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Resoconti stenografici delle audizioni

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XIX Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere

Resoconto stenografico



Seduta n. 24 di Venerdì 1 dicembre 2023

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Colosimo Chiara , Presidente ... 3 

Seguito dell'audizione di Antonio Di Pietro:
Colosimo Chiara , Presidente ... 3 
Di Pietro Antonio  ... 3 
Colosimo Chiara , Presidente ... 7 
Di Pietro Antonio  ... 8 
Colosimo Chiara , Presidente ... 11 
Verini Walter  ... 11 
Di Pietro Antonio  ... 12 
Colosimo Chiara , Presidente ... 15 
Scarpinato Roberto Maria Ferdinando  ... 15 
Di Pietro Antonio  ... 16 
Colosimo Chiara , Presidente ... 16 
Sallemi Salvatore  ... 16 
Di Pietro Antonio  ... 17 
Pittalis Pietro (FI-PPE)  ... 17 
Colosimo Chiara , Presidente ... 17 
Pittalis Pietro (FI-PPE)  ... 17 
Colosimo Chiara , Presidente ... 17 
Di Pietro Antonio  ... 17 
Sallemi Salvatore  ... 18 
Di Pietro Antonio  ... 18 
Colosimo Chiara , Presidente ... 18 
Di Pietro Antonio  ... 18 
Colosimo Chiara , Presidente ... 18 
Sallemi Salvatore  ... 18 
Di Pietro Antonio  ... 18 
Colosimo Chiara , Presidente ... 19 
Di Pietro Antonio  ... 19 
Colosimo Chiara , Presidente ... 19 
Di Pietro Antonio  ... 19 
Colosimo Chiara , Presidente ... 19 
Ascari Stefania (M5S)  ... 19 
Di Pietro Antonio  ... 20 
Ascari Stefania (M5S)  ... 20 
Di Pietro Antonio  ... 20 
Colosimo Chiara , Presidente ... 20 
Sisler Sandro  ... 20 
Di Pietro Antonio  ... 20 
Colosimo Chiara , Presidente ... 22 
D'Attis Mauro (FI-PPE)  ... 22 
Di Pietro Antonio  ... 22 
D'Attis Mauro (FI-PPE)  ... 22 
Di Pietro Antonio  ... 22 
D'Attis Mauro (FI-PPE)  ... 22 
Di Pietro Antonio  ... 22 
Colosimo Chiara , Presidente ... 23 
Pittalis Pietro (FI-PPE)  ... 24 
Di Pietro Antonio  ... 24 
Colosimo Chiara , Presidente ... 25 
Scarpinato Roberto Maria Ferdinando  ... 25 
Di Pietro Antonio  ... 25 
Colosimo Chiara , Presidente ... 25 
Di Pietro Antonio  ... 26 
Colosimo Chiara , Presidente ... 26

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
CHIARA COLOSIMO

  La seduta comincia alle 11.35.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Buongiorno a tutti. Avverto che se non vi sono obiezioni la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'impianto audiovisivo a circuito chiuso nonché via streaming sulla web-tv della Camera dei deputati.

Seguito dell'audizione di Antonio Di Pietro.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito dell'audizione del dottor Antonio Di Pietro che ringrazio per la sua cortesia e disponibilità a tornare in questa Commissione per rispondere ai quesiti dei colleghi che intendono intervenire.
  Ricordo che la seduta odierna si svolge nelle forme di audizione libera ed è aperta alla partecipazione da remoto dei componenti della Commissione.
  I lavori potranno proseguire in forma segreta a richiesta dell'audito o dei colleghi e in tal caso non sarà più consentita la partecipazione da remoto e verrà interrotta la trasmissione via streaming sulla web-tv.
  Do quindi la parola al dottor Di Pietro che intende fare un'integrazione dei documenti che ci ha già lasciato e poi passiamo alle domande.

