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Giurisprudenza costituzionale in materia previdenziale
informazioni aggiornate a giovedì, 23 gennaio 2014

La giurisprudenza costituzionale in materia previdenziale, con riferimento ai principali profili della materia (natura dei contributi previdenziali, adeguatezza delle prestazioni ai sensi dell'articolo 38 Cost., limitazione di benefici precedentemente riconosciuti e conseguente discrezionalità del legislatore, tutela dell'affidamento dei singoli e sicurezza giuridica) riflette, sostanzialmente, l'evoluzione della legislazione pensionistica, segnata dall'inversione di tendenza operata a partire dalla seconda metà degli anni '80 a fronte dell'esplosione della spesa e della necessità di garantire la sostenibilità di lungo periodo del sistema.

 

Negli anni '60 e '70 la Corte è impegnata soprattutto nel tentativo di dare razionalità a un quadro normativo assai complesso e articolato (ereditato in parte dalla legislazione fascista), che si caratterizza per le numerose sentenze "additive" (le c.d. sentenze che costano) con le quali, assumendo a parametro l'articolo 3 della Costituzione (principio di uguaglianza formale e sostanziale), si procede ad adeguare le normative meno favorevoli a quelle più favorevoli, livellando verso l'alto prestazioni e benefici (tra le tante: sentenze n. 78 del 1967; n. 124 del 1968; n. 5 del 1969; n. 144 del 1971, n. 57 del 1973 e n.240/1994).

 

Per quanto concerne, specificamente, la possibilità per il legislatore di modificare in senso peggiorativo i trattamenti pensionistici, la giurisprudenza di questo periodo (sentenze n. 26/80 e 349/85), facendo leva sugli articoli 36 e 38 Cost., porta sostanzialmente a ritenere che il lavoratore abbia diritto a "una particolare protezione, nel senso che il suo trattamento di quiescenza, al pari della retribuzione percepita in costanza del rapporto di lavoro, del quale lo stato di pensionamento costituisce un prolungamento ai fini previdenziali, deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e deve, in ogni caso, assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia mezzi adeguati alle esigenze di vita per una esistenza libera e dignitosa". A tale riguardo la Corte precisa, in particolare, che "proporzionalità e adeguatezza alle esigenze di vita non sono solo quelli che soddisfano i bisogni elementari e vitali ma anche quelli che siano idonei a realizzare le esigenze relative al tenore di vita conseguito dallo stesso lavoratore in rapporto al reddito ed alla posizione sociale raggiunta".

A partire dalla seconda metà degli anni ‘80, la Corte fornisce il proprio contributo per invertire le spinte espansionistiche insite nel sistema, valorizzando il principio del bilanciamento complessivo degli interessi costituzionali nel quadro delle compatibilità economiche e finanziarie. Già nelle sentenze n.180/1982 e n.220/1988 la Corte afferma il principio della discrezionalità del legislatore nella determinazione dell'ammontare delle prestazioni sociali tenendo conto della disponibilità delle risorse finanziarie. Le scelte del legislatore, volte a contenere la spesa (anche con misure peggiorative a carattere retroattivo), vengono tuttavia censurate dalla Corte laddove la normativa si presenti manifestamente irrazionale (sentenze n.73/1992, n.485/1992 e n.347/1997).

 

Quanto alla natura dei contributi previdenziali, la Corte, pur con una giurisprudenza non sempre lineare (frutto del compromesso tra la logica mutualistica e quella solidaristica che, allo stesso tempo, informano il nostro sistema previdenziale), ha affermato che "i contributi non vanno a vantaggio del singolo che li versa, ma di tutti i lavoratori e, peraltro, in proporzione del reddito che si consegue, sicchè i lavoratori a redditi più alti concorrono anche alla copertura delle prestazioni a favore delle categorie con redditi più bassi"; allo stesso tempo, però, per quanto i contributi trascendano gli interessi dei singoli che li versano, "essi danno sempre vita al diritto del lavoratore di conseguire corrispondenti prestazioni previdenziali", ciò da cui discende che il legislatore non può prescindere dal principio di proporzionalità tra contributi versati e prestazioni previdenziali (sentenza n.173/1986; si vedano anche, a tale proposito, le sentenze n.501/1988 e n.96/1991).

 

Per quanto concerne i trattamenti peggiorativi con effetto retroattivo, la Corte ha escluso, in linea di principio, che sia configurabile un diritto costituzionalmente garantito alla cristallizzazione normativa, riconoscendo quindi al legislatore la possibilità di intervenire con scelte discrezionali, purchè ciò non avvenga in modo irrazionale e, in particolare, frustrando in modo eccessivo l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulla normativa precedente (sentenze n.349/1985, n.173/1986, n.82271998, n.211/1997, n.416/1999).

