anticipata fino a questo momento i detenuti del 41-bis erano parificati ai detenuti ordinari.
Oggi questa parificazione, sia pure solo per l'ipotesi speciale, non inserita nel sistema della legge n. 354 del 1975 come sarebbe stato opportuno fare in questo momento, rischia di creare qualche problema di tensione.
PRESIDENTE. La mia osservazione deriva dal fatto che non voi, ma altri si meraviglino perché il 416-bis rientra nella liberazione anticipata quando invece ci rientra dal 1975. Lo dico perché desidero dare una corretta informazione.
RAFFAELE CANTONE, Magistrato della Corte di Cassazione. Forse sarebbe stato opportuno inserire questa norma nel sistema generale, perché, se questa norma fosse a regime, sarebbe molto utile. L'idea potrebbe essere quella di inserire a regime questa disposizione come un criterio di valutazione alternativo dei detenuti del 4-bis.
Per quanto riguarda il sistema del braccialetto elettronico, sono stato molto veloce perché il decreto-legge si limita a dare per scontato che questo funzioni, senza aver valutato le ragioni per cui in passato il braccialetto elettronico, che pure era stato istituito dal Ministro degli Interni Bianco con gran battage pubblicitario, non è mai entrato in vigore.
A quanto mi risulta, tecnicamente oggi non è cambiato nulla e forse il decreto-legge non può fare niente specificamente, però sarebbe opportuno che prevedesse meccanismi di monitoraggio, perché oggi il giudice con questo decreto-legge si trova a ordinare il braccialetto elettronico lì dove posso assicurare che le Questure diranno di non essere in grado di applicarlo.
Con il decreto-legge certo non si può imporre alle Questure di superare gli aspetti tecnici, ma bisognerebbe prevedere quantomeno un meccanismo di monitoraggio, che consenta di valutare di qui a sei mesi o a un anno, atteso che questa norma entrerà in vigore solo con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, lo stato di questa disposizione, che è fondamentale perché si applica anche con riferimento alle misure alternative. Il braccialetto elettronico potrebbe essere particolarmente utile, perché potrebbe essere utilizzato anche con i detenuti in semilibertà o in affidamento in prova al servizio sociale.
Considero quindi opportuno prevedere quantomeno un meccanismo di monitoraggio dell'entrata in vigore del braccialetto elettronico.
ALFONSO BONAFEDE. Questa è una domanda che ho posto anche nelle altre audizioni e che mi viene sollecitata dalle considerazioni della presidente. Vorrei sapere se sul requisito rafforzativo ci confermiate che, soprattutto se parliamo di chi ha già ottenuto il beneficio ai sensi dell'articolo 54, questo ampliamento ai 75 giorni praticamente si applicherà al 100 per cento dei detenuti, come finora sostenuto da tutti gli auditi, perché la norma è retroattiva.
Le critiche rispetto all'applicazione di questa norma, che inducono tanti a parlare di indulto mascherato, vertono non soltanto sul contenuto, ma anche sul fatto che tra 45 e 75 giorni c’è differenza e inoltre si applica retroattivamente fin dal 2010.
Vorrei sapere quindi se confermiate che si applicherà praticamente al 100 per cento dei detenuti che dal 2010 ad ora hanno ottenuto il beneficio ai sensi dell'articolo 54.
RAFFAELE CANTONE, Magistrato della Corte di Cassazione. Io credo che non sarà automatico per i detenuti del 4-bis proprio perché la norma, prevedendo un diverso criterio per i detenuti del 4-bis, implicitamente prevede l'automatismo per i detenuti ordinari, ma ci sarà bisogno di una valutazione che è quella oggi prevista dalla norma specifica, però al contrario quella norma porta a ritenere che per gli altri sarà sostanzialmente automatico.
Pag. 12 STEFANO DAMBRUOSO. Solo per partecipare e ringraziare i due magistrati che hanno portato il segno della loro esperienza, soprattutto il Procuratore Ardita che ci ha rappresentato le fondate perplessità della magistratura che si occupa soprattutto della sicurezza dei cittadini, che è il macro interesse che si contrappone a quello sollecitato dalla CEDU, ossia la dignità dei detenuti.
Un tema emerso nel corso delle audizioni è che esistono altre strutture carcerarie che non sono state mai completate, alcune delle quali sono però di immediata completabilità. Vorrei sapere quindi quale difficoltà incontri un Paese nell'accedere a questa alternativa piuttosto che procedere a uno svuotamento di quelle esistenti, perché non si sia riusciti a utilizzare queste carceri quasi complete.
SEBASTIANO ARDITA, Procuratore della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di Messina. Se si riferisce alle carceri mandamentali sparse per l'Italia di cui spesso si sente parlare, non sono utilizzabili perché hanno un rapporto tra spese di gestione e numero di detenuti accoglibili molto basso e sono situate in località distanti dai luoghi in cui si forma la popolazione penitenziaria.
Un Piano carceri razionale deve essere ispirato da due esigenze fondamentali. La prima esigenza è quella di individuare i luoghi per ospitare i detenuti laddove si formano le situazioni di tensione, perché è inutile costruire carceri sulle montagne. Nel Piano carceri ho letto di carceri a Mistretta, a Sciacca, in Sardegna, e la Sardegna è piena di carceri assolutamente inutili perché le carceri vanno costruite laddove si forma la popolazione penitenziaria, perché lì si svolgono i processi e c’è la territorialità ex articolo 42 dell'Ordinamento penitenziario.
Bisogna creare quindi duemila posti a Roma, duemila a Napoli, duemila a Milano, duemila a Firenze, duemila a Bologna e duemila a Palermo, così da risolvere il problema al 50 per cento. Devono avere inoltre caratteristiche di modularità, devono essere flessibili ed essere ispirate a un nuovo modello di gestione della sicurezza penitenziaria, perché altrimenti ci sarà il problema di assumere altri quindicimila agenti penitenziari.
Tutto questo, che è molto semplice, purtroppo non riesce a essere tradotto in scelte concrete, perché la distribuzione dei compiti nell'attuazione di questo programma non sempre è nelle mani di chi ha dinanzi il problema nella sua completezza.
PRESIDENTE. Nel ringraziare gli auditi per i preziosi contributi, dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 12.