  ANTONIO DI PIETRO. Grazie e buongiorno. Io sono sempre onorato di essere qui perché all'interno delle istituzioni si può lasciare traccia di ciò che ognuno ha vissuto, assumendosene le responsabilità.
  In realtà io, più che integrare, devo consegnare alcuni documenti da me illustrati nell'altra mia audizione e che non ho potuto depositare perché li avevo a casa.
  Durante la mia ultima audizione ho depositato diciannove documenti di cui è stato redatto apposito elenco da parte dell'archivio della Commissione. Innanzitutto, con riferimento a ciò che ho detto nella scorsa audizione, confermo ciò che ho detto riportandomi proprio al contenuto di quei documenti che sono sentenze o relazioni ufficiali, non ci sono atti diversi.
  Il primo documento che volevo consegnare oggi è il verbale integrale della mia testimonianza resa il 21 aprile 1999 alla corte d'assise di Caltanissetta, in quanto la volta scorsa io vi consegnai soltanto l'estratto delle mie dichiarazioni per come io le avevo appuntate; ho recuperato l'intero verbale originale ove è riportato tutto ciò che ho detto.
  È importante perché in questa audizione io sono stato sentito proprio con riferimento ai rapporti fra me e il dottor Falcone e fra me e il dottor Borsellino in relazione all'inchiesta Mafia e Appalti che stavamo facendo a Milano. Chiamavamo questa inchiesta Tangentopoli, ma ci siamo occupati anche di questioni che riguardavano la mafia.
  Questo verbale è stato redatto nel 1999 quindi, essendo di tanti anni fa, è quello in cui è riportato in modo più approfondito il mio ricordo rispetto a quel che avvenne nel 1992.
  Ho voluto depositare proprio l'originale delle mie dichiarazioni perché è molto più completo rispetto alla sintesi che avevo fatto nella scorsa audizione. Siccome è copia unica chiedo di poterne riavere copia.Pag. 4
  Nell'ultima audizione spiegai quel che credo sia uno snodo fondamentale su tutto ciò che state discutendo, cioè quando viene riscontrata l'unicità dell'inchiesta Mafia e Appalti e dell'inchiesta Tangentopoli, ovvero del fenomeno Mafiopoli e del fenomeno Tangentopoli a Milano.
  A Milano, come avevo già detto, questo intreccio viene in evidenza il 12 novembre 1992 a seguito di un interrogatorio come persona indagata di reato connesso da me effettuato nei confronti di Li Pera. Ho preso atto che in questa sede è stata posta la questione se Li Pera doveva essere sentito come testimone o come indagato di reato connesso da altre autorità, nello specifico la procura di Catania.
  A Milano il 12 novembre 1992 l'ho sentito io come indagato di reato connesso e il verbale che vi deposito è la fotocopia dell'originale delle dichiarazioni che Li Pera ebbe a rilasciare a me così come è stato depositato alla corte d'appello a Palermo nel processo sulla Trattativa Stato-mafia.
  Sono dichiarazioni che vi prego di leggere, perché Li Pera racconta, fotografa esattamente la situazione dei rapporti dell'unicità del sistema delle tangenti, intesa proprio come stesse imprese su cui stavamo indagando a Milano, stesse imprese che avevano commesso reati in Sicilia e nel Sud. Quindi Li Pera ha descritto questa identità di fenomeno, con l'ulteriore specificazione dell'esistenza al Sud del cosiddetto tavolino, di cui vi ho già riferito durante la scorsa audizione.
  Quell'interrogatorio del novembre 1992 è importante perché si discute se si poteva indagare su ciò che Li Pera aveva da dire anche negli anni 1991 e 1992. Quando l'ho sentito io egli mi ha fatto una fotografia di quel che io ho accertato nel 1993, ma nel 1992 ha fatto l'esatta fotografia.
  Non mi dilungo a leggere il verbale, ve lo consegno, però tenete presente che i nomi che ivi sono indicati, le società e le persone, sono le stesse sulle quali io stavo già indagando alla procura di Milano sin da marzo-aprile del 1992, e queste persone riferivano fatti penalmente rilevanti commessi fino a Roma ma mai più in giù.
  Quindi Li Pera ha aperto anche a Milano nel novembre 1992 il fronte «caldo» mafioso, perché le stesse ditte, pur confessando a noi a Milano e a me in particolare, una serie infinita di reati, quella parte non l'avevano riferiti, quindi per noi fu uno snodo fondamentale.
  Devo a questo punto precisare quali sono stati gli sviluppi investigativi che io feci da quel momento in poi in attesa di trovare una collaborazione con Palermo.
  Invero, io non cercai la collaborazione con Palermo a novembre 1992, non la cercai perché Li Pera – lo ha messo a verbale – mi disse: «A Palermo non mi vogliono ascoltare». «Non mi danno retta» esattamente.
  Il capitano De Donno, che mi accompagnò all'interrogatorio mi specificò che anche a lui Li Pera aveva detto questo e che loro come ROS erano in difficoltà a operare perché non riuscivano a fare interloquire Li Pera con l'Autorità giudiziaria.
  Io chiesi a Li Pera: «Perché sei dentro? Con chi ti stai confrontando?». Li Pera ha messo a verbale, lo troverete a verbale, che da un mese o due mesi circa stava interloquendo con l'Autorità giudiziaria di Catania. È tutto verbalizzato.
  A quel punto, proprio perché i fatti raccontati da Li Pera riguardavano le stesse ditte e le stesse persone su cui stavo indagando io e quindi ho continuato ad allargare l'indagine, ho anche acquisito ulteriori accertamenti sulle persone chiamate in causa da Li Pera, non solo per fatti commessi nel resto di Italia, ma anche per ciò che riguardava specificamente in Sicilia.
  Vi allego a mero titolo esemplificativo un estratto di un documento che è stato redatto e depositato da me alla procura della Repubblica di Brescia. Questo estratto riporta la sintesi degli interrogatori che io ho fatto alle persone a cui aveva fatto riferimento Li Pera (tipo Panzavolta, Lodigiani, Canepa e quanti altri ivi riportati). Trattasi di dirigenti delle maggiori società italiane (Cogefar, Impresit, Ferruzzi, Calcestruzzi, eccetera) da cui potete rilevare che in realtà a Milano da quel momento in poi concentrammo le nostre indagini anche con Pag. 5riferimento agli appalti nel territorio siciliano.
  Nel consegnarvi questo estratto però (proprio perché l'estratto è un estratto) vi allego anche alcuni verbali integrali di interrogatori. Interrogatori sì, perché in genere interrogavo persone che avevano qualcosa di penalmente rilevante anche per loro stessi da dire, e quindi sempre con l'avvocato. Non mi è quasi mai capitato di trovarmi di fronte una persona che veniva a riferire un fatto riguardante altri. Mi sono chiesto: «Avrò sentito qualche testimone?»
  Comunque vi consegno alcuni verbali, tipo quello riguardante l'interrogatorio di Maddaloni, De Angelis e Sebasti e altri che sono indicati in questa memoria.
  Tutto ciò per dire che a quel punto, a novembre 1992, anche noi PM della procura di Milano ci rendemmo conto della figura del «terzo soggetto» presente all'interno della realtà siciliana riguardante gli appalti pubblici. Attraverso questi interrogatori comprendemmo che inizialmente il «terzo soggetto» era Siino, ma che successivamente era stato scalzato da Filippo Salamone. Questo documento lo consegno soltanto a titolo esemplificativo.
  Dove voglio arrivare con il mio ragionamento? Voglio sostenere che si stia facendo una differenziazione sbagliata tra la realtà di Tangentopoli e quella di Mafiopoli. Era lo stesso sistema delle imprese che aveva costruito un cartello, era lo stesso sistema della politica che aveva costruito anch'esso un gruppo di potere intorno al pentapartito più uno di cui poi se volete parliamo, un partito nel partito, questo ve lo lascio in sospeso se vorrete domandarmelo. Quindi anche noi iniziammo questa indagine a largo spettro in tutta Italia raccontandoci non solo con la procura di Palermo allorché arrivò Caselli, ma anche con tante altre procure tipo Napoli, Torino, Roma, Foggia, Firenze, insomma ce ne furono tante.
  Vi consegno quindi un brogliaccio di appunti per significare come in realtà sia un errore dividere le due realtà, Roma-Milano per ciò che riguarda l'inchiesta Mafia e Appalti.
  Quando parlo di Mafia e Appalti vorrei precisare che non sto parlando dell'indagine del ROS del 1991, sto parlando delle indagini che riguardano appalti, politica e mafia che venivano svolte in diversi posti d'Italia ed infatti noi della procura di Milano abbiamo interloquito con diverse procure d'Italia.
  Quando io ho sentito Li Pera mi ha raccontato fatti che mi spiace non abbia raccontato prima ad altre Autorità giudiziarie, perché se li avesse raccontati probabilmente quelle Autorità sarebbero arrivati dove sono arrivato io, ma questo non spetta a me giudicarlo. Consegno anche questa documentazione che serve per far comprendere il perché in quel periodo c'era un'attenzione particolare di Falcone e Borsellino, perché di questi stiamo parlando, proprio su Tangentopoli.
  Qui ho sentito che state cercando di trovare una chiave di lettura del perché sia Falcone, ma soprattutto Borsellino, fossero interessati alle inchieste che attenevano al rapporto tra criminalità mafiosa, imprese e politica.
  Bene, io vi ho portato qui un piccolo florilegio di ciò che la stampa ha detto in quel periodo.
  In quel periodo, da febbraio 1992 fino a maggio, quando c'è la strage di Falcone e della sua scorta, e poi fino a luglio con la strage di via d'Amelio, l'inchiesta Mani Pulite è un'inchiesta che si allarga a macchia d'olio e si allarga a tal punto che noi eravamo già arrivati a quelle stesse persone che commettevano quei reati in concorso con i mafiosi in Sicilia. Noi non eravamo arrivati ancora a capirlo perché non ce lo dicevano, ma evidentemente chi leggeva tutti i giorni i giornali e sentiva le notizie se ne rendeva conto.
  Soprattutto, e qui lo riconfermo, se ne resero conto Falcone e Borsellino.
  Falcone, da responsabile del Dipartimento della giustizia, con me interloquì più volte anche al telefono. Andai a Roma per delle rogatorie e lui aveva molto interesse a seguire ciò che stavamo facendo a Milano.
  Io ho preso atto adesso, leggendo le varie istruttorie nei vari processi, che Borsellino ne era interessato moltissimo. E lo Pag. 6confermo. Ho preso atto che addirittura il 14 luglio, una settimana prima di essere ucciso, ha fatto una riunione apposta per cercare di capirne qualcosa in più.
  Ma io vi confermo che Borsellino, che avevo incontrato a Roma, con il quale avevo parlato al telefono, con il quale ho riparlato il giorno del funerale di Falcone, seppure in fretta, aveva ben presente, perché lo leggeva tutti i giorni sui giornali e perché conosceva i rapporti di polizia giudiziaria che aveva ricevuto nel frattempo, sapeva che stavamo parlando della stessa vicenda a cui era interessato lui.
  Vi consegno questa rassegna stampa per farvi comprendere come in realtà l'interesse di questi due giudici nel voler seguire e nel volermi consigliare su come andare avanti nell'inchiesta Mani Pulite era evidente. Io non conoscevo il rapporto del ROS, ma loro lo conoscevano e soprattutto leggevano tutti i giorni sui giornali gli stessi nomi su cui io stavo indagando.
  La nostra più grossa amarezza, in termini di indagine, è stata nel fatto che – seppure avevamo scoperto che, per l'affare Enimont, erano stati versati 150 miliardi di lire di tangenti – una novantina di miliardi erano finiti allo IOR e non e non riuscimmo a sapere che fine avevano fatto.
  Vi consegno il verbale di confronto, svoltosi peraltro in dibattimento, Sama-Bisignani da cui risulta la prova che 93 miliardi sono andati a finire allo IOR, e il Vaticano non ha risposto né a noi né al tribunale che aveva fatto una apposita rogatoria al riguardo. Questo comportamento fa capire come, a volte, si prega di giorno e si «frega» di sera, scusate il termine alla «dipietrese».
  Ve lo consegno, è un verbale di confronto Sama-Bisignani del 2 febbraio 1994 reso davanti al collegio del tribunale di Milano in pubblica udienza.
  Vi consegno ancora un altro documento perché ne ho parlato l'altra volta allorché ebbi a precisare: «Guardate che nella tangente Enimont per noi era fondamentale capire la destinazione di quei soldi» e ce lo doveva dire Gardini, poi se volete parliamo anche di questo. Era fondamentale perché? Perché certamente avevamo acquisito qualcosa di importante. Avevamo acquisito che una parte di quella tangente per 5 miliardi di lire erano andati a finire in mano a Cirino Pomicino, ma costui aveva consegnato un miliardo e mezzo a Lima perché rappresentava... Perché rappresentava Lima, non mi fate dire altro. Lima chi rappresentava? Magari rappresentava Andreotti. Lima rappresentava Lima sul territorio, e questo bastava e avanzava per focalizzare le indagini.
  Vi consegno la relazione (non è firmata perché stava nel mio computer, ma mi assumo la responsabilità, perché porta il nome dell'ufficio di provenienza e tutti gli estremi) che la Guardia di finanza mi fece con riferimento ai numeri dei CCT che incassò Cirino Pomicino; numeri di CCT che cercammo di decodificare per capire chi erano stati i beneficiari.
  In questa relazione troverete i nomi dei beneficiari dei CCT pervenuti a Cirino Pomicino e troverete anche che questi soldi venivano usati, oltre che per fare attività politica, anche per fare altro, questo è scritto nella relazione.
  Quel che mi interessa però farvi rilevare è un'altra questione ed è che in questa relazione c'è l'elenco dei titoli di Stato che erano pervenuti a Lima. Questi titoli di Stato fino a quando sono stato sentito io a Caltanissetta non ancora erano stati incassati. Io non so se la procura di Palermo abbia individuato o meno chi li ha incassati, ma sarebbe interessante sapere Lima a sua volta a chi li ha dati.
  Questi sono un blocco di otto gruppi di CCT per un totale di un miliardo e mezzo circa, ripeto: sarebbe interessante sapere chi li ha incassati. I numeri ci sono, adesso li avranno incassati, tanto è tutto prescritto, sarebbe interessante conoscere i nomi. Vi consegno questa relazione della Guardia di finanza perché personalmente non posso indagare.
  Anche qui si è discusso tanto sulla conoscenza, da parte di Borsellino, di cosa stesse succedendo in Sicilia in materia di mafia appalti.
  C'è una delega di indagine del ROS dei carabinieri di Caltanissetta che, rispondendo alla procura di Caltanissetta, trasmisePag. 7 un verbale di interrogatorio (così viene chiamato l'atto e quindi così lo riporto, io questo atto l'ho acquisito da un fascicolo processuale) a cui era stato sottoposto il PM Fabio Salamone del 24 luglio 1996.
  Questo verbale lo produco perché Fabio Salamone in quell'interrogatorio riferisce dell'incontro che aveva avuto con il dottor Borsellino poco prima che Borsellino venisse ucciso. Ricordate, il PM Fabio Salamone è il fratello di quel Filippo Salamone che aveva preso in mano la gestione dei rapporti fra mafia, politica e affari e rappresentava il referente affari-mafia nel territorio.
  Mi riferisco a quel Filippo Salamone a cui venne concesso inizialmente il patteggiamento per il reato di cui all'articolo 416 c.p., ritenendo che fosse solo uno dei tanti imprenditori che pagava la tangente tramite la mafia e non colui invece che era il mediatore e quindi corresponsabile del reato mafioso di cui all'articolo 416-bis c.p. Mi sembra, ma non vorrei sbagliare, che poi nel 1996-1997 fu proprio il collega Scarpinato tra i magistrati che individuarono in Salamone Filippo anche una corresponsabilità di tipo mafioso.
  Fabio Salamone è quel magistrato che stava ad Agrigento dove operava anche il fratello Filippo Salamone, quel Filippo Salamone che abbiamo capito essere referente fra mafia e appalti. Fabio Salamone era quel giudice istruttore nei cui confronti all'epoca avevano formalizzato una nota di protesta i PM della procura di Agrigento sostenendo: «Come facciamo a chiedere le misure cautelari, a chiedere provvedimenti proprio a questo giudice, quando egli si trova in una situazione delicata anche per via di suo fratello?».
  Mi interessa consegnarvi questo verbale di interrogatorio perché il dottor Fabio Salamone alla domanda: «Lei aveva capito qualcosa di suo fratello, chi era, chi non era?» risponde: «Beh, certo, la gravità come si fa a dirlo, nel senso che mio fratello era un imprenditore. Se devo fare lo struzzo faccio lo struzzo, ma è chiaro che, nel momento in cui emergevano le modalità con le quali in Italia, credo dalle Alpi al Mediterraneo, l'attività di impresa e i rapporti con la politica avevano un certo tipo di sviluppo, evidentemente è chiaro che, anche se con non molta conoscenza dell'attività vera e propria, con tutti i particolari, anche mio fratello potesse incappare in qualcosa del genere».
  Ho fatto questa premessa per dire che evidentemente, nel momento in cui Fabio Salamone ammette che è andato nell'ufficio di casa del dottor Borsellino e da lì si è sentito dire: «Vai via, vai via, vai via», lui innanzitutto conferma che da Borsellino ci è andato e credo che quell'incontro non sia stato richiesto da Fabio Salamone solo per prendere un caffè, altrimenti Borsellino non gli avrebbe detto: «Vai via, vai via, vai via».
  Ho riferito questa circostanza per dimostrare come Borsellino fosse talmente al corrente in quel momento dell'intreccio mafia-appalti da costituire addirittura un punto di riferimento per quel giovane magistrato Fabio Salamone che era andato da lui a chiedere consiglio sul come comportarsi lavorando in una sede giudiziaria che stava indagando su suo fratello o avrebbe potuto indagare su suo fratello Filippo; quindi è in senso positivo che io parli in questo momento di Fabio Salamone.
  Io mi fermerei qui per rispondere alle domande dei commissari.

  PRESIDENTE. Grazie. Ho diversi iscritti a parlare, inizio io, dottor Di Pietro.
  Rispetto a quanto già ci ha riportato, ma soprattutto pensando alla sua famosa intervista a L'Espresso, lei ci spiega che Gardini si suicida, e questo ce lo ha detto anche la scorsa volta, perché sa che quella mattina «venendo da» – dice lei – «doveva fare il nome di Salvo Lima che aveva ricevuto una parte della tangente Enimont e io avrei potuto avere elementi sufficienti per chiedere al Parlamento di arrestare Andreotti».
  Lei ha detto che sono stati individuati i destinatari solo di una parte della maxi tangente Enimont e ha aggiunto che una tranche di questa in CCT aveva come probabile destinatario l'onorevole Lima, ma dalle analisi bancarie e patrimoniali svolte a Palermo nei confronti di Lima non è mai Pag. 8stata rinvenuta traccia di questo pagamento.
  Può essere preciso e ricordarci che cosa avete scoperto e quali prove avevate raccolto, al punto di aver pensato di arrestare Andreotti?
  Con riferimento a quella stessa dichiarazione credo che sia importante per noi sapere se secondo lei Gardini aveva tutto questo timore di fare i riferimenti a Lima ed eventualmente alla corrente in cui lui era inserito. Nella stessa intervista lei dice: «Mani Pulite non l'ho scoperta io, nasce dall'esito dell'inchiesta del Maxi Processo, quando Falcone riceve riservatamente da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l'accordo tra il gruppo Ferruzzi e la mafia. Lì nasce e Falcone dà l'incarico al ROS».
  Falcone e Borsellino le hanno detto qualcosa in merito a quel dossier e alle dichiarazioni di Buscetta sui rapporti con il gruppo Ferruzzi e la mafia?