 

La Corte costituzionale è tornata sul tema, da ultimo, con la sentenza n.116/2013, con cui ha dichiarato l'illegittimità dell'articolo 18, comma 22-bis, del D.L. 98/2011, il quale introduceva un contributo di perequazione, a decorrere dal 1° agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, sui trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, pari al 5% per gli importi da 90.000 a 150.000 euro lordi annui, del 10% per la parte eccedente i 150.000 euro e del 15% per la parte eccedente i 200.000 euro. La Corte, assumendo che il contributo di solidarietà ha natura tributaria e, quindi, deve essere commisurato alla capacità contributiva ai sensi dell'articolo 53 della Costituzione, ha ritenuto che la disposizione violi il principio di uguaglianza e i criteri di progressività, dando vita ad un trattamento discriminatorio. Secondo la Corte, infatti, "[…] trattasi di un intervento impositivo irragionevole e discriminatorio ai danni di una sola categoria di cittadini. L'intervento riguarda, infatti, i soli pensionati, senza garantire il rispetto dei principi fondamentali di uguaglianza a parità di reddito, attraverso una irragionevole limitazione della platea dei soggetti passivi". La Corte nell'evidenziare anche come sia stato adottato un criterio diverso per i pensionati rispetto a quello usato per gli altri contribuenti, penalizzando i primi, osserva che "i redditi derivanti dai trattamenti pensionistici non hanno, per questa loro origine, una natura diversa e minoris generis rispetto agli altri redditi presi a riferimento" e che "a fronte di un analogo fondamento impositivo, dettato dalla necessità di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria, il legislatore ha scelto di trattare diversamente i redditi dei titolari di trattamenti pensionistici", con ciò portando a "un giudizio di irragionevolezza ed arbitrarietà del diverso trattamento riservato alla categoria colpita". La Corte aggiunge, poi, che "nel caso di specie, il giudizio di irragionevolezza dell'intervento settoriale appare ancor più palese, laddove si consideri che la giurisprudenza della Corte ha ritenuto che il trattamento pensionistico ordinario ha natura di retribuzione differita (fra le altre, sentenza n. 30/2004 e ordinanza n. 166/2006); sicché il maggior prelievo tributario rispetto ad altre categorie risulta con più evidenza discriminatorio, venendo esso a gravare su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risulta più possibile neppure ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto di lavoro".

 

La giurisprudenza costituzionale in materia previdenziale, con riferimento ai principali profili della materia (natura dei contributi previdenziali, adeguatezza delle prestazioni ai sensi dell'articolo 38 Cost., limitazione di benefici precedentemente riconosciuti e conseguente discrezionalità del legislatore, tutela dell'affidamento dei singoli e sicurezza giuridica) riflette, sostanzialmente, l'evoluzione della legislazione pensionistica, segnata dall'inversione di tendenza operata a partire dalla seconda metà degli anni '80 a fronte dell'esplosione della spesa e della necessità di garantire la sostenibilità di lungo periodo del sistema.

 

Negli anni '60 e '70 la Corte è impegnata soprattutto nel tentativo di dare razionalità a un quadro normativo assai complesso e articolato (ereditato in parte dalla legislazione fascista), che si caratterizza per le numerose sentenze "additive" (le c.d. sentenze che costano) con le quali, assumendo a parametro l'articolo 3 della Costituzione (principio di uguaglianza formale e sostanziale), si procede ad adeguare le normative meno favorevoli a quelle più favorevoli, livellando verso l'alto prestazioni e benefici (tra le tante: sentenze n. 78 del 1967; n. 124 del 1968; n. 5 del 1969; n. 144 del 1971, n. 57 del 1973 e n.240/1994).

 

Per quanto concerne, specificamente, la possibilità per il legislatore di modificare in senso peggiorativo i trattamenti pensionistici, la giurisprudenza di questo periodo (sentenze n. 26/80 e 349/85), facendo leva sugli articoli 36 e 38 Cost., porta sostanzialmente a ritenere che il lavoratore abbia diritto a "una particolare protezione, nel senso che il suo trattamento di quiescenza, al pari della retribuzione percepita in costanza del rapporto di lavoro, del quale lo stato di pensionamento costituisce un prolungamento ai fini previdenziali, deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e deve, in ogni caso, assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia mezzi adeguati alle esigenze di vita per una esistenza libera e dignitosa". A tale riguardo la Corte precisa, in particolare, che "proporzionalità e adeguatezza alle esigenze di vita non sono solo quelli che soddisfano i bisogni elementari e vitali ma anche quelli che siano idonei a realizzare le esigenze relative al tenore di vita conseguito dallo stesso lavoratore in rapporto al reddito ed alla posizione sociale raggiunta".