  ANTONIO DI PIETRO. Andiamo con ordine. L'intervista è una sintesi e, come di consueto – quando si fa la sintesi di un racconto – in una parola si raccoglie un concetto molto più ampio.
  Primo, non sono i pubblici ministeri che arrestano ma i giudici su richiesta dei PM, in secondo luogo non si può arrestare senza autorizzazione un parlamentare, quindi è chiaro che la frase da me riferita era una sintesi per dire che potevo arrivare – vi consegno qualche documento per dimostrarlo – anche ad Andreotti.
  Ma andiamo con ordine. Per rispondere alla sua domanda alla quale non voglio sottrarmi, ma vorrei arrivarci cammin facendo.
  Che Gardini temesse le conseguenze dell'inchiesta Mani Pulite, non di Tangentopoli, non lo dico solo io, lo ha detto anche il suo difensore. Vi consegno una sua intervista del 23 luglio – una, ma ne potrei consegnare tante altre – dove dice esattamente: «Raul Gardini si è ucciso per tutelare la famiglia da Tangentopoli».
  Quindi che ci sia uno stretto rapporto non è una mia deduzione, è anche un'affermazione del legale di famiglia come da documento che produco.
  Una dichiarazione di solidarietà io esprimo a questo avvocato a cui va veramente tutta la mia ammirazione per come è stato all'altezza di gestire la difesa degli indagati durante l'inchiesta Mani Pulite.
  La vicenda processuale di Gardini è stata la vicenda più dolorosa che io abbia vissuto come pubblico ministero.
  È una vicenda che, se si fosse risolta nel modo in cui era stato concepito probabilmente io non avrei avuto bisogno di dimettermi, probabilmente l'inchiesta Mani Pulite avrebbe avuto ben altri sviluppi, probabilmente avremmo scoperto un altro Paese.
  Riassumo i fatti. Gardini paga quella tangente in occasione del closing Enimomt. Closing vuol dire che l'operazione finanziaria consisteva nella scissione dell'ENI da Montedison, ma questo vuol anche dire che quelle due società prima di scindersi si sono fuse. Quindi c'è tutta una storia che nasce intorno all'affare finanziario più consistente di tutti quegli anni, e sia quando c'è la fusione e sia quando c'è la scissione.
  Quando Gardini viene raggiunto da una misura cautelare che il giudice di Milano emette su mia richiesta, sceglie la latitanza.
  Gli imprenditori a quell'epoca – preso atto dell'avanzare dell'inchiesta Mani Pulite – sceglievano tre diversi comportamenti: c'era chi correva da noi prima che glielo chiedessimo, chi correva all'estero prima che lo incriminassimo, (bastava arrestarne uno e loro capivano a chi sarebbe toccato poi) e qualcuno che sceglieva di andare magari in Parlamento per propugnare una legge apposita per non farsi processare. Insomma, queste erano le tre categorie.
  Gardini si ritrovò inizialmente a fare il latitante, ma non ce la faceva a restare latitante, perché con tutti gli affari a cui doveva provvedere, con la gestione della Ferruzzi, con tutte le imprese che aveva in mano, con il suo status symbol da preservare non poteva permettersi di essere assente.
  Così, dopo poco tempo ha cominciato a interloquire – volete chiamarla trattativa? – Sì c'è stata una trattativa tra me ed i suoi difensori. All'avvocato De Luca, stupendo Pag. 9professionista, si aggiunse anche l'ex procuratore aggiunto della Repubblica di Milano Luca Mucci che intanto era diventato avvocato e quindi aveva una maggiore conoscenza di me.
  Mi venne detto: «Ho capito che stai chiudendo il cerchio sull'inchiesta Enimont, Gardini ha interesse a consegnarsi, ma lui non accetterà mai di venire lì con le manette né di uscire con le manette, vuole venire coi suoi piedi e uscire con i suoi piedi». Io ho risposto: «Sì, ma a una condizione: visto che non me lo dice lo IOR, che mi dica chi sono questi» (riferendomi alla necessità che Gardini mi dicesse i nomi di tutti i destinatari della tangente Enimont che non avevamo ancora scoperto).
  Quindi rimanemmo oralmente d'accordo così, una specie di gentlemen agreement fa Accusa e Difesa.
  Il dottor Mucci era l'ex procuratore aggiunto poi diventato avvocato quando è andato in pensione e quindi era per me una persona molto affidabile.
  Rimanemmo d'accordo che Gardini un certo giorno si sarebbe presentato la mattina da me, alle otto, si sarebbe consegnato, lo avrei interrogato mi avrebbe detto chi erano gli altri destinatari delle tangenti Enimont e quindi come era venuto con i suoi piedi, così se ne sarebbe andato con i suoi piedi (nel senso che sarebbe stato rimesso in libertà).
  Il dramma che ha vissuto quella mattina Gardini io me lo immagino, io non sapevo che cosa mi avrebbe detto, ma – alla luce di quello che ho scoperto dopo, anche con alcuni interrogatori di suoi collaboratori che vi consegno – lui sapeva che doveva riferire sui rapporti della Calcestruzzi con il mondo mafioso, i rapporti col gruppo mafioso/imprenditoriale Buscemi e soprattutto i nominativi dei destinatari (ancora oggi rimasti sconosciuti) della tangente Enimont. Lui però sapeva che questo era l'accordo che avevamo raggiunto.
  Ricordo che il suo avvocato mi ha chiamato alle otto del mattino (perché per quell'ora avevamo previsto l'appuntamento nel mio ufficio) e mi ha detto: «Alle otto e un quarto arriviamo», un quarto d'ora dopo quindi sembrava tutto regolare.
  Raccogliere le dichiarazioni confessorie di Gardini per me era come chiudere il cerchio delle indagini Enimont.
  Siamo nel 1993, non più nel 1992 e nel frattempo, sul piano dello sviluppo delle indagini Mani Pulite, è successo quello che è noto; nel 1993 ormai avevamo ben compreso il fenomeno criminale sia dei rapporti fra affari e politica che quelli fra appalti e mafia.
  Avevo acquisito una serie di verbali di interrogatori e altri atti istruttori in cui il ruolo di Lima veniva già molto evidenziato; conoscevamo la vicenda dei soldi che Lima aveva preso provenienti dalla tangente Enimont, quindi per me era uno snodo fondamentale quello sviluppo dell'inchiesta. E Gardini sapeva che questo era quello che mi doveva riferire perché questo avevo richiesto ai suoi difensori.
  In un'ottica di questo genere io pensai che, siccome lui era latitante all'estero e siccome doveva tornare in Italia per presentarsi nel mio ufficio il giorno 23 luglio 1993 la mattina presto, la notte precedente sarebbe andato a dormire a Milano, a via Belgioioso o in Emilia-Romagna o a Roma. Quindi feci appostare Carabinieri, Polizia e Guardia di finanza, ciascuna forza in una delle tre case durante la notte, raccomandando loro di non arrestarlo (benché latitante) qualora fosse arrivato, ma di fermarlo solo nel caso ci avesse ripensato e avesse tentato di nuovo di allontanarsi.
  Se non che la mattina, evidentemente, lui ha visto i Carabinieri appostati sotto casa a via Belgioioso e, a mio avviso, ha pensato che forse lo stessero arrestando per portarlo in manette da me.
  Non ce l'ha fatta più. Insomma, a mio avviso è stato un suicidio d'istinto, di disperazione, di rabbia, non voleva quell'umiliazione, ha avuto timore, ha pensato di essere stato tradito perché era saltato l'accordo, non lo so.
  So soltanto che, dopo quel tragico suicidio, non abbiamo saputo più nulla della destinazione finale di quei 93 miliardi di lire transitati attraverso lo IOR, e non abbiamo saputo più nulla neanche di quell'altra parte di inchiesta con cui avevamo accertato l'arrivo fino al portone di BotteghePag. 10 Oscure di Gardini personalmente (e quindi non attraverso il cognato Sama), portando con sé un miliardo di lire (almeno questo risultava dagli esiti istruttori acquisiti).
  Parlo di tutto questo perché alla spartizione delle tangenti fino ad allora risultava formalmente che ci fosse solo il pentapartito.
  Portiamoci già nel 1993, ormai l'inchiesta si era sviluppata in migliaia di riscontri, centinaia e centinaia di interrogatori, ammissioni a non finire, eppure c'era una specifica caratteristica fino ad allora poco focalizzata.
  Molti degli imprenditori, o comunque di coloro che ammettevano i fatti, riferivano che si era creato questo sistema di dazione ambientale per cui in relazione alla spartizione degli appalti si doveva da una parte accontentare economicamente il pentapartito (e quindi era stato creato una specie di finanziamento illecito periodico ai tesorieri del pentapartito) e dall'altra soldi che andavano direttamente a esponenti politici del pentapartito o pubblici ufficiali a loro contigui per fini strettamente personali. In realtà molti – vi consegno una piccola sintesi, saranno una ventina di interrogatori – in cui le persone interrogate sostanzialmente dicono: «Guardate che bisogna pagare quello della DC, del PSI, eccetera e poi, a parte la corrente andreottiana», quasi che fosse un partito nel partito.
  In pratica, capitava che lo stesso imprenditore per lo stesso appalto doveva dare un tot di soldi al segretario amministrativo della DC Severino Citaristi (tra parentesi, io ho fatto circa settanta avvisi di garanzia a Citaristi, non ho contato a quanti anni è stato condannato, ma non gli ho trovato un solo caffè preso con i soldi del partito, commetteva il reato di illecito finanziamento in quanto segretario amministrativo ma non gli ho trovato un euro intascato per fini propri).
  Invece, quando sento dire che Bettino Craxi, tanto per fare i nomi, è stato condannato perché non poteva non sapere o cose del genere, sappiate che il conto corrente Northern Holding e il conto corrente Constellation Financiere che Craxi aveva in Svizzera e che gestiva il suo amico d'infanzia, Giorgio Tradati, ebbene quei soldi non sono andati a finire nelle casse del partito, ma sono sempre rimasti nella sua disponibilità personale e ancora oggi non si sa chi li ha presi perché sono spariti tramite la contessa Vacca Agusta e il suo compagno, Maurizio Raggio, e quindi non si sa dove siano andati a finire. Dove siano andati a finire non lo so.
  Quel denaro non c'entrava niente col finanziamento pubblico ai partiti, quelli li prendeva lui, Craxi, a piazza Duomo, glieli portavano a piazza Duomo e li riceveva tramite la sua segretaria Tommaselli.
  Intestare a Craxi le strade pubbliche, definendolo, oltre che statista, anche esule (quando invece era un latitante condannato in via definitiva), a me non pare storicamente corretto, però per me resta una persona che non ha preso i soldi solo per finanziamento pubblico ai partiti, me ne assumo la responsabilità, ha preso i soldi anche per sé. Citaristi no.
  Ritornando a ciò che stavo dicendo prima, vi consegno qui solo esemplificativamente una ventina di interrogatori con tanto di etichette di richiamo.
  Apro a caso uno di questi verbali. Ecco, questo che parla, per esempio, è Cragnotti che mette a verbale: «I problemi insorsero allorquando il Governo non provvide ad adottare i provvedimenti concernenti gli sgravi fiscali, ma ci sentimmo tutti relativamente tranquilli perché avevamo avuto la parola di un intervento legislativo ad hoc sia del Presidente del Consiglio De Mita che da una parte di numerosi ministri. La situazione si modificò allorché cadde De Mita e subentrò il Governo Andreotti» dopodiché dice: «A un certo punto ci decidemmo a pagare». Si legge testualmente nel predetto verbale: «...in questo clima il dott. Gardini mi riferì che erano cominciate una serie di consistenti pressioni del sistema politico perché la Montedison provvedesse a cospicui versamenti ai partiti politici. A dire del dott. Gardini le pressioni e le richieste provenivano dalla segreteria politica del partito socialista, dalla segreteria politica del partito della democrazia cristiana e dalla stessa Presidenza del Consiglio. Ricordo che Pag. 11Gardini faceva costante riferimento al C.A.F., con ciò intendendo riferirsi alle persone di Craxi, Andreotti e Forlani ed, in ultima analisi, al sistema di potere da loro instaurato...».
  Nessuno dice: «Ho dato soldi ad Andreotti», nessuno lo dice ma molti li hanno dati e li hanno presi utilizzando il suo nome.
  Ecco perché io l'altra volta vi ho detto: «Guardate che c'è un livello di responsabilità che riguarda chi la gira, ma non la tocca», ovvero di coloro che non troverete mai con un euro in mano.
  È possibile che quella «corrente andreottiana» ha una tale potenza che prende i soldi per sé e gestisce il suo sistema di finanziamento addirittura autonomamente dal partito?
  Mi ero posto questo problema. All'epoca stavo focalizzando le indagini proprio su questa «corrente di partito» quando mi è arrivato tutto quel dossieraggio che mi è arrivato addosso e di cui vi ho riferito durante la mia precedente audizione. I referenti su cui stavo indagando erano Lima, Pomicino (il quale si arrabbierà ancora una volta con me), Ciarrapico e così via e qui, in questi documenti che produco ci sono i riferimenti che avallano quel che affermo.
  Dico questo perché nell'inchiesta Mani Pulite il mio obiettivo, sapendo che prima o poi sarei stato fermato in un modo o nell'altro, ricordatevi che all'epoca io ero uno di quelli che pure doveva essere fatto fuori.
  Sapendo che prima o poi sarei stato fermato, sapendo del dossieraggio che stavano predisponendo contro di me, io volevo chiudere il cerchio non tanto impegnando il tempo per cercare di scoprire quanti reati ogni indagato poteva aver commesso, aveva fatto, ma piuttosto individuare qualche reato commesso da chi si trovava alla punta finale del sistema ovvero di chi appunto «la girava ma non la toccava». E quella punta finale del sistema incrociava da una parte Gardini, da una parte il gruppo FIAT, dall'altra parte la corrente andreottiana.
  Questa è la situazione monca di quell'inchiesta. Ma, ripeto, se poi a qualcuno non basta o qualcuno mette in dubbio quanto affermo, si sappia che io in questi anni, da quando sono tornato a casa in pensione, ho trasformato la vecchia stalla di mio padre in un magazzino e lì vi ho accatastato centinaia di migliaia e forse qualche milione di pagine a disposizione.

  PRESIDENTE. Grazie. Prego, senatore Verini.

  WALTER VERINI. Grazie, presidente, grazie anche al dottor Antonio Di Pietro per la sua disponibilità e per la sua esposizione. Ho tre domande molto rapide.
  La prima. Lei nella sua precedente esposizione, anche con toni che credo abbiano colpito tutti, ha rievocato i giorni drammatici in cui si dimise dalla magistratura per l'azione di dossieraggio svolta nei suoi confronti. Lei si è fatto un'idea dei reali, concreti responsabili – se posso usare questo termine- mandanti e poi anche esecutori di questa azione?
  La seconda. Lei ha fatto riferimenti a rapporti tra Tangentopoli e Mafiopoli, ora le voglio fare una domanda alla luce della sua esperienza, credo che possa essere di utilità per il nostro lavoro.
  L'aggressione ai patrimoni è stata fondamentale nel contrastare le mafie che si sono però oggi molto aggiornate, modernizzate, tecnologicizzate, finanziarizzate e globalizzate. Secondo lei l'attualità di aggredire patrimoni e risorse è ancora valida? Come dovrebbe essere intensificata e anche aggiornata davanti ai cambiamenti delle mafie che non sono più quelle di venti, trent'anni fa?
  Lei ha parlato molto dei rapporti che c'erano tra la vostra iniziativa giudiziaria, della procura di Milano, delle vostre numerose inchieste e delle indagini e anche dei rapporti che aveva con Falcone, con Borsellino, scambi magari a volte più fugaci, poi dei rapporti legati al periodo della permanenza di Falcone al Ministero. Lei poi ha detto che dopo, quando il procuratore a Palermo era Caselli e a Milano c'eravate voi e Borrelli – se non ricordo male la frase – «quando abbiamo iniziato a coordinarci tra Milano e Palermo, grazie Pag. 12agli eccellenti rapporti tra Caselli e Borrelli, non abbiamo dovuto imboccare Palermo, sulla pista appalti erano avanti, ci stavano già lavorando», soltanto per riprendere un passaggio della sua esposizione.
  Siccome anche da audizioni precedenti era sembrato che, dopo gli assassinii di Falcone e di Borsellino, la questione si fosse fermata, la domanda è: mi conferma che invece anche dopo quei due attentati l'iniziativa della procura di Palermo e di altre procure siciliane andarono avanti in maniera molto forte su queste piste che avevano evidenti connessioni politiche, non solo tra aziende, gruppi e mafie?

  ANTONIO DI PIETRO. Rispondo cominciando dall'ultima perché credo che sia quella più di attualità per l'ordine del giorno.
  Io durante l'inchiesta Mani Pulite ricevetti collaborazione tecnica, nel senso di consigli e anche rimproveri soprattutto con riferimento alle rogatorie, da Giovanni Falcone. Ebbi modo di confrontarmi con loro (Falcone e Borsellino) su cosa stavo facendo io a Milano e loro ne erano molto interessati, ma loro non mi hanno mai riferito di ciò che sapevano o che volevano fare a Palermo. Me ne ha riferito Borsellino dopo la morte di Falcone, quando appunto si concentrò con me e disse: «Dobbiamo fare presto, dobbiamo fare presto, dobbiamo andare di corsa».
  Invece l'indagine che più mi sollecitava a fare Falcone era di andare a cercare il denaro e di dividere le rogatorie: ogni rogatoria per ciascun fatto e ciascun personaggio, chiedendo alle competenti autorità non tanto elementi di riscontro di tipo soggettivo, ma tecnicamente il bonifico bancario.
  Dopo le stragi io non ho interloquito più con nessuno e non so se e quali indagini ha fatto la procura di Palermo in quel periodo. Quando venne da me l'allora capitano De Donno (il cui nome ricordo ora, ma che trovate scritto nel verbale; non lo ricordavo quando venni sentito vent'anni dopo dall'Autorità giudiziaria, ma dissi che era scritto nel verbale, quindi confermo essere il capitano De Donno) – e andai a interrogare – insieme a lui – il detenuto Li Pera questi mi fece presente che avevano questa difficoltà di dialogo con Palermo. Ma era una difficoltà di Li Pera a parlare con Palermo o di Palermo a parlare con Li Pera? Questo è un quesito a cui non posso dare risposta perché non c'ero. Posso solo precisare di aver verbalizzato quel che mi ha detto Li Pera, il quale si lamentava del fatto di non esser preso in considerazione dalla procura di Palermo.
  So soltanto che, dopo che Li Pera mi ha spiegato come venivano gestite le tangenti in Sicilia, ho accentuato le mie indagini su quel filone, con particolare riferimento a Filippo Salamone per ciò che riguarda l'aspetto mafioso e con particolare riferimento alla cosiddetta corrente andreottiana perché faceva riferimento all'onorevole Lima e a me interessava molto dal punto di vista investigativo perché, con tutto quello che era successo nel 1992, con il fatto che era stato ammazzato, che c'erano questi collegamenti tra mafia, politica ed affari, l'inchiesta Mani Pulite aveva preso ormai una pista molto importante.
  A quel punto, nel dicembre 1992, inizio 1993, il dottor Caselli prende le funzioni a Palermo e so per certo che Caselli e Borrelli si sono incontrati e si sono confrontati sui risultati delle rispettive inchieste perché – quando poi ci siamo incontrati a Milano con i rispettivi pool di PM – parlavano di stato delle indagini su cui si erano già parlati.
  Quando abbiamo avuto l'incontro formale sia in ufficio sia a casa di Borrelli, io personalmente ho avuto modo di constatare che Palermo non pendeva dalle nostre labbra su quel che riguardava i rapporti «mafia-appalti» ma quella procura aveva già acquisito molti riscontri processuali al riguardo (con Caselli o prima, questo non lo posso sapere, ma Caselli ed il suo pool in quell'occasione si mostrarono ben a conoscenza del fenomeno).
  A quella riunione parteciparono Caselli, Lo Forte, Ingroia e credo Patronaggio. Non credo che quel giorno ci fosse Scarpinato, io non me lo ricordavo, ma poi durante l'altra audizione ho visto che faceva di no con la testa, magari ce lo dirà lui.Pag. 13
  Ci siamo scambiati le prime informazioni, anche esaminando i documenti. I PM di Palermo avevano a portata di mano verbali non so se di Maddaloni, di Lodigiani e di altri ancora e quindi quelle stesse ammissioni di responsabilità che avevamo acquisito noi nei nostri verbali.
  In alcuni verbali si faceva riferimento ai medesimi fatti tanto che ad un certo punto abbiamo fatto congiuntamente alcuni interrogatori con la redazione di un unico verbale. Ci sono dei verbali, se volete ve li consegno, i cui incipit così iniziavano: «alla presenza del dottor Di Pietro e del dottor Lo Forte» piuttosto che Patronaggio, insomma sono stati effettuati interrogatori congiunti.
  Ho ancora davanti agli occhi quel primo incontro tra noi PM di Milano e i colleghi di Palermo perché io non volevo avviare quella collaborazione; quel filone di indagini volevo svilupparlo io e quindi ricordo bene il mio iniziale disappunto, ma non potevo permettermi di dire di no al dottor Borrelli con tutto quello che faceva per noi e inoltre il rispetto e la stima che avevamo per il dottor Caselli erano enormi.
  In conclusione, posso assicurare che i PM di Palermo – quando nella primavera del 1993 si incontrarono con noi del pool di Milano – avevano una conoscenza già molto approfondita del fenomeno mafia-appalti.
  Rispondo ora alla seconda domanda, quella sui patrimoni. C'è poco da discutere, se vogliamo scoprire la corruzione è inutile girarci intorno, i soldi o te lo dice chi li dà o te lo dice chi li prende. Siccome la corruzione è come un matrimonio: per avverarsi, vi devono essere almeno due persone che si accordano fra di loro. È però un matrimonio d'interesse e quindi l'investigatore se vuole scoprire la corruzione, deve rompere l'interesse a tacere di uno dei due, il corrotto o il corruttore.
  Per rompere l'interesse a un imprenditore non devi andare appresso alla moglie, devi andare appresso ai soldi che ha l'imprenditore, appresso ai bilanci che pubblica.
  Per predisporre la provvista necessaria per pagare il corrotto, l'imprenditore corruttore deve prendere i soldi dall'impresa e quindi deve necessariamente fare dei falsi in bilancio.
  Allora come ora – non sono parole mie ma parole che il dottor Falcone ebbe a dirmi nel correggermi la mia prima rogatoria internazionale che feci: «Devi cercare i soldi, solo cercando i soldi, cioè la provvista, riesci a fare quegli altri tre passaggi». I tre passaggi che, mi ricordo, spiegò bene: «Conto di mezzo, conto di provenienza e conto di destinazione, tu devi individuare il conto di mezzo perché dal conto di mezzo vai di qua e vai di là».
  Certo, allora l'indagine si faceva in un modo e adesso si fa in un altro, ma questo è un altro discorso. Quando facevo il poliziotto facevo i pedinamenti, ora i pedinamenti non servono a nulla perché usano tutti il telefono! È chiaro che l'indagine ora può essere fatta in un altro modo, anche l'indagine bancaria può essere effettuata in modo più pregnante e mirato.
  Da ultimo, in merito alla sua domanda sul dossieraggio nei miei confronti, io ho depositato tre documenti fondamentali che spiegano quel che è successo e chi ne sono stati gli autori: due attività di dossieraggio fatte nei miei confronti sono state azzerate da altrettante sentenze di proscioglimento in udienza preliminare (quindi senza bisogno di svolgere alcun processo nei miei confronti), dal GIP di Brescia, ciò a dimostrazione che quelle accuse che erano state rivolte nei miei confronti erano frutto di affermazioni false.
  Le attività di dossieraggio i cui processi si sono svolti dal 1995 in poi erano già state predisposte e perfezionate sin dal 1992 e poi nel 1993. Come sono state effettuate, da chi e per conto di chi è scritto nelle due relazioni al Copasir che vi ho consegnato alla scorsa audizione. Lì ci sono esattamente i nomi di chi li ha organizzati all'interno del SISDE, ci sono nomi e cognomi che fanno riferimento a questi soggetti.
  Chi era il mandante? Sta scritto lì e lo ripeto qua: Bettino Craxi.
  Il dossieraggio durante la mia attività di magistrato di Mani Pulite rimase lì e inizialmente non venne usato processualmente da nessuno (salvo le solite allusioni Pag. 14giornalistiche), e venne assemblato da un soggetto apparentemente anonimo e consegnato il 22 novembre 1994.
  Vi ricordate che cosa è successo il 22 novembre 1994? Non era il giorno prima o il giorno dopo dell'avviso di garanzia a Berlusconi?
  Ebbene quel giorno quel dossier venne apparentemente ed anonimamente depositato in una busta nella cassetta di posta privata della casa del dottor Dinacci ovvero di colui che all'epoca era a capo dell'Ispettorato del Ministero della giustizia, ufficio che si occupa dei procedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati.
  È chiaro? Un busta anonima depositata in forma anonima nella casa privata del capo degli ispettori!
  Di quella busta l'ispettore capo non fece alcun uso, se la tenne nel cassetto, salvo poi farla distruggere appunto quando non servì più. La busta gli arrivò a settembre o ottobre, gli arrivò già un mese prima rispetto a quanto poi il suo contenuto venne usato in altro modo.
  Due o tre giorni prima di questo avviso all'allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (che in realtà era formalmente un invito a comparire che gli notificammo il 22 novembre 1994), si presentò spontaneamente all'Ufficio dell'Ispettorato del Ministero della giustizia, e venne ricevuto immediatamente da tal Giancarlo Gorrini con un esposto a mio carico che era la fotocopia di quello a suo tempo fatto assemblare da Craxi ed il medesimo in forma anonima nella cassetta di casa di Dinacci.
  Si presentò in apparenza spontaneamente questo signore e raccontò una serie di vicende riguardanti la mia persona. Di quel racconto io venni a conoscenza sin dal 22 novembre, cioè il giorno prima o il giorno dopo dell'invito a comparire a Berlusconi, e a quel punto compresi che ormai intorno a me il cerchio della delegittimazione per bloccare l'inchiesta Mani Pulite si era chiuso.
  Nessuno mi ha detto: «Dimettiti», nessuno mi ha costretto a dimettermi, ma io mi resi conto che non sarei mai riuscito a difendermi continuando la mia attività come pubblico ministero, perché venivo accusato proprio di fatti su cui io stavo indagando, addirittura insieme a persone che io nel frattempo avevo anche messo sotto indagine ed anche arrestate.
  Mi sono venuto così a trovare in una situazione estremamente imbarazzante.
  In quel periodo, in quei giorni, in quei mesi, in quelle settimane c'era già in corso un'ispezione ministeriale, rubricata con il n. 1294/92, ispezione che si stava svolgendo nei confronti di tutto il pool dei PM di Mani Pulite e anche nei confronti di alcuni GIP e giudici del tribunale che si stavano occupando dei relativi processi.
  Tale prima ispezione venne disposta dall'allora Ministro della giustizia, Alfredo Biondi su sollecitazione dell'allora procuratore generale di Milano, Giulio Catelani. Questa ispezione venne svolta molto bene, con competenza, con trasparenza dagli ispettori incaricati e l'ispezione si chiuse con una relazione di mille pagine e passa – che posso consegnare se interessa – ove veniva dato atto che i nostri comportamenti e le nostre azioni giudiziarie durate l'inchiesta Mani Pulite si erano svolte tutte in modo cristallino.
  Sostanzialmente eravamo stati accusati di arrestare le persone per farle confessare, ci accusavano di falso, di abusi vari, insomma di tutto un po'. Anzi, ci accusavano soprattutto di aver posto in essere un deliberato colpo di Stato.
  Vi consegno una rassegna stampa al riguardo, perché la cosa che più mi deprime in questo momento è constatare che le accuse che ci rivolgevano ai tempi dell'inchiesta Mani Pulite vengono riproposte ancora oggi dopo oltre trenta anni. Ho la rassegna stampa del 1992, del 1993, del 1994, ma anche del 2023 in cui ancora oggi c'è chi sostiene che noi volevamo fare un colpo di Stato.
  Io ve la consegno questa rassegna stampa perché esprime la mia amarezza. Quando ci hanno accusato di aver fatto un colpo di Stato – nonostante l'ispezione ministeriale prima e l'Autorità giudiziaria poi archiviarono l'accusa perché infondata – uno specifico sistema di informazione continuò a ripeterlo e fu più volte condannato a risarcirePag. 15 i danni, perché è una falsità affermare che noi volevamo fare un colpo di Stato.
  Ora, dopo trenta anni, si sta cercando nuovamente di far credere che Mani Pulite fu un colpo di Stato e non una riaffermazione di uno stato di diritto.
  L'anno scorso ho provato a rifare una causa a chi ci ha rivolto le stesse accuse ma questa volta il giudice ha sentenziato che l'accusa, seppure non vera, rientra nel diritto di critica. Io ho pieno rispetto del diritto di critica, ma ogni critica deve basarsi su un presupposto da cui non si può prescindere: il fatto deve essere vero.
  Noi non abbiamo fatto quel processo per ribaltare la classe politica della prima Repubblica, noi abbiamo fatto quel processo perché c'erano delle persone che prendevano i soldi per truccare degli appalti e delle persone che davano dei soldi per truccare degli appalti. La colpa, quindi, non è di noi PM di Mani Pulite che abbiamo fatto l'inchiesta, ma dei personaggi di Tangentopoli che hanno rubato.
  Detto questo concludo perché devo completare la risposta sulla domanda sull'esposto presentato da Gorrini il 22 novembre 1994 ristretto alla mia persona e che ha portato alle mie dimissioni.
  Rispetto a quel dossieraggio è stata avviato subito, nella stessa giornata, un'altra ispezione ministeriale riservatissima (diversa da quella rubricata con il n. 1294/92 riguardante tutto il pool) rubricata con il n. 1296/92.
  Quest'altra ispezione riservata riguardava solo me e della sua esistenza sono stato messo subito a conoscenza.
  Ebbene, io mi sono dimesso il 6 dicembre 1994 e il 7 dicembre l'ispezione è stata archiviata. Si badi bene, io non mi sono dimesso dalla magistratura il 7 dicembre, come tutti hanno scritto, lo ricordate? Il 7 dicembre mi sono solo messo in aspettativa, in attesa di verificare l'evoluzione di tale ultima ispezione.
  Mi sono dimesso dalla magistratura ad aprile del 1995, e fino ad allora ero ancora magistrato. Pur essendo ancora magistrato, il 7 dicembre del 1994, ovvero il giorno dopo aver lasciato l'incarico di PM di Mani Pulite dopo le mie dimissioni, l'esposto di Gorrini è stato archiviato e il relativo fascicolo n. 1296/94 credo che sia stato anche distrutto.
  Gorrini era un imprenditore che aveva una compagnia di assicurazione e credo che non sapesse neanche che esistesse al Ministero della giustizia l'ufficio dell'Ispettorato.
  Ed allora la domanda che bisogna porsi è: chi l'ha portato? Chi gli ha indicato la strada? Chi l'ha ricevuto e gli ha dato retta immediatamente?
  Certamente l'ha ricevuto il capo degli ispettori, Ugo Dinacci, ma chi ce l'ha portato da costui? E perché proprio a ridosso di quel 22 dicembre, giorno dell'invito a comparire nei confronti del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi?
  Se leggete la sentenza numero 65/97 del tribunale di Brescia che ho depositato nella mia precedente audizione (di cui all'allegato numero 13), voi trovate il nome e cognome. Il nome e cognome che esce fuori è che è stato portato da Paolo Berlusconi (fratello di Silvio).
  Le ho risposto a sufficienza? È stato mandato, scusi, non portato, gli è stato indicato.