A partire dalla seconda metà degli anni ‘80, la Corte fornisce il proprio contributo per invertire le spinte espansionistiche insite nel sistema, valorizzando il principio del bilanciamento complessivo degli interessi costituzionali nel quadro delle compatibilità economiche e finanziarie. Già nelle sentenze n.180/1982 e n.220/1988 la Corte afferma il principio della discrezionalità del legislatore nella determinazione dell'ammontare delle prestazioni sociali tenendo conto della disponibilità delle risorse finanziarie. Le scelte del legislatore, volte a contenere la spesa (anche con misure peggiorative a carattere retroattivo), vengono tuttavia censurate dalla Corte laddove la normativa si presenti manifestamente irrazionale (sentenze n.73/1992, n.485/1992 e n.347/1997).

 

Quanto alla natura dei contributi previdenziali, la Corte, pur con una giurisprudenza non sempre lineare (frutto del compromesso tra la logica mutualistica e quella solidaristica che, allo stesso tempo, informano il nostro sistema previdenziale), ha affermato che "i contributi non vanno a vantaggio del singolo che li versa, ma di tutti i lavoratori e, peraltro, in proporzione del reddito che si consegue, sicchè i lavoratori a redditi più alti concorrono anche alla copertura delle prestazioni a favore delle categorie con redditi più bassi"; allo stesso tempo, però, per quanto i contributi trascendano gli interessi dei singoli che li versano, "essi danno sempre vita al diritto del lavoratore di conseguire corrispondenti prestazioni previdenziali", ciò da cui discende che il legislatore non può prescindere dal principio di proporzionalità tra contributi versati e prestazioni previdenziali (sentenza n.173/1986; si vedano anche, a tale proposito, le sentenze n.501/1988 e n.96/1991).

 

Per quanto concerne i trattamenti peggiorativi con effetto retroattivo, la Corte ha escluso, in linea di principio, che sia configurabile un diritto costituzionalmente garantito alla cristallizzazione normativa, riconoscendo quindi al legislatore la possibilità di intervenire con scelte discrezionali, purchè ciò non avvenga in modo irrazionale e, in particolare, frustrando in modo eccessivo l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulla normativa precedente (sentenze n.349/1985, n.173/1986, n.82271998, n.211/1997, n.416/1999).

 

La Corte costituzionale è tornata sul tema, da ultimo, con la sentenza n.116/2013, con cui ha dichiarato l'illegittimità dell'articolo 18, comma 22-bis, del D.L. 98/2011, il quale introduceva un contributo di perequazione, a decorrere dal 1° agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, sui trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, pari al 5% per gli importi da 90.000 a 150.000 euro lordi annui, del 10% per la parte eccedente i 150.000 euro e del 15% per la parte eccedente i 200.000 euro. La Corte, assumendo che il contributo di solidarietà ha natura tributaria e, quindi, deve essere commisurato alla capacità contributiva ai sensi dell'articolo 53 della Costituzione, ha ritenuto che la disposizione violi il principio di uguaglianza e i criteri di progressività, dando vita ad un trattamento discriminatorio. Secondo la Corte, infatti, "[…] trattasi di un intervento impositivo irragionevole e discriminatorio ai danni di una sola categoria di cittadini. L'intervento riguarda, infatti, i soli pensionati, senza garantire il rispetto dei principi fondamentali di uguaglianza a parità di reddito, attraverso una irragionevole limitazione della platea dei soggetti passivi". La Corte nell'evidenziare anche come sia stato adottato un criterio diverso per i pensionati rispetto a quello usato per gli altri contribuenti, penalizzando i primi, osserva che "i redditi derivanti dai trattamenti pensionistici non hanno, per questa loro origine, una natura diversa e minoris generis rispetto agli altri redditi presi a riferimento" e che "a fronte di un analogo fondamento impositivo, dettato dalla necessità di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria, il legislatore ha scelto di trattare diversamente i redditi dei titolari di trattamenti pensionistici", con ciò portando a "un giudizio di irragionevolezza ed arbitrarietà del diverso trattamento riservato alla categoria colpita". La Corte aggiunge, poi, che "nel caso di specie, il giudizio di irragionevolezza dell'intervento settoriale appare ancor più palese, laddove si consideri che la giurisprudenza della Corte ha ritenuto che il trattamento pensionistico ordinario ha natura di retribuzione differita (fra le altre, sentenza n. 30/2004 e ordinanza n. 166/2006); sicché il maggior prelievo tributario rispetto ad altre categorie risulta con più evidenza discriminatorio, venendo esso a gravare su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risulta più possibile neppure ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto di lavoro".