  PRESIDENTE. Grazie. Vedo il senatore Scarpinato e quindi gli do la parola. Ricordo soltanto che avremmo stabilito di chiudere alle 13.30, questo lo dico per cercare di stare nei tempi. Prego, senatore.

  ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO(intervento da remoto). La prima domanda è questa. Il senatore Di Pietro ha parlato dell'interrogatorio di Li Pera del 12 novembre del 1992, nel corso del quale Li Pera gli parlò del ruolo dei mafiosi nella Tangentopoli siciliana. Chiedo a Di Pietro se gli risulta che Li Pera era stato arrestato per reato di mafia da Palermo nel giugno del 1991 e interrogato dalla procura di Palermo negò il ruolo dei mafiosi nella Tangentopoli, interrogato successivamente dalla procura di Catania nel giugno e nel luglio del 1992 continuò a negare il ruolo dei mafiosi e che soltanto dinanzi a Di Pietro cominciò a rivelare il ruolo dei mafiosi. E se gli risulta che questo Pag. 16interrogatorio fu recepito dalla procura di Palermo e consentì anche di fare un mandato di cattura nel marzo del 1993 nei confronti di Lodigiani, di Rizzani de Eccher e altri.
  La seconda domanda è su Filippo Salamone, se può ritornare sulla figura di questo personaggio, può spiegare perché nella scorsa audizione ha detto che il ROS aveva cannato su Filippo Salamone, se gli risulta che nell'informativa del febbraio del 1991 Salamone non era indicato come personaggio di interesse investigativo.
  La terza domanda è a proposito di Martelli che chiamò Falcone al Ministero della giustizia e fu costretto a dare le dimissioni a seguito delle rivelazioni sul Conto protezione. Se gli risulta che Martelli ha dichiarato che prima di quelle dimissioni ricevette messaggi intimidatori da parte degli uomini della P2. Se gli risulta che Martelli fu incriminato perché, dopo Larini, Licio Gelli si presentò alla procura e incrociò le dichiarazioni di Larini. Se gli risulta che dopo le dimissioni la Falange Armata fece un comunicato dicendo che Martelli era fortunato perché per lui non era stata necessaria l'eliminazione fisica, ma era stata sufficiente l'eliminazione politica.

  ANTONIO DI PIETRO. Buongiorno, ex collega Scarpinato.
  Andiamo con ordine, quel che mi ha detto Li Pera l'ho riportato esattamente nel verbale di interrogatorio del 12 novembre 1992. In quel verbale egli mi ha precisato innanzitutto, perché la prima cosa che gli ho chiesto è proprio stato: «Che ci fai in galera?» e lui mi ha precisato... Glielo leggo. «L'ufficio fa presente a Li Pera che è suo diritto rispondere e al riguardo Li Pera dichiara: “Intendo rispondere e dichiarare spontaneamente quanto segue”.». Così mi dichiara e così l'ho riportato: «Sono stato arrestato il 10 luglio 1991 dall'Autorità giudiziaria di Palermo per 416-bis c.p. ed attualmente sono a disposizione della quinta sezione del tribunale di Palermo ove si sta svolgendo il processo anche a mio carico».
  Quindi io non so se voi l'avevate arrestato per 416 o 416-bis, so per certo che a me ha riferito i fatti che ho riportato.
  Ribadisco, non ho letto mai il rapporto 892, mi pare che così si chiami, del ROS del 1991. Dell'esistenza di quel rapporto sono venuto a saperlo dopo, del fatto che il ROS stava indagando sul fenomeno mafia-appalti, quando De Donno è venuto a dirmi: «Sentilo perché ha da dire delle cose con riferimento a ditte di cui lui ha letto sui giornali che stai procedendo».
  Non ho mai letto quel rapporto del ROS e quindi non conosco il contenuto. Certamente io ho sentito parlare la prima volta di Filippo Salamone quando me ne ha parlato Li Pera. Non so se nel rapporto del 1991 del ROS ci fosse perché, ripeto, non l'ho letto.
  Questa è la prima domanda che mi ha posto l'onorevole Scarpinato e a cui ho fornito la mia risposta.
  Rispondo alla seconda domanda. Nelle indagini successivamente svolte si accertò che in quel rapporto del ROS un personaggio chiave era un certo «S». Questa «S» veniva indicata nelle intercettazioni telefoniche, per intenderci. Questa «S» fu identificata all'epoca dal ROS nella persona di Angelo Siino. Successivamente accertammo (anche grazie a quanto detto da Li Pera) che anche il ROS aveva cannato, nel senso che «S» non stava per Siino ma stava per Salamone. Quindi su questo confermo quanto appena fatto presente al dottor Scarpinato.
  Così come confermo che quando noi ci coordinammo, la procura di Milano con la procura di Palermo, prendemmo atto che Palermo aveva in mano già anch'essa degli interrogatori e degli atti istruttori svolti nei confronti di soggetti su cui avevamo proceduto anche noi, tra cui anche Lodigiani, tra cui anche Panzavolta, Canepa e altri ancora.

  PRESIDENTE. Grazie. Prego, senatore Sallemi.

  SALVATORE SALLEMI. Grazie, presidente. Buongiorno, dottor Di Pietro.
  Sempre su Filippo Salamone. In audizione in commissione regionale siciliana antimafia lei affermò: «Io torno a ripetere che voi vedete in Contrada la chiave di Pag. 17lettura, io credo che la chiave di lettura sia Filippo Salamone». Può spiegare come e perché giunge a questa conclusione?
  Un'altra domanda sempre in riferimento all'audizione del processo Borsellino ter del 21 aprile 1999, lei raccontò di aver predisposto nella primavera del 1993 una richiesta di misura cautelare per Filippo Salamone a cui non diede seguito. Può dirci per quali reati, in quale contesto e perché poi si fermò?
  Grazie, dottore.

  ANTONIO DI PIETRO. Non mi fermai, anzi. Accadde nella primavera del 1993, con l'arrivo di Caselli, che nel coordinamento delle indagini quel tipo di indagini spettava alla procura di Palermo, per cui oltre al coordinamento delle indagini decidemmo anche di comune accordo come procedere. Cioè, vale a dire che la competenza territoriale spettava indubbiamente a Palermo.
  Io, da parte mia, fino a quando non arrivò il dottor Caselli a Palermo avevo continuato lo stesso a svolgere indagini con riferimento alle dichiarazioni di Li Pera, ma non solo a quelle dichiarazioni. In quel periodo stavo svolgendo tantissime indagini. Un filone di quell'indagine riguardava proprio questo aspetto particolare rivelato da Li Pera e lo riguardava perché stavamo procedendo sulla tangente Enimont, stavamo procedendo sulla Calcestruzzi, stavamo procedendo sulla Ferruzzi, stavamo procedendo su quei rapporti che aveva segnalato Li Pera. Quindi anche quel filone di indagini stavo coltivando.
  Io credo di avere ancora la bozza della richiesta di misura cautelare nei confronti di Filippo Salamone che avevo predisposto, ma siccome era soltanto una bozza informale l'ho tenuta per me, però il capo di imputazione ce l'ho ancora.
  Poi, nella primavera del 1993, è arrivato il dottor Caselli con il suo pool e il dottor Borrelli ci ha detto: «Collaboriamo». Ci siamo trovati molto bene a collaborare. Io vorrei ribadire che non c'è stato alcun conflitto, e credo che l'onorevole Scarpinato possa fare da testimone su questo specifico punto. Ripeto, non c'è stato alcun conflitto, abbiamo lavorato bene assieme.
  Quando io acquisivo delle informazioni attraverso gli interrogatori le trasferivo a Palermo proprio perché si era verificata questa collaborazione.

  PIETRO PITTALIS(intervento da remoto). Scusi, dottor Di Pietro, questi riferimenti...

  PRESIDENTE. Onorevole Pittalis, non si può interrompere l'audito, lei lo sa. Mi chiede la parola e io la faccio parlare, la prego. Grazie.

  PIETRO PITTALIS(intervento da remoto). Non è un'aula di tribunale, scusi.

  PRESIDENTE. No, infatti sta rispondendo a una domanda, poi lei chiede di parlare e io le do la parola. Grazie, onorevole. Prego.

  ANTONIO DI PIETRO. Non ho capito dove ho sbagliato, però se ho sbagliato chiedo scusa. Torno a ripetere, noi ci trovavamo bene a lavorare assieme.
  Voi mettetevi nella situazione ambientale del 1993. Il 1993 fu l'anno d'oro di quell'inchiesta perché scoprimmo fatti che coinvolgevano tutta l'Italia.
  Non collaborammo soltanto con la procura di Palermo con cui c'era un rapporto di reciproca fiducia. Collaborammo anche con la procura di Torino con cui pure c'era un rapporto di reciproca fiducia.
  Arrivavano un mare di richieste di coordinamento da tante altre procure. La mia preoccupazione era che – poiché l'indagine Mani Pulite si basava tutta sul cosiddetto fascicolo virtuale (cioè su questa massa di informazioni che dall'85 stavo mettendo in piedi) – se fosse stata smembrata in tanti rivoli per finire in altrettante Autorità giudiziarie, sarebbero venuti a mancare il filo logico e il filo unico che legava il sistema della «dazione ambientale» ovvero di Tangentopoli su cui stavamo mettendo le mani.
  Ecco perché io ero sostanzialmente restio a collaborare con le altre Autorità giudiziarie, ma non lo fui con Palermo per le ragioni che ho già detto.Pag. 18
  Con riferimento alla vicenda riguardante il ruolo di Filippo Salamone se ne occupò eccome la procura di Palermo dopo che noi mandammo le carte, perché mi risulta che poi l'ha pure arrestato, mi risulta che ha pure proceduto.
  Con riferimento poi all'altra domanda che mi era stata fatta su Martelli, io non conosco la vicenda perché non vi ho partecipato direttamente, però ho qui il suo verbale di interrogatorio a disposizione della Commissione.

  SALVATORE SALLEMI. La domanda su Martelli gliel'ha fatta Scarpinato. Io le ho fatto la domanda con riferimento alla sua dichiarazione su Contrada in commissione antimafia regionale siciliana.

  ANTONIO DI PIETRO. Contrada è un personaggio che non conoscevo, salvo che mi ha fatto passare i guai perché mi sono ritrovato una volta a una cena natalizia organizzata dai carabinieri, in cui venne scattata una foto di gruppo e poi scoprii che nella foto, alla stessa tavolata ove stavo seduto io, c'era lui, Contrada, poi c'era uno dei servizi americani, qualcosa del genere. Insomma, da quella foto in cui io e Contrada siamo stati ripresi allo stesso tavolo scaturì che io forse fossi un agente della CIA. Mi misero sotto indagine anche per questo ma poi mi prosciolsero solo perché riuscii a dimostrare che non sapevo parlare inglese, altrimenti rischiavo di essere stato messo sotto processo anche per essere un agente della CIA.

  PRESIDENTE. La domanda era se poteva spiegarci la conclusione a cui lei è giunto, cioè che la chiave di lettura non fosse Contrada, ma Salamone.

  ANTONIO DI PIETRO. Per un motivo molto semplice, perché tutte le indagini ci portavano a Salamone come l'imprenditore che aveva stabilito un accordo con il gruppo Ferruzzi tramite Calcestruzzi, era uno dei modi per arrivare a quel famoso canale di come e perché il gruppo Ferruzzi, Gardini in particolare, voleva inserirsi all'interno del sistema siciliano.
  È sempre quello, non l'ho sto dicendo solo io, credo che anche altre persone sentite qui l'abbiano detto, ma io lo so perché tra di noi se ne parlava.
  Perché c'è questo interesse del gruppo Ferruzzi a entrare? Credo perché della gestione delle cave di marmo ne voleva avere il monopolio; certamente perché in Sicilia, voleva avere il monopolio del controllo degli appalti e quindi mettere una propria ditta all'interno di ogni consorzio era fondamentale.
  Presumibilmente, perché poi di fatto anche di questo bisogna tener conto, attraverso un gruppo nazionale di quel livello c'era la possibilità di poter riciclare da parte della mafia tutto quel denaro sporco che altrimenti non avrebbe potuto riciclare. Denaro che proveniva da ben altre attività come quello relativo alla droga.
  Avere quindi questo connubio fra un gruppo di primo livello e un gruppo mafioso e poter «sbiancare» – come si dice – i proventi illeciti era una convenienza per entrambe le parti.
  Questa era un'ipotesi di lavoro su cui stavamo lavorando. Però, ripeto, non c'è niente da fare, quando arrivi a certi livelli poi in un modo o nell'altro vieni sempre fermato.

  PRESIDENTE. Prego, senatore Sallemi.

  SALVATORE SALLEMI. Solo un chiarimento. In riferimento alla richiesta di misura cautelare che lei disse aveva abbozzato, se non ho capito male, ricorda per quali reati nello specifico? Grazie.

  ANTONIO DI PIETRO. Ben volentieri. Io non ho mai contestato il 416, né bis né normale, perché avevo messo in piedi questa tecnica investigativa. Giusta o sbagliata che possa essere considerata, era la tecnica investigativa che avevo messo in piedi. Mi sono detto: se mi metto a contestare un reato associativo devo fare una mega inchiesta e un mega processo che mi terranno impegnato due anni, ed allora la contestazione del reato associativo lo potremo fare successivamente con comodo.Pag. 19
  Certo, se c'è un «cartello» di imprese che si accordano per spartirsi gli appalti come fai a non dire che non c'è un'associazione? Se c'è un «tavolino» dove è il mafioso di riferimento a dare le carte come fai a dire che non c'è un'associazione mafiosa?
  Però io cosa mi ero ripromesso di fare? Ho aperto il fascicolo virtuale, ho avviato questo procedimento contenitore in cui tutti i fatti-reato ci entrano dentro per la cosiddetta connessione probatoria – i miei ex colleghi qui presenti sanno meglio di me cosa intendo – che è una connessione debole perché rispetto alla connessione territoriale, rispetto ad altri tipi di connessione è molto debole, però è una connessione che ti permette, almeno a livello di indagini, di mantenere il fascicolo unitario.
  Allora io ho totalmente e provvisoriamente ignorato il reato di cui all'articolo 416 c.p. e ho sempre contestato il 319 c.p. e il 317 c.p., neanche il 323 c.p. perché io sul 323 c.p. ho sempre avuto delle riserve delle riserve. Io ho sempre pensato che quando uno fa un atto che non doveva fare o non fa un atto che deve fare questo avviene o perché è ignorante e quindi non è reato o perché deve avere qualcosa in cambio. Ecco perché ho sempre focalizzato il mio lavoro per andare a scoprire il corrispettivo piuttosto che discutere se ha sbagliato o meno nell'affermare che due più due che fa quattro piuttosto cinque, tutto qua.

  PRESIDENTE. Soltanto per capire, rispetto alla domanda che le ha fatto il senatore Sallemi, lei ha detto che si è lasciato convincere a trasferire gli atti a Palermo.

  ANTONIO DI PIETRO. No, mi sono lasciato convincere da Borrelli, non da loro. Mi sono lasciato convincere innanzitutto perché la competenza territoriale spettava effettivamente a loro quindi se avessi fatto opposizione avrei dovuto rivolgermi alla Corte di cassazione che sicuramente mi avrebbe dato torto marcio perché la competenza ad indagare su quei fatti di mafia spettava a loro. Ma non si è posto il problema, perché una cosa è come stavo impostando io l'inchiesta altra cosa è ubi maior, così aveva deciso il dottor Borrelli ma non è stata una costrizione, è stata una convinzione la mia, ci mancherebbe altro.
  In quell'incontro abbiamo avuto un confronto anche molto forte, specialmente io e Ingroia, perché volevamo tenere l'indagine, ma c'era grande stima e grande collaborazione reciproca e così si è sviluppata.

  PRESIDENTE. Quindi non è stato un errore? Oggi con il senno di poi considera un errore aver mandato questa parte a Palermo?

  ANTONIO DI PIETRO. Torno a ripetere, non è un errore o una cosa giusta, è quello che la legge prevede. Io non solo ho rispettato la legge, ma l'ho fatto anche con scienza e coscienza, sapendo che mandandolo a Palermo certamente non l'avrei mandato a nascondere. C'era Caselli a Palermo. Sapevo di tutto ciò che c'era stato prima perché anche Li Pera mi aveva detto: «A Palermo non mi danno retta», ma era arrivato Caselli, avevano fatto un pool tipo quello che avevamo fatto noi, ne sapevano quanto noi di come stavano le cose.

  PRESIDENTE. Prego, onorevole Ascari.

  STEFANIA ASCARI(intervento da remoto). Grazie, presidente. Grazie ovviamente al dottor Di Pietro per la sua presenza e il suo importante contributo.
  La mia domanda riguarda il jammer, l'apparecchiatura di sicurezza che disturba le frequenze radio e blocca l'azione dei telecomandi a distanza per gli esplosivi. Durante la sua attività per quanto riguarda il processo Tangentopoli innanzitutto vorrei chiedere se questa apparecchiatura sia stata disposta per la sua sicurezza, qualora ci sia una risposta affermativa chi ha firmato relativamente all'installazione dell'apparecchiatura.
  Poiché lei stesso ha detto che Tangentopoli e Mafiopoli sono due aspetti della stessa medaglia e c'erano contatti con i giudici Falcone e Borsellino, vorrei chiederle se lei ha avuto modo di confrontarsi Pag. 20in merito, vista la pericolosità delle indagini a cui stavano lavorando, se avete avuto modo di parlare di questa apparecchiatura di massima sicurezza dal momento che la loro incolumità era in pericolo, se avete avuto modo di confrontarvi anche sul fatto che nel loro caso non è stata disposta questa apparecchiatura di massima sicurezza. Grazie mille.

  ANTONIO DI PIETRO. Rispondo velocemente. Nulla so e di nulla mi hanno parlato né Falcone né Borsellino in merito a telecomandi e apparecchiature di sicurezza. So però che dopo la strage di via D'Amelio io fui sottoposto a un'attività di massima sicurezza, nel senso che intorno a casa mia, che era una casa isolata, ventiquattro ore su ventiquattro c'erano i carabinieri nei due lati, in modo da coprire i 360 gradi del perimetro. Erano state messe due telecamere che rispondevano direttamente alla questura e quindi in tempo reale tutto ciò che accadeva all'interno di questa casa singola veniva visto dalle telecamere. Avevo i carabinieri o la polizia che si davano i turni. Posso anche dire che quando dovevo andare all'estero per delle rogatorie o per altri motivi, mi era stato fornito un passaporto di copertura in modo che non risultasse da nessuna parte il mio nome. Quindi sono stato protetto e sono soddisfatto della protezione che mi è stata assicurata.

  STEFANIA ASCARI(intervento da remoto). Scusi, solo una precisazione. Solo perché venisse messo a verbale. Per la sua sicurezza il bomb jammer è stato applicato?

  ANTONIO DI PIETRO. So cosa sia adesso, ma all'epoca non si è posto assolutamente il problema. Il tipo di sicurezza applicato a me è stato di una sicurezza proprio fisica, visiva, nel senso che attorno alla mia casa isolata, in mezzo alla campagna, c'erano i carabinieri e non ci si poteva avvicinare. Ripeto, l'ultima cosa che posso fare è lamentarmi di come sono stato assistito nella sicurezza.

  PRESIDENTE. Grazie mille. Senatore Sisler.

  SANDRO SISLER(intervento da remoto). Grazie, presidente. Anzitutto volevo ringraziare anch'io il dottor Di Pietro per la disponibilità e mi dispiace non essere lì con voi in presenza, anche perché non è certo noioso ascoltare il dottor Di Pietro che peraltro è un testimone diretto di una parte importante della storia italiana.
  Ho due domande. Lei al processo Trattativa Stato-mafia ha svolto un parallelo tra le stragi siciliane nel 1992 e la fine dell'inchiesta di Mani Pulite.
  Lei ha affermato: «Io sono convinto» – leggo – «che l'inchiesta Mani Pulite è stata fermata al momento in cui anche l'inchiesta Mani Pulite era arrivata allo stesso punto del rapporto tra mafia e appalti». In realtà lei ha già accennato a questa questione nel suo intervento, ma in sintesi il motivo per cui è stata fermata Tangentopoli secondo lei è questo. Su cosa si basa la sua convinzione? C'erano anche altri motivi oltre a questo? Vuole dirci altro?
  La seconda domanda, giusto per completare. In un'intervista a L'Espresso lei ha specificato che il dossieraggio indirizzato a delegittimarla inizia con l'apertura del fascicolo riguardante Filippo Salamone quando questo fascicolo arrivò a Palermo. Anche di ciò ha già accennato, ma ci può chiarire meglio questa sua affermazione in modo che sia chiaro a tutti? Grazie.

  ANTONIO DI PIETRO. Chiarisco, non vorrei che ci sia un po' di confusione, anche per le informazioni troppe affastellate con cui sto svolgendo la mia audizione.
  L'inchiesta Mani Pulite era un'inchiesta con la quale si poteva scoprire quel sistema di corruzione ambientale che aveva pervaso tutta l'Italia.
  Fino a quando l'attività investigativa galleggiava fra quelli che erano gli accordi di cartello e quelli che erano gli accordi politici, soprattutto nella gestione dell'illecito finanziamento e delle corruzioni all'interno del cosiddetto pentapartito, noi non abbiamo avuto particolari problemi nel proseguire le indagini.Pag. 21
  Solo nei miei personali confronti c'è stato un iniziale problema sin dal primo giorno. Era accaduto che – dopo due o tre giorni dall'arresto in flagranza di Mario Chiesa ci fu una dichiarazione di fuoco di Bettino Craxi nei confronti dell'inchiesta che venne da lui definita politica. Rispose a Craxi il dottor Borrelli precisando: «Ma quale politica! È stato preso con le mani nel sacco, non potevamo non arrestarlo perché è stato preso proprio con i soldi in mano».
  Quindi Craxi cominciò da allora a lanciare accuse contro l'inchiesta Mani Pulite e su di me in particolare. Nel rapporto del Copasir che vi ho consegnato potete riscontrare che fu Bettino Craxi ad ordinare una serie di appunti e dossieraggi nei miei confronti che venivano resi pubblici man mano che io andavo avanti con l'inchiesta e persone sempre più vicino a lui venivano coinvolte. Vennero pubblicati da diverse testate giornalistiche tanti messaggi per dire: «Prima o poi arriveremo pure a te come delegittimazione». Ma questo faceva parte della fisiologia, ogni indagine può avere queste conseguenze, non c'era niente di anomalo.
  Il problema nasce quando noi riusciamo a scavalcare, diciamo così, il connubio appalti-politica e arriviamo al connubio appalti-politica controllato dal sistema mafioso. È da allora che si accentua, ma in quel momento non è più Craxi che si muove, in quel momento è proprio quel sistema mafioso su cui io stavo indagando.
  Il filone d'indagine più delicato era dimostrare che esisteva un partito nel partito, ovvero un soggetto complesso che io avevo identificato nella mia ipotesi investigativa nella cosiddetta «corrente andreottiana».
  Nel 1994 l'inchiesta Mani Pulite ormai aveva raggiunto un livello tale per cui stavamo scoprendo tutto questo. Ecco perché io prima ho detto: «Ogni volta che si cerca di arrivare a un certo livello si viene fermati».
  L'altra volta feci anche l'esempio più banale, vi consegnai un'intervista di Cesare Romiti, massimo dirigente della FIAT, che già all'epoca ammise che non si poteva non pagare. Ma vi ho anche detto che ci sono dei livelli su cui non si riesce ad indagare perché formalmente non si commettono i reati. Al livello più alto non si commettono i reati perché non hanno bisogno di commettere il reato, il lavoro sporco lo fanno gli altri al posto loro, però resta il fatto che alla cima ci sono quelli che danno il boccino per giocare la palla e poi aspettano i risultati.
  Per quanto riguarda la questione della delegittimazione da me sofferta con riferimento a Filippo e Fabio Salamone è una vicenda totalmente diversa.
  Io lo ribadisco anche qui, non vanno confusi il ruolo di Filippo Salamone con il ruolo del PM dottor Fabio Salamone. Il dottor Fabio Salamone non c'entra niente con tutta questa vicenda mafia-appalti. È stato anche lui un povero Cristo che, per i fatti di cui è stato accusato e condannato il fratello, si è trovato a doversi spostare da un'altra parte d'Italia, a Brescia. Quindi non è questo il tema.
  Io mi sono lamentato perché nel 1995, cioè dopo che mi sono dimesso da PM, quello stesso magma di dossier, quello stesso dossieraggio che stava nella cassetta di Dinacci e che in precedenza aveva fatto predisporre Craxi, che era stato portato da Gorrini all'Ispettorato, quegli stessi documenti vengono trasmessi nel 1995 (quando io sono ancora magistrato in aspettativa, tenetelo presente) a Brescia e a Brescia va in mano proprio al dottor Fabio Salamone il quale ha aperto su di me un gruppo di indagini, di cui vi ho consegnato tutti i relativi proscioglimenti. Ma non l'ha fatto per fermarmi nel mio lavoro di PM di Mani Pulite in quanto mi ero già dimesso da quel ruolo, ero già uscito dall'inchiesta e quindi non c'entrano le due cose.
  Quando mi sono lamentato di questa vicenda è perché il PM Fabio Salamone poteva evitare di indagare su di me tant'è vero che è stato poi condannato disciplinarmente perché non doveva farlo, poteva evitare di dar retta a tutti quegli anonimi e a tutti quegli esposti, però so che mi risponderebbe: «C'è l'obbligatorietà dell'azione penale» e avrebbe ragione anche lui.Pag. 22
  Resta il fatto però che se andate su Internet di me si legge peste e corna di quel che avrei commesso e nessuno dice che sono stati condannati tutti quelli che mi hanno accusato.
  I processi e le sentenze però rimangono una mia vittoria privata, ma nella storia rimarrà che io mi sarei reso responsabile di aver fatto un colpo di Stato mentre ho fatto solo il mio dovere.

  PRESIDENTE. Onorevole D'Attis.

  MAURO D'ATTIS. Grazie, presidente. Senatore Di Pietro, perché è stato senatore e rimane il titolo, vorrei fare una premessa. Noi stiamo facendo queste audizioni perché sono emersi dei fatti, sono stati anche depositati degli atti che ci obbligano a guardare con attenzione la vicenda mafia-appalti. Alcuni commissari hanno il ragionevole dubbio di dover approfondire se per esempio alcune attività che sono state svolte nell'indagine Mafia e Appalti ne abbiano condizionato definitivamente, verso un senso o verso un altro, l'esito e addirittura se tutte queste vicende siano connesse a ciò che è accaduto in particolare alla strage di via D'Amelio. Quindi stiamo ascoltando gli auditi perché vogliamo arrivare a capire questo, in particolare farci aiutare da lei a comprendere quanto sia stata importante Tangentopoli. A noi interessa sapere quanto veramente fosse importante l'indagine Mafia e Appalti o almeno se fosse importante, secondo ovviamente a chi chiediamo di essere audito, rispetto a Tangentopoli per riportare la cornice al quadro nel quale stiamo operando.
  Le volevo fare due domande, se può rispondermi.
  Lei nel processo Borsellino ter ha riferito di aver appreso la notizia dell'attentato che si stava organizzando in suo danno e dell'esistenza di dichiarazioni di collaboratori di giustizia, che erano Avola e Brusca, dicendo anche che ha cercato di capire le ragioni per le quali la mafia poteva avercela con lei. Come ho detto in premessa, questo aspetto potrebbe aiutarci.
  Ha compreso poi nel tempo la ragione o le ragioni per le quali l'organizzazione mafiosa siciliana voleva eliminarla?
  L'indagine Tangentopoli o altre indagini da lei condotte in quel periodo potevano toccare o toccavano vicende di cosa nostra che l'hanno portata a trovare questa spiegazione?
  Infine, in un altro processo, quello della Trattativa Stato-mafia, lei ha affermato: «Mi sono fatto un'idea che bisognava che tutta l'inchiesta Mani Pulite nei suoi cardini principali, Milano, Palermo e quante altre parti principali, doveva comunque essere fermata. Me la sono fatta l'idea, io personalmente ne sto subendo ancora le conseguenze».
  Può spiegare alla Commissione quale sia stata secondo lei l'incidenza che ha avuto la cosiddetta fonte Achille, anche con riferimento ai Servizi e ai vertici della Polizia, proprio per quello che è stato segnalato al Copasir nel 1995 e nel 1996 nelle due relazioni? Grazie.

  ANTONIO DI PIETRO. Io innanzitutto vorrei comprendere bene la prima domanda che lei mi ha posto: quando lei parla di Mafia e Appalti e Tangentopoli, il cui esito sarebbe stato condizionato, si riferisce all'inchiesta del ROS del 1991 su Mafia e Appalti o alle inchieste che riguardavano l'intero sistema mafia appalti che vigeva in Sicilia?

  MAURO D'ATTIS. Mi riferisco al Mafia e Appalti che potrebbe essere stato condizionato da archiviazioni per esempio parziali dell'inchiesta...

  ANTONIO DI PIETRO. Quindi si riferisce a questa inchiesta del ROS?

  MAURO D'ATTIS. Questa è la cornice. All'inchiesta del ROS, alla parte archiviata del Mafia e Appalti, questo è l'ambito in cui ci stiamo muovendo.

  ANTONIO DI PIETRO. La parte Mafia e Appalti è una parte dell'inchiesta Mani Pulite. Quindi, che voleva capire il parallelo – uso le sue parole – tra inchiesta Mafia e Appalti e Tangentopoli.
  Io vorrei chiarire ancora una volta che noi non abbiamo fatto l'inchiesta Tangentopoli,Pag. 23 abbiamo fatto l'inchiesta che abbiamo chiamato Mani Pulite. Tangentopoli è quel fenomeno sociale che abbiamo scoperto, quindi non cambiamo le fotografie di quel che accadde in quel periodo.
  L'inchiesta Mafia e Appalti del ROS io non l'ho letta nemmeno, ne ho sentito parlare successivamente, ed il primo che mi ha parlato della situazione siciliana con riferimento agli appalti che si svolgevano in Sicilia è stato Li Pera.
  Gli altri, a cui pure avevo chiesto prima di Li Pera perché non mi dicevano cosa succedeva in Sicilia, mi rispondevano: «Io fino al Rubicone...». Ricordo questa frase, adesso non ricordo se Panzavolta o Canepa, uno di questi – è a verbale – mi disse: «Guardi, io fino al Rubicone le dico tutto quelli che vuole, ma dal Rubicone in giù non le dico più niente perché là non si rischia il portafoglio, si rischia la pelle».
  Quindi questa è la vicenda. Dopodiché, per quanto riguarda l'esito, certamente tutto quello che abbiamo accertato è sotto gli occhi di tutti, ma si poteva accertare anche di più se in Sicilia a suo tempo non avessero fatto quelle stragi.
  Poteva essere accertato ben prima di me quel che è stato accertato. Dopo la morte di Falcone e Borsellino e dopo l'arrivo del dottor Caselli i PM di Palermo hanno preso in mano la situazione e lo hanno accertato loro. A Milano ho accertato quello che ho accertato fin dove ho potuto.
  Lei mi ha fatto la specifica domanda: «Perché lei dice che volevano ammazzarla?». Non è un mio pensiero, è stato detto dagli stessi pentiti. Adesso veramente vorrei chiedere un aiuto a chi ha fatto questa inchiesta, credo che l'abbia fatta la procura di Caltanissetta. Io ho letto che uno dei pentiti, forse Brusca o Avola, ebbe a dire: «Di Pietro lo dovevamo ammazzare perché dovevamo fare un favore a quelli che ce lo chiedevano per quello che stava facendo».
  Più chiaro di così. Certo, anch'io come lei mi chiedo chi è quello a cui dovevano fare il favore. Chi aveva interesse che io non proseguissi in questa indagine? Qui ancora una volta rimane l'amarezza nel constatare sulla propria pelle che si viene sempre fermati ogni volta che si arriva all'ultimo gradino.
  Per quanto riguarda ciò che ho detto nella testimonianza da me resa nel processo Trattativa Stato-mafia, anche lì ho riferito le stesse cose che ho riferito qua. E cioè che c'era, come lei ha ricordato, la fonte Achille. La fonte Achille è quell'insieme di anonimi costruiti non solo sulla mia persona, ma anche sulla mia persona, e su tanti altri magistrati, pure della procura di Milano, che vennero mandati all'Ispettorato per cercare di fermare l'inchiesta. Non ci riuscirono perché gli ispettori archiviarono, però la parte che riguardava me venne riutilizzata in quell'inchiesta particolare riportante il n. 1296/94.
  Torno però a ripetere che stiamo andando fuori tema rispetto al tema che interessa a voi. Credo sia meglio focalizzarci sul perché sia stato fermato Borsellino e perché sia stato fermato io. Questo è il tema a cui credo voi dovete dare una risposta. Noi vi stiamo dando tutti gli elementi affinché possiate dare questa risposta.
  A mio avviso siamo stati fermati non solo per fatti di mafia, siamo stati fermati perché quel che stavamo scoprendo nel rapporto con la mafia arrivava a una realtà alla quale non volevano che potessimo arrivare.
  Io credo che a molti abbia fatto piacere che la mafia abbia ammazzato Borsellino, anch'io vorrei capire chi. Per quanto mi riguarda, io stavo arrivando a quella realtà che ho definito prima e a quella realtà non sono riuscito ad arrivare, perché il 20 novembre con un dossier costruito apposta, talmente grave, potevano arrestarmi. Quindi io ho scelto liberamente di dimettermi, ma certamente non mi sarei dimesso se non ci fosse stata quella realtà. Nessuno mi ha costretto, è stata una mia scelta processuale per portare a casa quel che avevo fatto processualmente e per portare a casa la mia dignità. Tant'è vero che ci sono riuscito perché sono stati condannati quelli che mi hanno accusato falsamente, però l'inchiesta si è fermata.

  PRESIDENTE. Grazie. Onorevole Pittalis.

Pag. 24

  PIETRO PITTALIS(intervento da remoto). Grazie, presidente. Intanto voglio fare una premessa.
  Io penso che nessuno possa negare che trent'anni fa vi fosse una diffusa corruzione nella vita pubblica, in gran parte innescata dal complesso fenomeno del finanziamento della politica, quindi nessuno penso che possa sostenere che quel sistema meritasse l'impunità, per carità.
  Però sentendo ancora oggi le dichiarazioni del senatore Di Pietro mi pare di fotografare la situazione di un Paese che ha subito una involuzione da Stato costituzionale democratico di diritto a una sorta di Stato giudiziario con una missione finalizzata più a moralizzare la società che non perseguire i singoli reati.
  Lo stesso dottor Di Pietro in qualche non lontana intervista a un settimanale mi pare che abbia dichiarato: «Ho fatto una politica sulla paura, la paura delle manette, la paura del “sono tutti criminali”». Voglio chiedere al dottor Di Pietro se questa impostazione non abbia determinato le sue dimissioni e se in un atto di resipiscenza, da persona perbene quale io la ritengo, si sia ricreduta di quei sistemi.
  La domanda specifica che voglio rivolgerle è se tra gli imprenditori che lei interrogò e che le svelarono il sistema delle tangenti alla politica come pratica diffusa e generalizzata, qualcuno le parlò del ruolo di Siino e Salamone e del sistema delle tangenti in Sicilia. Mi pare di avere capito così dalle sue dichiarazioni. Ciò accadde già prima dei suoi incontri con il dottor Borsellino? Può dire quali imprenditori fecero queste dichiarazioni? Infine, c'erano in particolare anche imprenditori siciliani? Grazie.

  ANTONIO DI PIETRO. Rispondo subito a questa seconda domanda. Ho consegnato nell'altra mia audizione e ho allegato anche oggi l'elenco degli imprenditori che io ho sentito sin dall'aprile-maggio del 1992 e fino a quando mi sono dimesso che avevano appalti in Sicilia. A partire dal novembre 1992, a seguito delle dichiarazioni di Li Pera, cominciai ad avere notizie anche su quel che rappresentavano Filippo Salamone e Angelo Siino, vi ho prodotto anche i relativi verbali.
  Comunque, in quella mia memoria al procuratore generale di Brescia (la numero 3 dell'elenco che ho depositato l'altro giorno) c'è l'elenco completo degli imprenditori che mi hanno parlato di come venivano gestiti gli appalti in Sicilia. Ho depositato oggi un riassunto di cosa esattamente hanno detto tutti questi imprenditori quando sono stati da me interrogati. Quindi sotto questo aspetto avete la documentazione completa che conferma il periodo in cui ho cominciato ad avere conoscenza di queste vicende.
  Con la seconda domanda a me pare che il senatore Pittalis abbia posto un problema che è il problema di sempre. Ovviamente ho il massimo rispetto per il senatore, ma non condivido questa sua analisi e ho il dovere di rispondere proprio perché riguarda non solo la mia persona, ma riguarda l'attività dell'Autorità giudiziaria della procura di Milano in quegli anni.
  È stato detto da chi mi ha fatto la domanda se è vero che in quell'epoca c'era una situazione di illecito finanziamento alla politica. È vero, questa era la base, ma non è vero che c'era solo questa, perché questa era una base e una giustificazione perché la maggior parte delle somme di denaro che noi abbiamo acquisito se le sono prese loro, e non per fare la politica.
  Secondo, noi spesso veniamo accusati di aver realizzato uno Stato giudiziario, è stato detto, testualmente, per moralizzare il Paese e non per perseguire il reato.
  Trovatemi un solo atto giudiziario che non è un interrogatorio in cui non ci sia una confessione di un reato commesso.
  Con questo voglio dire che i fatti che abbiamo scoperto non sono una nostra invenzione, non è un teorema giudiziario, è un fatto vero ed accertato. In quel momento il sistema illegale di Tangentopoli si era talmente ingolfato che non riusciva più a gestirsi ed autocontrollarsi ed è così stato possibile per noi entrare all'interno di quel sistema, non violentando nessuno come si vuol far credere, ma semplicemente adottando una tecnica investigativa innovativa: quella di non indagare più sui fatti di Pag. 25corruzione perché nessuno parlava di fatti di cui era corresponsabile, men che meno quelli che erano parlamentari in quanto avevano l'articolo 68 della Costituzione che garantiva loro che nessuno poteva svolgere qualsiasi indagine nei loro confronti; ma di invertire la tecnica d'indagine indagando sui falsi in bilancio perché i falsi in bilancio sono per gli imprenditori la cosa più importante, che hanno più a cuore perché sono i soldi che hanno in tasca.
  La nostra investigazione non ha costretto gli imprenditori a venire da noi, c'era la fila degli imprenditori che venivano spontaneamente da noi. Per un motivo molto semplice: perché rispetto alla propria azienda e a quel politico o a quel pubblico funzionario che ha preso i loro soldi, loro difendevano la loro azienda.
  Quindi noi, gentile senatore, non abbiamo fatto un'attività di moralizzazione, noi abbiamo fatto il nostro dovere perché per fortuna c'è una magistratura, c'è una Costituzione che assicura una cosa fondamentale nel nostro Paese: l'obbligatorietà dell'azione penale.
  Quindi mi spieghi per quale ragione io, quando ho a che fare con uno che fa politica e prende i soldi, non devo agire nei suoi confronti?
  Così come hanno agito nei miei confronti quando mi hanno accusato di aver commesso dei reati. Io però sono corso dal mio magistrato e mi sono fatto processare. Certo, per me era facile, ero innocente. Ma non è che la puoi buttare in politica perché non sei innocente. È troppo bello questo, è troppo da furbi tutto questo e io non lo posso accettare.
  Io torno a ripetere, la colpa di quel che è successo è dei magistrati che hanno scoperto i fatti o di quelli che li hanno commessi? La colpa è del chirurgo che ti opera il tumore o tu che continui a fumare e ti becchi un'altra volta il tumore?
  Questo è il tema che dobbiamo porre all'attenzione. Dopodiché la storia la racconterà come vorrà; ma io vado fiero di quel che ho fatto perché ho fatto il mio dovere.
  Non ho ideato assolutamente uno Stato giudiziario, non ho fatto assolutamente un colpo di Stato. Non permetto a nessuno di accusarmi di questo perché ho rischiato la vita e ci ho rimesso la famiglia per fare il mio dovere.

  PRESIDENTE. Grazie. Senatore Scarpinato, se voleva aggiungere una domanda abbiamo ancora qualche minuto.

  ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO(intervento da remoto). A proposito dell'attentato a Di Pietro, il collaboratore Avola ha dichiarato che quell'attentato era finalizzato a coprire gli interessi illeciti che facevano capo anche all'avvocato Cesare Previti. Se Di Pietro può dare una chiave di lettura su questo interesse, fermo restando che non è stata riscontrata questa dichiarazione.

  ANTONIO DI PIETRO. Il riscontro glielo posso dare io e glielo do invitandola e invitando i suoi colleghi a leggere un documento che io ho prodotto, che è la sentenza numero 65/97 del tribunale di Brescia. In quella sentenza viene fuori proprio il nome di Cesare Previti come colui che ha fatto da interfaccia fra Paolo Berlusconi e il capo degli ispettori Ugo Dinacci e che ha indicato a chi rivolgersi per depositare quelle famose dichiarazioni spontanee. Gorrini doveva fare quelle dichiarazioni spontanee da cui è nata quella sub inchiesta disciplinare nei miei confronti proprio a metà novembre; inchiesta che è rimasta segreta ed è stata subito archiviata appena io mi sono sospeso dall'attività di magistrato. Quella inchiesta è nata da una dichiarazione spontanea resa da Gorrini a Dinacci, su richiesta di Paolo Berlusconi, che lo ha invitato ad andare da Dinacci. In quella sentenza si riferisce essere stato Cesare Previti la persona a cui Paolo Berlusconi ha chiesto a chi rivolgersi per mandare Gorrini ad accusarmi.

  PRESIDENTE. Grazie mille. Prima di concludere faccio solo una domanda per aiutare tutti e me per prima. Ritorno a Borsellino, perché il tema era principalmente questo, per fare chiarezza rispetto a quello che ci siamo detti. Nel verbale dell'aprilePag. 26 del 1999, quindi parliamo del Borsellino ter, lei ha dichiarato che dopo la morte di Borsellino non ebbe più contatti con Palermo perché le era mancato l'interlocutore. Questo me lo può confermare? Questo dà un quadro rispetto al racconto che abbiamo fatto qui che serve a noi per capire quali ulteriori approfondimenti dobbiamo fare dopo la sua audizione.

  ANTONIO DI PIETRO. Confermo. Punto. Con riferimento invece alla domanda che ha fatto prima il dottor Scarpinato, non vorrei creare confusione. Cosa ha detto Avola non lo so. Io vi ho precisato quel che risulta nella sentenza numero 65/97 del tribunale di Brescia e cioè che il tramite di Paolo Berlusconi per permettere a Gorrini di andare da Dinacci è stato Previti. Io sapevo che Brusca aveva detto qualcosa di me, adesso ci si aggiunge pure Avola. Meno male, sono contento di stare qua.

  PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Di Pietro e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 13.30.